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La bestia umana – Émile Zola

Non c’è che dire, è una bella invenzione [la ferrovia], si sanno più cose… Ma le bestie feroci restano bestie feroci, e avranno un bell’inventare meccanismi ancora più perfetti; nell’ombra vi saranno sempre delle bestie feroci.

Émile Zola


La bestia umana è un romanzo di Émile Zola, edito nel 1890. La storia del libro è incentrata sulle passioni violente dei protagonisti: una coppia sposata, Séverine e Roubaud, il macchinista Jacques Lantier e il brutale cavapietre Cabuche. Tutto il romanzo si svolge all’interno della ferrovia francese, tra Parigi e Le Havre.

La trama non è particolarmente complessa, sebbene sia elaborata in un lungo afflato unitario: Roubaud scopre che la moglie l’aveva tradito con un vecchio pervertito, il quale era un potente. Solo l’omicidio è capace di saziare la gelosia violentissima di Roubaud, il quale non si priva di sfogarsi contro la moglie, con una violenza tale che oggi anche la sola descrizione rischierebbe di scivolare nell’incomprensibile barbarie di tempi che sembrerebbero andati. Infatti, in tutto il romanzo, si trovano scene di violenza contro le donne che, sorprendentemente per un lettore contemporaneo, non sembrano essere né atti sorprendenti (per l’autore) né moralmente disdicevoli per i personaggi. E anche da un punto di vista legale non sembra che questi atti violenti e imperdonabili fossero avvertiti con la sensibilità attuale. Ad ogni modo, Roubaud uccide il vecchio pervertito in un treno, tagliandogli la gola con il coltello che Séverine gli aveva regalato.

E’ solo il principio di una sequenza ininterrotta di violenza e sopraffazione, il cui movente scatenante è sempre una passione violenta e incontrollabile. Séverine si innamora di Jacques, il quale è a sua volta malato: egli vorrebbe uccidere istintivamente una donna. Non sa perché e sembra quasi che questo disturbo fosse dovuto ad una tara innata, ereditata da chissà quale evo, spiegazione che al lettore di oggi, smaliziato da questa forma di darwinismo spicciolo, sembra piuttosto semplicistica. Non è un Raskolnikov, il pover Jacques. Sta di fatto che Séverine e Jacques non si privano di diventare amanti, alle spalle di quel Roubaud che si abbruttisce sempre più al tavolo da gioco, condanna eterna di persone in cerca di distrazione da una vita avvertita immonda. Il risultato è che Séverine sprona Jacques al delitto, per poter finalmente riacquisire la libertà di essere se stessa con lui. Il risultato sarà la catastrofe finale.

Il delitto come risultato della violenza della “bestia umana” è il tema del romanzo. Attorno alla trama principale di questa strana storia a tre, si aggirano altri personaggi, tutti portati al delitto anche quando innocenti. E quasi nessuno di essi lo è. Un marito che avvelena la moglie, che lo tormenta. Una giovane vergine mascolina che fa deragliare un treno, solo perché il suo uomo ideale (Jacques) ama un’altra donna. Pensieri omicidi dovuti alle maldicenze. Non solo. Ma attorno all’atto violento per antonomasia, l’omicidio, ruotano tutto un campionario di nefandezze perpetrate con il cuore puro della bestia umana: calunnie, bugie, utilizzo improprio del potere, ricatti, violenze psicologiche di ogni genere. Tutto è dominato da rapporti di violenza e, come Jacques, il personaggio cardine del libro, tutti sono condotti a “violentare” gli altri esseri umani. Più prossimi sono ai personaggi, più la probabilità di un rapporto di violenza diventa alta.

L’altro grande tema del libro, e senza il quale esso probabilmente perde molto della sua valenza, è la ferrovia. La ferrovia che non è intesa come un insieme di treni in movimento ma come un grande sviluppo collettivo composto di marchingegni totalmente ciechi rispetto alla natura umana, la quale rimane invariata con il variare di ogni espediente tecnologico. La ferrovia è incurante di tutto ciò che accade, esso è un meccanismo che si autoalimenta, che si autoproduce, addirittura. Non si ferma mai il treno, non lascia che gli uomini si conoscano e le immagini di Zola sono infinite nel descrivere il senso di estraniazione che l’essere umano ha nei confronti delle sue “creazioni”, intese qui come meccanismi ciechi di tale grandezza che non sono più dominabili dai singoli, i quali non possono fare altro che rimanere quello che sono e sono sempre stati: delle bestie umane.

