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Bel-Ami – Guy De Maupassant

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George Duroy si era trasferito a Parigi, dopo un soggiorno in Africa in qualità di soldato, soggiorno nel quale si comporta da più da predone che da gentiluomo. La sua ambizione, unita allo scarso attaccamento ai valori della divisa, lo conducono a Parigi, città nella quale sperava di poter arrivare a ben altri lidi. Ma al principio non fu così semplice, la grande città si presentò come un mare nel quale non si riconoscono navigli amici, ma solo neutrali. Il posto di lavoro alle ferrovie non gli garantiva neppure il tanto sufficiente per vivere:

Quando fu sul marciapiede, rimase per un attimo immobile, incerto sul da farsi. Era il 28 di giugno, e gli restavano in tasca solo tre franchi e quaranta per tirare avanti fino alla fine del mese. Il che significava due pranzi senza colazione, o due colazioni senza pranzo. Dato che i pasti del mattino costavano ventidue soldi rispetto ai trenta di quelli della sera, pensò che limitandosi ai primi gli sarebbe avanzato un franco e venti centesimi, la qual cosa significava altri due spuntini a base di pane e salame, più due boccali di birra sul boulevard. Ch’era poi tutta la spesa e tutto il piacere delle sue notti…[1]

Tutto ha un costo, tutto ha un prezzo, specialmente in una città in cui si vive senza appoggi, senza famiglia e senza amici. Ma la grande città è anche il luogo delle grandi occasioni e così fu per Duroy. Passeggiando ritrova un suo amico camerata, Charles Forestier. George riconobbe il suo vecchio compagno d’arme, sollecitato dal bisogno di trovare qualcuno che potesse pagargli un boccale di birra. E fu così che si riallaccia un vecchio contatto. George spiega a Charles la sua situazione, di come egli non riesca in alcun modo a farsi una posizione e di come sia senza alcun aiuto né conoscenza. Forestier decise di prestare al vecchio compagno due luigi d’oro e di aiutarlo nella difficile vita parigina. Gli offre un lavoro al giornale “La via Francese”, dopo averlo fatto conoscere al capo, un ebreo affarista spregiudicato, il signor Walter, al pranzo che avrebbe tenuto a casa l’indomani. Siccome l’indumento, nell’alta società parigina, conta ben di più che le qualità umane e lavorative, Forestier consiglia a Duroy di affittarsi un buon abito.

Come Duroy fu lasciato solo, si trova al cospetto di una “donna d’amore” per le quali non provava nessun disprezzo: “Tuttavia gli piacevano i luoghi dove brulicavano le ragazze di vita, i loro balli, i loro caffè, le loro strade; gli piaceva stargli a contatto di gomito, parlargli, dargli del tu, odorare i loro profumi violenti, sentirsele accanto. Si trattava pur sempre di donne e di donne d’amore. Non le disprezzava affatto di quel disprezzo innato dei borghesi casa e famiglia.”[2]

Duroy era un uomo pratico, le cui idee, al principio, non erano ancora così ben definite, come più avanti nella sua vita. Tuttavia, aveva ben chiara l’intenzione di voler fuoriuscire dallo stato di minorità, rispetto al bel mondo parigino, posizione che, ancora, lo vedeva come una nullità. Egli, infatti, adottava volentieri le valutazioni di chi, secondo lui, contava veramente. Di conseguenza, George apprendeva i valori della vita e i suoi principi in base a chi deteneva il potere reale sulla vita degli altri uomini. In questo senso, egli si rendeva ben conto della differenza tra il lavoro per la sopravvivenza e il lavoro per il riconoscimento sociale. E il riconoscimento sociale, nel mondo parigino, passava attraverso i titoli nobiliari e i soldi, ma soprattutto da questi ultimi giacché un titolo si poteva, comunque, acquistare attraverso le sostanze.

