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Il popolo degli abissi – Jack London

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Consigliamo – Martin Eden a cura di Francesco W. Pili


Nella prefazione della Robin Edizioni vien detto che il Popolo degli abissi risulta un’opera dimenticata. Altrove, in rare recensioni su internet, ci si imbatte nelle parole “opera sconosciuta”, “opera misconosciuta”. Insomma del Popolo degli abissi dell’intramontabile London, il lettore italiano, ne sa veramente poco. È per questo che mi son voluto cimentare nella lettura di questo libro, che nasce come reportage, si sviluppa come reportage, ma che, soppesata la natura dello stile, non mi sbaglio a definire ‘romanzo’. Romanzo d’inchiesta, volendo dare un appellativo al genere in modo più stringente.

Mentre autori dello stesso periodo (l’opera è stata scritta nel 1902) si cimentavano nel glorificare la grandezza dell’impero britannico (come il celebrato Kipling e Conan Doyle), Jack London invece, si cala in una realtà profondamente drammatica che era quella che gli occhi dei borghesi e dell’aristocrazia di tutto il mondo non volevano vedere: ovvero la realtà di un mondo legato allo sfruttamento e dove le morti sul lavoro e per il lavoro erano all’ordine del giorno.

Il 1902, inoltre è il periodo in cui in Inghilterra avviene il boom della seconda rivoluzione industriale, il boom del carbone e delle innovazioni tecnologiche. Negli stessi anni i fratelli Wright daranno vita al primo prototipo di aeroplano. Sono gli anni delle prime esposizioni universali e dei grandi progressi dal punto di vista energetico, ma anche dei trasporti. Intere pagine dei manuali di storia sono dedicate a questi progressi che hanno segnato il progresso (o forse il regresso, dirà London in uno dei capitoli più tristi di questo libro, ma forse dell’intera letteratura) della civiltà umana, la quale non potrà più fare a meno di quei “vizi” che all’epoca sembravano (o potevano sembrare) le virtù che avrebbero salvato il mondo.

Così Jack London arrivato a Londra si traveste e, fintosi marinaio, di quelli che arriva dal nuovo continente per cercare lavoro, porta avanti una grande ricerca sugli usi e i costumi dell’East End ovvero il quartiere più malfamato di Londra. Dormì negli ospizi, nelle baracche sovraffollate, frequentò prostitute, poveri e mendicanti, ed ogni genere di uomo considerato “rifiuto” dal ceto dei padroni e dei grandi capitalisti.

E quando finalmente arrivai nell’East End, scoprii con soddisfazione che non avevo paura della folla. Ero entrato a farne parte. Il mare vasto e maleodorante si era rinchiuso sopra di me, o meglio mi ci ero immerso dolcemente, e non c’era nulla di terribile in questo.

L’East End è una tristissima realtà in cui London si cala. Ma non per questo, lui ormai ricco scrittore americano, se ne vergogna. Piuttosto non si dà pace. Come si sia potuto arrivare a tanto disagio per una parte dell’umanità, così grande, senza casa, senza cibo, senza lavoro, così che è costretta a rintanarsi in case di lavoro o, più prosaicamente, case di schiavitù, in cambio di un pezzo di pane duro e dello sporco pudding di riso.

Intravedo in questo libro, uno scrittore che ha analizzato alla perfezione il disagio della società dell’epoca. Disagio che anche ai nostri giorni forse può essere focalizzato, certamente in un’altra dimensione e qualità, ma i punti cardini del romanzo di London sono quelli del progresso civile visto come regresso, dell’aristocrazia che vive solo perché sfrutta quegli otto milioni di britannici che fanno la fame.

Riporto adesso, quello che reputo il miglior capitolo del romanzo, l’ultimo dal titolo “La gestione” sperando possiate averne dalla lettura una riflessione importante.

In quest’ultimo capitolo sarebbe utile considerare l’abisso da un punto di vista più ampio, e porre alcune domande alla civiltà, che sulla base delle risposte dovrà essere giudicata. Per esempio, la civiltà ha migliorato le sorti dell’uomo? Uso il termine uomo nella sua accezione democratica, intendendo uomo medio. Quindi la domanda va riformulata: la civiltà ha migliorato le sorti dell’uomo medio?

Vediamo. In Alaska, lungo le rive del fiume Yukon, nei pressi della foce, vive il popolo degli Inuit. Sono una popolazione molto primitiva, che mostra solo qualche vago presentimento di quello straordinario artificio che è la civiltà. Il loro patrimonio ammonta forse a due dollari a testa. Si procurano da mangiare cacciando e pescando con strumenti rudimentali. Non manca loro il riparo. I loro vestiti, fatti per lo più di pelli animali, sono caldi. Hanno sempre di che alimentare il loro fuoco e legno per edificare le loro case che costruiscono in parte sotto terra e nelle quali giacciono al caldo nei periodi di freddo più intenso. Durante l’estate vivono nelle tende, aperte al vento fresco. Sono sani, forti e felici. Il loro unico problema è il cibo. Hanno periodi di abbondanza e le loro carestie. Ma la fame come condizione permanente di un numero rilevante di persone non esiste. E per di più non hanno debiti. Nel Regno Unito, ai margini dell’oceano atlantico, vive il popolo degli inglesi. Sono una popolazione molto civilizzata, il loro patrimonio ammonta almeno a trecento dollari a testa. Non si procurano il cibo con la caccia e la pesca, ma costruendo faticosamente marchingegni complicati. Per lo più soffrono per la mancanza di riparo. Gran parte di loro vive in abitazione abiette, non ha abbastanza combustibile per ripararsi dal freddo ed è vestita in modo inadeguato. […]

Nei periodo buoni molti di loro riescono a procurarsi abbastanza da mangiare, nei cattivi muoiono di fame. Stanno morendo adesso, morivano ieri e l’anno scorso, moriranno domani e l’anno prossimo a causa della fame, perché loro, a differenza degli Inuit, patiscono una condizione cronica di inedia. Gli inglesi sono quaranta milioni, e fra loro 939 persone su mille muoiono in miseria, mentre otto milioni fanno costantemente la fame.


 LONDON JACK

 IL POPOLO DEGLI ABISSI

 ROBIN EDIZIONI

 PAGINE: 243

 EURO 13,50


Wolfgang Francesco Pili

Sono nato a Cagliari nell’aprile del 1991. Ho da sempre avuto nelle mie passioni, la vita all'aria aperta, al mare o in montagna. Non disdegno fare bei trekking e belle pagaiate in kayak. Nel 2010 mi diplomo in un liceo classico di Cagliari, per poi laurearmi in Lettere Moderne con indirizzo storico sardo all'Università degli studi di Cagliari con un'avvincente tesi sulle colonie penali in Sardegna. Nel bimestre Ottobre-Dicembre 2014 ho svolto un Master in TourismQuality Management presso la Uninform di Milano, che mi ha aperto le porte del lavoro nel mondo del turismo e dell'accoglienza. Ho lavorato in hotel di città, come Genova e Cagliari, e in villaggi turistici di montagna e di mare. Oggi la mia vita è decisamente cambiata: sono un piccolo imprenditore che cerca di portare lavoro in questo paese. Sono proprietario, fondatore e titolare della pizzeria l'Ancora di Carloforte. Spero di poter sviluppare un brand, con filiali in tutto il mondo, in stile Subway. Sono stato scout, giocatore di rugby, teatrante e sono sopratutto collaboratore e social media manager di questo blog dal 2009... non poca roba! Buona lettura

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