Da cinque anni che abitavano l’, quanti treni avevano visti passare nella furia della velocità, in ogni ora del giorno e della notte, col bello e col cattivo tempo. Pareva che tutti sparissero in quel vento che li portava, e mai uno che avesse rallentato la corsa: li guardavano fuggire, perdersi, sparire prima di aver potuto sapere qualcosa sul loro conto. Sfilava il mondo intero a tutto vapore, senza che essi riuscissero a conoscere altra cosa se non delle facce intraviste in un lampo, facce che non dovevano mai più rivedere, talvolta facce che divenivano familiari, a forza di ritrovarsele in giorni prestabiliti, ma che per essi restavano senza nome.[1]

In questa descrizione, per altro caratteristica dello stile minuzioso di Zola, si mostra uno dei due poli del romanzo, ovvero quanto abbiamo detto prima. L’organismo meccanico congela l’essere umano, lo rende parcellizzato, discreto e unico, esattamente come un utente di quei treni che passano da Parigi a Le Havre. Vagoni di “bestiame umano” (così nel libro), rendono l’umanità tutta discreta e l’assunzione del posto nel vagone diventa una unità di misura definitiva.

Ma allo stesso tempo, ancora più di prima per via della tecnologia che distingue e discrimina, le passioni violente dominano dalle spalle la razionalità vuota del marchingegno, vanificando ogni distinzione e discriminazione. Niente cancella la brutale barbarie perpetua di quelle bestie che sono spinte al delitto per la sopravvivenza spicciola di interessi vitali più o meno tali, e per il sesso. Violenza e sessualità sono in La bestia umana l’uno il contraltare dell’altro, le vere “tare” universali ereditarie. Non c’è né speranza né salvezza perché la sessualità spinge gli uomini ancora di più nelle braccia del sangue, sempre presente e così vivo. Sembra quasi che possa darsi un rapporto d’amore pure, capace di riscattare le sorti di una vita di miseria, come quella che domina Séverine fin dai primi contatti impuri con il vecchio sudicio. Séverine e Jacques si amano di un amore puro, che non sembra essere del matrimonio, e che, per qualche tempo, riesce anche a sconfiggere la brama omicida di Jaques. Ma è solo un aggiustamento temporaneo, prima che l’istinto omicida si risvegli.

Infatti, Séverine è il simbolo della donna a quale l’uomo non può sottrarsi dalla cintola in giù, che lo sa e che crede di poter sfruttare questa potenza a suo vantaggio. Ma è solo un’illusione. Non c’è misoginia in Zola, più di quanto non domini una generale contemplazione ascetica del male del mondo. Infatti, Séverine non è “colpevole” di essere la causa efficiente di molti dei delitti del romanzo. Lei fa soltanto la sua parte in qualità di occasione, di catalizzatore. Ma non è lei la causa finale dei delitti, che hanno come unica cagione l’istinto di morte universale che può, sì, attivarsi sulla base dello stimolo offerto dalla sessualità, ma da questo non risulta creato. Quindi sessualità e istinto alla violenza sono solo due aspetti di uno stesso fenomeno, ovvero della natura umana.

Ma la verità è che Zola in La bestia umana concepisce a freddo una architettura letteraria che vuole contrapporre l’assoluta insignificanza della tecnologia rispetto all’evoluzione della natura umana, che sarebbe quella che è. Jacques non può vincere la bestia che c’è in lui, non perché tale istinto sia in lui invincibile: è invincibile in lui perché è invincibile in tutti. Il sesso e la necessità di uccidere la vita è qualcosa di primordiale, nel senso di costitutivo ed essenziale e, per ciò, apparentemente dovuto ai nostri progenitori dei tempi che furono. Ma in realtà è semplicemente che gli esseri su questa Terra, con o senza vagoni e motrici, sono sempre e comunque condannati ad una vita di sopraffazione per ottenere dagli altri quello che non potranno mai dire totalmente proprio.