Il pranzo a casa di Forestier lo mette a contatto con alcuni personaggi centrali dell’intera vicenda e del mondo parigino: il signor e la signora Walter, Madelain Forestier, Clotilde De Marelle e altri. In quell’occasione, Duroy, ancora inesperto e inconsapevole della sua prorompente capacità di far colpo sulle donne, si muove con cautela e con molta soggezione, come chi non sa ancora con quali forze deve lottare. Sopravvalutava quel mondo, apparentemente così libero dai problemi e così capace di costruirsi un’immagine di solida serietà, sullo sfondo di un ben più solido senso di nullità. Ma Duroy è molto attento a tutto ciò che lo circonda, studia il comportamento degli altri e, in base alle presunte valutazioni che altri fanno di lui, egli si comporta di conseguenza. Alla fine, viene assunto al giornale per scrivere alcuni articoli sul suo soggiorno in Africa, giacché il tema è molto “attuale” per via dei nuovi interessi che la Francia andava maturando in quegli anni: è il periodo dell’imperialismo selvaggio e della terza repubblica, nella quale gli avventurieri e gli affaristi conducono politiche senza scrupoli ai danni delle popolazioni del resto del mondo.

Al principio Duroy non è in grado neppure di scrivere una pagina di giornale, il che la dice lunga sulle sue qualità di uomo di lettere. Persona incolta, priva di idee, senza capacità critiche e analitiche, si ritrova ben presto nell’incapacità di portare avanti il suo lavoro ed è costretto a chiedere aiuto a Forestier che, in quella prima occasione, lo mette sotto l’ala protettiva della sua musa ispiratrice, l’ambiziosa moglie Madelain la quale detta a Duroy l’articolo per intero. La gioia per la prima pubblicazione conduce George a sovrastimare le sue capacità e il suo ruolo. Così si dà alle spese e perde il suo tempo, pensando di essere ormai in grado di scrivere un articolo. Ma non è così. E questa volta il suo amico Forestier, giusto per ricordargli che la sua permanenza al giornale dipende dal suo lavoro e non dal suo perder tempo, non gli presta alcun aiuto. George cambia ruolo e gli viene affidato il compito del reporter di cose politiche, ma impara subito, da un suo collega, come si può inventare una buona intervista senza aver parlato con nessuno: basta prendere le opinioni diffuse e le aspettative della gente e metterle sottoforma di dialogo. Grazie a questo nuovo lavoro, però, Duroy incomincia a farsi contatti e ad avere un’idea più precisa dell’affare pubblico e della fauna che conduce la politica nella capitale. Rimane il fatto che, comunque, spende ben più di quel che guadagna, perché deve condurre una vita di tenore diverso rispetto a quella di prima, un tenore di vita per sostentare un’apparenza di libertà. E’ in questo periodo che George fa conoscenza della signora Clotilde, una donna sposata di bella presenza, con una figlia ancora bambina la quale diventa amica di George. Lentamente George si rende conto che le donne subiscono il suo fascino e incomincia a circuire la signora de Marelle, la quale, succube della solitudine impostale dal marito che soggiorna per lo più fuori città, dopo una cena con i Forestier, diventa la sua amante, la prima. Grazie a Clotilde, George si può permettere un locale migliore, rispetto alla prima abitazione, un monolocale scadente. Clotilde ama soggiornare in luoghi equivoci e pieni di gente poco dabbene. In particolare, la eccita l’idea di fare la parte della cortigiana e di passarsi per donna del piccolo mondo. Grazie a questa sua “passione” costringe George a trascorrere intere serate in locali di dubbio gusto. Ma quando viene insultata da due disgraziati del condominio di Duroy, ella decide che mai più avrebbe messo piede li dentro. E così, anche George finisce per trasferirsi in un altro locale, pagato da Clotilde.

Per via di un’accusa infondata da un avversario giornalista, George è costretto a rimediare all’offesa attraverso un duello. E’ la prima volta che Duroy si trova faccia a faccia con la morte, la cui angoscia e il cui terrore egli non sarà mai in grado di vincere. Il duello si svolge fuori città, con le pistole e nessuno dei due contendenti risulta ferito. Entrambi, dunque, salvano la faccia. La notizia fa il giro della città e l’immagine di Duroy ne esce ulteriormente rafforzata perché ha salvato l’onore del giornale, come lo stesso direttore gli notifica.

Nel frattempo, Forestier, che è afflitto da un grave male ai polmoni, ha una crisi devastante ed è costretto ad andare a svernare in posti meno freddi. Duroy che, nel frattempo, aveva maturato una cotta per la signora Forestier, incomincia a circuire anche lei, nel tentativo che di divenir suo amante. Non è ben chiaro quanto le intenzioni di Duroy siano genuine e dettate esclusivamente dall’amore. Senza dubbio, era ben conscio dei vantaggi che avrebbe acquisito con l’amore della signora Forestier. Al principio, Madelain si rifiuta, ma alla morte del marito, sopraggiunta dopo poco tempo, cede alle richieste di Duroy. Ella, infatti, era una persona dalle idee chiare, che sapeva accettare il ruolo della donna subalterna di un uomo intraprendente, capace di spianarle la strada indiretta al bel mondo parigino, per goderne interamente i suoi frutti. D’altra parte, Madelain stessa, figlia di padre ignoto e di una governante, sa bene che non vuole rinunciare ai vantaggi della sua posizione, conquistata grazie alla convivenza con un uomo spregiudicato ma non abbastanza. E solo con un uomo spregiudicato a sufficienza poteva sperare di diventare una donna importante all’interno della politica parigina. George Duroy faceva al caso suo a tal punto che riesce a convincerlo a cambiar cognome. George e Madelaine, infatti, sono molto simili nelle ambizioni e negli ideali.

Duroy non cambia di molto le sue abitudini, dopo essersi sposato con Madelaine, ma incomincia ben presto a dubitare della sua fedeltà. D’altra parte, non si può certo dire che George rinunci a tutti i vantaggi della sua bellezza. Dopo aver consolidato il suo ruolo all’interno del giornale, che, ormai, conta su di lui e sulla sua “firma”, incomincia a nutrire ben presto un’ambizione smisurata, incapace di placarsi di fronte alla nuova consolidata fortuna. Il momento di passaggio, durante il quale la sua velata ambizione  diventa fonte di una rinnovata volontà di rivalsa assoluta nei confronti del mondo, è quando si rende conto che Madelain ha diverse relazioni extraconiugali, sebbene sia sempre capace di salvare le apparenze. La sua praticità diventa brutalità, la sua volontà diventa determinazione. Dopo aver ripreso a vedersi con Clotilde, con la quale ha in comune il piacere per la sessualità e la necessità di qualche tenerezza infantile, comprende che Madelaine non è in grado di garantirgli quella scalata sociale che lo potrebbe condurre fino ai vertici dello Stato. Infatti, il mondo politico, costituito da uomini mediocri, uomini dediti esclusivamente al proprio guadagno economico personale, lo disgusta per l’inettitudine per la sola ragione che egli si ritiene “migliore” di chi lo compone. Consapevole del suo fascino diventa ben presto l’amante della potente signora Walter, la quale, dopo alcune rimostranze, cederà al suo fascino, divenendo un’appassionata sostenitrice della sua causa. Neppure il guadagno di una cospicua eredità gli consente di vivere in pace e, anzi, diventa ancora più schiavo del denaro e dei titoli e delle qualifiche altrui. Ma per diventare ministro gli occorre una posizione ancora più consolidata, dal valore pubblico cristallino che solo un buon matrimonio gli consente. Così chiama un poliziotto, fa scoprire l’adulterio della moglie e riuscirà a sposarsi con la figlia dei signori Walter, dopo aver fatto impazzire di dolore la madre e dopo aver condannato alla gogna un ministro e la sua vecchia moglie. Ma il matrimonio tra lui e la signorina Walter è sontuoso, una cerimonia a cui tutta Parigi vuole partecipare e alla cui conclusione, ancora una volta, l’occhio cade su Clotilde, l’unica donna che, bene o male, è riuscito ad amare, sebbene in un senso molto vago e poco chiaro. Il trionfo di George Duroy è anche la conclusione del libro.