La prosa di Zola è tipicamente dettagliata, realistica e potente, a suo modo. Per esempio, egli non lesina di dettagli nei momenti di massima violenza, dettagli anche piuttosto macabri, e, talvolta, anche nei momenti di erotismo:

No! Anche adesso si trattava di gente sconosciuta; la morte brutale, accidentale restava anonima come la vita precipitosa che transitava di là galoppando verso l’avvenire; ed essi non potevano apporre alcun nome, alcuna informazione precisa sulle teste di quegli infelici solcate dall’orrore, caduti sulla strada, calpestati, schiacciati, simili a quei soldati i cui corpi colmano i fossati davanti alla carica di un reggimento lanciato all’assalto. (…) Poi vi fu ancora una scena straziante. Nell’interno di uno scompartimento di prima classe, rovesciato, fu scoperta una giovane coppia, senza dubbio degli sposi, gettati l’uno contro l’altra, in maniera sciagurata, perché la donna schiacciava sotto di lei l’uomo, e non un solo movimento poteva fare per fargli riprendere fiato. Lui soffocava e già rantolava; mentre lei, che aveva libera la bocca, perdutamente supplicava che si affrettassero, terrorizzata, il cuore straziato nel sentire che lo stava uccidendo.[2]

La bestia umana si incentra, dunque, sulla citazione posta al principio e che vale la pena di riportare: “Non c’è che dire, è una bella invenzione [la ferrovia], si sanno più cose… Ma le bestie feroci restano bestie feroci, e avranno un bell’inventare meccanismi ancora più perfetti; nell’ombra vi saranno sempre delle bestie feroci”.[3] Per essere una citazione breve della chiave di tutto il romanzo espressa dalla zia di Jacques, convinta correttamente che il marito insignificante la stesse avvelenando, la parola “bestia” è ripetuta sufficientemente e l’ossimoro tra “è una bella invenzione” e “le bestie feroci restano bestie feroci” non può passare inosservato. Non c’è paradosso, però, perché nessuno dice che le bestie feroci non siano capaci, tra un morso e un altro, di costruire grandi opere e marchingegni, grazie alle quali “si sanno più cose” ma che tanto “avranno un bell’inventare meccanismi ancora più perfetti” perché “le bestie feroci restano bestie feroci”. Quasi che sia la ferocia, e non la natura di “bestia”, ad essere qui il problema.

Quindi, Zola, che ci dà un’immagine del mondo estremamente compatta e coerente, chiara e definitiva espressa dalla prosa e dalla struttura del romanzo, non può mancare di fornire molti dettagli sulla natura umana, fatta di brutalità, sesso, violenza e istinti di sopravvivenza ingovernabili. Rimane, però, la sensazione vaga che sia tutto troppo cupo, troppo unilaterale per non essere il prodotto freddo di una ricostruzione a tavolino di una componente della natura umana che, per quanto sicuramente importante, non ne costituisce né il tutto né necessariamente la forma complessiva. Può anche essere vero che la tecnologia non cambia il cuore dell’umanità, ma l’umanità è qualcosa di troppo complesso per essere semplicemente tagliato con l’accetta, a sua volta atto supremo di violenza intellettuale, per stabilire una volta per sempre che ogni uomo è semplicemente una bestia peculiare.

In questo senso, non si tratta di quello che, oggi, diremmo un “giallo” o un “noir” perché, pur avendo alcune caratteristiche dell’uno e dell’altro, qui il delitto è soltanto un’espediente letterario neppure per motivare la curiosità del lettore. E’ solo il sintomo del fatto che il mondo delle bestie umane è dominato da passioni violente invincibili, le quali generano spontaneamente il delitto come effetto finale di un sottosuolo complesso e oscuro e, sostanzialmente, comprensibile ma invincibile.

La bestia umana rimane un romanzo interessante e godibile, quel che si definirebbe “una buona lettura”. E una volta tanto l’edizione della Rizzoli ci consegna una prefazione interessante, non necessariamente illuminante, ma almeno non banale nelle considerazioni che, come sempre in questi casi, lasciano il tempo che trovano in speculazioni edilizie sulla base di materiali che parlano da soli. Che La bestia umana sia una “buona lettura” per persone mediamente acculturate e certamente sufficientemente intelligenti, è fuori di dubbio. Ma che si tratti di qualcosa di più di questo è tutto da dimostrare.


Émile Zola

La bestia umana

Rizzoli

Pagine: 369.


[1] Zola E., (1890), La bestia umana, Rizzoli, Milano, p. 205.

[2] Ivi., Cit., p. 299.

[3] Ivi., Cit., p. 53.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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