Bel-Ami è il nomignolo dato a Duroy dalla figlia di Clotilde, l’unica che si accorge della malvagità di George e al quale non accorderà più il suo affetto, a differenza di tutte le altre donne. L’ironia del soprannome è, forse, l’unico tocco ironico dell’intero romanzo. In esso regna un senso di gravità che è alleviato solo dalla sensazione che il mondo descritto sia lo specchio della vacuità stessa, capace di incatenare un uomo, ma non di innalzarlo dalla condizione di miseria. Il tema principale, infatti, è la narrazione di una persona spregiudicata, senza principi solidi, capace di plasmarsi esclusivamente sulla base dei nuovi e sempre più ambiziosi ideali. Duroy, infatti, è un personaggio instabile, nonostante tutto, perché non ha una coscienza solida, egli è incapace di “studiare se stesso” dal di fuori e di rendersi conto della sua totale nullità. Il suo istinto primordiale lo costringe ad una nuova azione, ad una nuova sfida, quando si dà la possibilità di una qualche forma larvale di riflessione introspettiva. Non c’è spazio per un ripensamento sui valori dell’individuo perché l’individuo è totalmente schiavo della sua immagine: essa è, infatti, l’unico oggetto di interesse da parte della comunità e, per riflesso, per il soggetto stesso. Per questo Duroy diventa schiavo del denaro e delle donne e dei titoli, perché sono gli unici strumenti attraverso i quali può arrivare ad essere il dominatore assoluto, l’uomo che tutti temono e che tutti vogliono avere come amico, sebbene nessuno stima e nessuno ama, per sé stesso. Ma lo specchio distorcente dell’apparenza, che è l’unica forma di sostanza in grado di dare una parvenza di valore all’uomo di questa risma, costringe Duroy ad essere solo una marionetta nelle mani della società o, per meglio dire, dei suoi pregiudizi. In questa dimensione in cui l’azione e la passione costituiscono gli unici moventi possibili, si comprende quanto sia distante la narrativa del “vedersi vivere”, così ben chiara a quel genio di Wells, di Conrad o di Pirandello, non molto distanti nel tempo da Maupassant. In Bel-Ami c’è solo un individuo totalmente prono alle sfuggenti voglie del suo animo, il cui terrore per la riflessione e il ripensamento è pari solo alla paura della decadenza fisica e della morte.

Il romanzo si muove tra gli estremi di un realismo schietto e di una finzione ricercata, dove il confine non è mai molto chiaro. Maupassant scrive come narratore esterno, sebbene sia sempre capace di infondere vita alla realtà che descrive. Anzi, si può dire che le cose siano “intrise” di sensualità, di moti passionali, quasi fossero un’estensione del personaggio. Ma è soprattutto vero l’inverso: sono i personaggi ad essere delle estensioni degli oggetti, nella misura in cui essi non sono mai in grado di estraniarsi dal loro ambiente, di assumere dei sentimenti e dei ragionamenti che non siano già dettati dalle circostanze. Al limite, essi fuggono dalla realtà in senso fisico (come capita più volta a Duroy) ma non sono in grado di farlo in senso interiore. Il romanzo è, in fondo, la descrizione perfetta dell’umanità schiava, coatta e capace di imporre il proprio malessere e le proprie regole al mondo. I personaggi sono tutti parte della società che prende parte alle decisioni della politica, che ne determina le mosse e i limiti e, di conseguenza, sono anche coloro che, con il loro esempio e con i loro valori, determinano l’evoluzione stessa dello Stato e della società (si prenda il caso della guerra africana così ingiusta). Non c’è alcuna speranza nel mondo di Maupassant, quando neppure l’arte riesce a salvare l’umanità da questa barbarie raffinata ma ancora più brutale ed insensata proprio perché raffinata nella sua totale cecità e vacua:

Il poeta rispose: “(…) La vita è una salita. Mentre vai su, guardi in alto, alla cima, e ti senti felice; ma quando l’hai raggiunta, quella cima, scopri di colpo la discesa, e la fine, che è la morte. Si va adagio a salire, ma si fa molto presto a scendere. Alla sua età, si è felici, pieni di gioia e di speranze che, del resto, non si realizzeranno mai. Alla mia invece, non ci si aspetta più nulla… solo la morte”.[3]

E’ un mondo, dunque, che non si salva dalla solitudine e che è incapace di trovare delle buone risposte ai mali della vita. La concezione della vita di Maupassant è, molto probabilmente, portata dallo stesso poeta, De Varenne, e questo è suggerito proprio dal fatto che (1) in nessun personaggio del libro si trova una risposta positiva ai problemi della vita e (2) per il fatto che il poeta stesso, l’unico che riporta un’opinione soppesata e frutto di analisi introspettiva, totalmente assente negli altri personaggi, non sia che la resa alla morte (come dice sopra) e alla solitudine:

Norbert de Varenne ricominciò a parlare: “Si sposi, amico mio, lei non sa, non può sapere che cosa significa vivere soli, alla mia età. La solitudine in casa, la sera, davanti al camino. Mi pare allora d’essere solo sulla terra, orribilmente solo, ma circondato da pericoli vaghi, da cose ignote e spaventose; e la parete che mi divide dai vicini che non conosco, me li allontana quasi fossero stelle, le stesse che vedo dalla mia finestra. E mi prende una sorta di febbre, ch’è dolore e paura, e il silenzio dei muri mi spaventa. E così fondo e triste, il silenzio di una stanza in cui si vive soli. Non è un silenzio che stia semplicemente intorno al corpo, è un silenzio che sta intorno all’anima, e, quando scricchiola un mobile, sussulti fin dentro al cuore per ché nei luoghi spenti non s’aspettan rumori.”[4]

Come se il matrimonio possa salvare l’individuo da quella solitudine umana che è, invece, conseguenza dell’accettazione dei valori posticci e farlocchi della borghesia (di cui il matrimonio fa parte).

Il mondo del giornalismo è lo specchio della società, non c’è speranza in chi riporta le opinioni di chi non vale niente e, in questo, non sembra che l’evoluzione storica abbia apportato sensibili miglioramenti ad una delle categorie più inutili che la storia dell’umanità abbia mai saputo proporre. Maupassant, sebbene sia molto raramente capace di ironia perché troppo assorbito egli stesso come narratore per concedersi un po’ di distacco, riesce a far sorridere nella descrizione della vita di redazione del giornale di Duory:

Uno dei redattori che aveva finito di lavorare prese a sua volta un bilboquet dall’armadio; era un omettino che pareva un bimbo, benché avesse trentacinque anni; nel frattempo, alcuni giornalisti ch’erano appena entrati andarono anch’essi a prendersi i loro giocattoli. E presto furono in sei, uno accanto all’altro, le spalle al muro, a lanciare per aria, tutti con il medesimo gesto armonioso e regolare, le palle rosse, gialle o nere a seconda della natura del legno. Ed essendosi ingaggiata una gara, i due redattori che stavano ancora lavorando si alzarono per fare i giudici.[5]

D’altra parte, non c’è spazio per l’ironia nella descrizione del “giornalista ideale”, un uomo dedito al lavoro e, per ciò, apparentemente onesto. Ma Maupassant non ha pietà per un essere che vende il proprio pensiero al miglior offerente, lasciando intendere che c’è molta più disonestà nel mondo della stampa, una disonestà molto più sottile e profonda, rispetto a categorie che altri considerano più umilianti come le prostitute. Ma questa descrizione lascia spazio a pochi dubbi:

Fino a quel momento, tale incarico era stato tenuto da Boiseranrd, il segretario di redazione, un vecchio giornalista corretto, puntuale e meticoloso come un impiegato. In trent’anni, era stato segretario di redazione in undici giornali diversi senza mai modificare il suo modo di fare o di vedere. Passava da una redazione all’altra come si cambia ristorante, accorgendosi a stento che in cucina il gusto non era proprio lo stesso. Le opinioni politiche e religiose gli rimanevano affatto estranee. Era tutto tedito al giornale, quale che fosse, pratico del mestiere e prezioso per la sua esperienza. Lavorava come un cieco che non vede nulla, come un sordo che non ode nulla, e come un muto che non parla mai di nulla. Era tuttavia d’un’estrema lealtà professionale, e non si sarebbe mai prestato a far qualcosa che non avesse ritenuto onesto, leale e corretto, dal particolare punto di vista del suo mestiere.[6]

Bel-Ami è pervaso da un sensualismo prorompente che fa da contraltare al nichilismo dell’umanità che lo pervade. Si può ben dire che sia proprio il nichilismo ad essere il personaggio principale, nichilismo che viene presentato in tutta la sua varietà di forme. Molto probabilmente Maupassant non era consapevole di questo fatto, come, invece, doveva essere Turgenev, che in Padri e figli costruisce un personaggio fondamentale consapevole del suo essere nichilista (non a caso, la parola “nichilista” fa spesso capolino nel capolavoro di Turgenev). Ma il grande genio francese non ricade nella categoria di scrittori sensibili alle riflessioni morali e metafisiche, ed è capace di restituire perfettamente ciò che vede e ciò che prova e, in ciò, si sostanzia la sua stessa grandezza: Maupassant si legge volentieri proprio per questo, a differenza degli eccessi di un Dostoevskij, che è troppo filosofo scrittore per essere solo uno scrittore e, in ciò, sta principalmente il suo limite, limite che è il contrario di quello di Maupassant.

L’espressione in immagini del nichilismo passa attraverso una prosa sensualistica e, a tratti, decadente nella quale le passioni profonde e la proiezione di esse nella realtà diventano a tal punto ambigue e ambivalenti da valere sia in senso vitalistico che in senso mortifero. La morte, la distruzione, il deperimento costituiscono un continuo sfondo sentimentale alla voglia di vivere ad ogni costo, voglia di vivere che si limita all’estrinsecazione degli aspetti più brutali dell’essere umano, surrogati di quegli istinti primordiali perché filtrati attraverso le categorie borghesi che rendono, in questo modo, l’istinto alla vita un fatto deprecabile, brutale e incapace di avere un valore positivo. Il terrore generato dalla dispersione è descritto in modo straordinario dal passo in cui la vita, ancora presente a livello biologico, lotta per non soccombere alla distruzione della morte: “In qualche ora, infatti, la barba era cresciuta su quelle carni già putride come, in qualche giorno, può crescere sulla faccia di un vivo. E di fronte alla vita che continua su quel morto, rimasero atterriti come davanti a un prodigio terribile, a una minaccia soprannaturale di resurrezione, a una di quelle cose anormali e paurose che sconvolgono e confondono l’intelletto.”[7]

Va da sé che non c’è spazio alcuno per la riflessione, per un senso più elevato di umanità, di socialità. E la religione, che tanti credono così forte e profondamente radicata nell’ottocento, non compare minimamente, se non come palliativo molto apparente e sempre totalmente inutile. Il cattolicesimo costituisce esclusivamente un contraltare religioso al nichilismo reale. Una maschera, ormai neanche più utile per l’apparenza nell’interiorità, troppo invasa da altre forme di finzione: meglio fingere di essere persone importanti che hanno uno scopo (non si sa quale) nella vita, piuttosto che fingere di credere in qualcosa di cui si ignora totalmente la sostanza (Dio c’è?, Dio non c’è? che differenza fa se nessuno ci crede, se tutti hanno altre qualifiche nel cuore e nel cervello?). A tal proposito, lo spazio per la religiosità in questo mondo nichilistico, è magistralmente descritta da Maupassant, attraverso i pensieri dello stesso George:

Decisamente le chiese le son di tutto un po’!” si diceva. “La consolano d’aver sposato un ebreo, le danno un’aria di protesta nel mondo politico, un’aria di perbenismo nella società, e le forniscono un asilo per gl’incontri galanti. Ecco cosa significa l’abitudine di servirsi della religione come di un accessorio a mille usi! Se il tempo è bello, ti fa da bastone, se c’è il sole, ti fa da parasole, se piove, ti fa da ombrello, e, se non esci, lo lasci in anticamera. Ce ne sono a centinaia, di donne come lei, che si fanno un baffo del buon Dio, ma non vogliono che se ne parli e, quando capita, se ne servono come d’un intermediario. Se si sentissero proporre una camera ammobiliata, la troverebbero un’infamia, ma trovano normalissimo filare il prefetto amore ai piedi di un altare”.[8]

In questo passo c’è ben più che l’opinione di un personaggio, proprio perché il personaggio stesso ben difficilmente si sarebbe slanciato in una digressione sui valori della religione (di cui egli non nutre alcun interesse e opinione e, dunque, nessun senso critico) se non fosse che Maupassant stesso doveva pensare qualcosa di simile, se non altro riteneva che molti uomini la vivessero in quel modo.

L’unico limite che si può ravvisare in questo capolavoro è proprio l’assenza di un’umanità diversa, che pure esiste. Esiste anche il prete che ci crede onestamente, esiste anche il letterato che non crede nella distruzione dell’arte, esiste anche lo scienziato che non crede che la scienza sia vana, come esiste il filosofo che non crede che le passioni siano l’unico movente per le azioni umane. Ma esiste anche l’uomo della strada buono (una minoranza, ma esiste) che crede in valori più elevati di un mondo destinato alla distruzione, alla ripetizione di epoca in epoca, che continuerà ad illudersi e a far del male all’umanità. Maupassant sembra arrendersi a questa umanità, quasi gli concedesse un eccesso di dignità, laddove egli stesso non arriva a formulare una risposta alternativa: le parole del poeta De Varenne ci fanno propendere proprio a questa lettura radicale perché è l’unico che esprime un’opinione di un minimo di sostanza. D’altra parte, come molti cantori di questa umanità ai minimi termini, di questa umanità così profondamente superficiale e inutile, così incapace di vivere in modo diverso da un oggetto perché profondamente simile ad un giocattolo a molla, Maupassant sembra essere stato condotto alla pazzia proprio da una concezione nella quale non c’è nessuna valida risposta e, dunque, c’è solo la resa incondizionata al male peggiore della vita: il nichilismo reale.

Detto questo, la grandezza di questo romanzo, come quella dell’ancor più grande Una vita, consiste proprio nella sua straordinaria coerenza, perfezione, sia nella sostanza che nella forma. Maupassant è il poeta dell’umanità di ogni tempo, di quella parte dell’umanità destinata solo ad essere mangiata dai vermi e inesorabilmente dimenticata nel giro d’un batter d’ali di farfalla, ma non per questo incapace di peggiorare il mondo, così da replicare uno stato di cose che gli dia una parvenza di giustificazione.


Guy De MAPASSANT

BEL-AMI

MONDADORI

PAGINE: 367.

EURO: 7,65.


[1] Maupassant D. G. (1885), Bel-Ami, Mondadori, Milano, 1979, p. 5.

[2] Maupassant D. G. (1885), Bel-Ami, Mondadori, Milano, 1979, p. 6.

[3] Maupassant D. G. (1885), Bel-Ami, Mondadori, Milano, 1979, p. 109.

[4] Maupassant D. G. (1885), Bel-Ami, Mondadori, Milano, 1979, p. 111.

[5] Maupassant D. G. (1885), Bel-Ami, Mondadori, Milano, 1979, p. 46.

[6] Maupassant D. G. (1885), Bel-Ami, Mondadori, Milano, 1979, p. 99.

[7] Maupassant D. G. (1885), Bel-Ami, Mondadori, Milano, 1979, p. 149.

[8] Maupassant D. G. (1885), Bel-Ami, Mondadori, Milano, 1979, p. 207.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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