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Elisa Pappalardo – Itaca [Recensione e intervista alla poetessa]

A cura di Elisa Pappalardo e Simone Di Massa

Introduzione:

Nel corso dei secoli, l’arte del poetare ha subito drastici ridimensionamenti, passando dall’essere prerogativa e appannaggio di pochi, spesso dotati di una profonda erudizione, all’essere accessibile pressoché universalmente. Un percorso, certo, di democraticizzazione dell’ars poetandi, e mi arrogo di ritenere che questo carattere di accessibilità ben meglio assolva alla missione salvifica della poesia: in un mondo dai connotati spesso tragicomici, la poesia è il mezzo con cui ognuno può nobilitare il proprio animo. Si ha forse ragione di ritenere che l’anelito poetico sia connaturato all’animo umano, e meglio di me ha saputo dirlo Roberto Benigni nel film La tigre e la neve (2005), con la celebre frase «Cos’è la poesia? Non chiedermelo più. Guardati dentro, la poesia sei tu». Un invito, quello di Benigni, ad abbracciare l’arma della poesia, dono concesso a chiunque lo voglia ricercare, e al contempo a rispettare questa sacra e potente attività («E vestitele bene le poesie! Cercate bene le parole!»).

A lungo i poeti si sono interrogati sul perché si scrivesse poesia, e una semplice ed efficace risposta l’ha fornita Aldo Palazzeschi: «Scrivere, scrivere, scrivere… / Perché scrive lo scrittore? / […] Scrive con la speranza / di trovare una mano sconosciuta / da poter stringere / nell’oscurità» (Palazzeschi 1972: 64). E sempre la ribelle poetica di Palazzeschi gridava disperatamente chiedendo libertà: «E lasciatemi divertire!» (Palazzeschi 1910: 185).

Divertirsi è la parola chiave da cui nasce il presente lavoro, un dialogo libero con la giovanissima poetessa Elisa Pappalardo, classe 2003, che ha di recente pubblicato la sua poesia Itaca, selezionata meritevolmente per essere parte dell’antologia Parole in fuga, vol. 15, edita da Aletti Editore. Il premio nacque nel 2005, un progetto culturale dal nome eloquente, una fotografia della «diserzione [..] delle parole, in un’epoca in cui il vociare, il rumore di fondo, il luogo comune, stanno occupando spazi sempre più ampi» (Giuseppe Aletti, 2025: 9). L’antologia, certamente plurivoca per la differenza di stile e sentimento delle diverse poesie, di autori vari, ivi contenute, si presenta come un mosaico, formato di tessere uniche che compongono un disegno legato da un filo comune, l’amore, amore per la poesia e, più semplicemente, amore per la sola ragione di voler amare. L’ha definito egregiamente la magnifica e toccante Prefazione di Hafez Haidar, che scrive: «L’amore viene presentato limpido come acqua cristallina […]. L’amore racchiude la melodia del creato, le note dell’eterno e la sinfonia di tutto ciò che è passato, presente e futuro.» (Haidar 2025: 11). La Prefazione, in consonanza a quanto vent’anni fa proponeva Benigni, e con eco nelle parole dell’attivista Malala Yousafzai alle Nazioni Unite,[1] è un invito alla speranza, che rimane viva nella poesia: «Per un mondo migliore, è necessario che si abbraccino i libri e le matite al posto delle armi, che si gettino le armi e la paura nel pozzo del nulla» (ivi, p. 12).

Si presenta dunque la poesia Itaca di Elisa Pappalardo, con analisi e commento a cura dell’autrice, a cui seguirà un’intervista parolibera. A nome dei nostri lettori, dello staff di Scuola Filosofica, e mio, un ringraziamento di cuore alla poetessa Elisa Pappalardo.

 

Elisa Pappalardo, Itaca[2]

Come un naufrago,

gongolo sull’arena

arena finale di una battaglia

già vinta

talvolta il mare

diventa umano

Odisseo lo sa:

Itaca è sempre casa

 

Commento a cura della poetessa:

Itaca, per me, è un grido di speranza. Un urlo timido e privato, che non pretende di essere ascoltato da molti, ma abbastanza concatenato e scorrevole da essere pronunciato tutto d’un fiato. Un tuono di un animo disilluso e obiettivo, che sceglie di guardare la vita ispirato dal bene che lo circonda.

Tutti noi siamo naufraghi della nostra esistenza. Viviamo travolti dagli avvenimenti, molti dei quali negativi, disgrazie continue. Siamo in balia di un mare di emozioni che quasi ci fa quasi affondare tra le onde. Sono nata e cresciuta a Milano, l’oceano tormentato per antonomasia, il cuore del Triangolo delle Bermuda, la fossa con l’acqua più profonda di tutte. Una città che ti mangia vivo non appena ne ha l’occasione. Nella mia breve esperienza, penso di aver conosciuto il mare in tempesta e di essermi sentita come Odisseo. Ogni naufrago è contento una volta arenatosi sulla spiaggia, dopo che il trambusto sembra essere terminato. Quando una disgrazia si verifica, la quiete la segue sempre. Quell’apparente pace, distesa di sabbia bollente, tuttavia spesso non è altro che l’ennesima sfida da superare. Dopo di lei, bisogna riabituarsi al quotidiano. È necessario ricomporsi, ritrovarsi, conoscersi di nuovo, a volte. È proprio questa la battaglia più ardua di tutte. Zuppi d’acqua salata che cuoce la pelle, affamati e assetati, noi uomini ci troviamo atterrati sotto il Sole bruciante dopo che la vita ci ha travolti e sbattuti alla deriva, ma piano piano impariamo anche a rialzarci. Sappiamo essere resilienti e resistenti. Chi ha la speranza nel cuore, è consapevole che la vita stessa è in grado di cullarci e che le onde che ci hanno resi vittime possono anche riportarci a casa ed essere più umane di quanto non sembrino. Perfino il mare, il dolore, sa trasformarsi in bene se chi lo affronta ha la lungimiranza di guardare a ciò che lo aspetta una volta che potrà dire di avercela fatta. Così come Ulisse, che dopo tutti i suoi dolori, è riuscito a riassaggiare il sapore di casa.

Credo fermamente che ciascuno di noi abbia una propria Itaca a cui tornare o un’Itaca ancora da costruire. La nostra forza umana sta nel riconoscere che la sofferenza genera speranza se osservata con i giusti occhi e che se ci troviamo a casa, è anche grazie a lei.

 

 

Intervista alla poetessa:

 

#1 Elisa, grazie di cuore per il tuo commento e per il tempo che ci dedichi. Una prima domanda che mi preme porre si sviluppa sulla scorta del mio amore per la materia dantesca: l’Ulisse della Comedìa, che pur non dà prova di dimenticare la sua Itaca, non teme di lasciarla alle spalle in nome della spinta alla conoscenza, e proprio in nome della conoscenza perde la vita condannandosi all’inferno. Hai detto giustamente che ciascuno di noi ha una propria Itaca a cui tornare, o un’Itaca ancora da costruire: come ritieni si possa coniugare la nostra innata spinta alla conoscenza con la nostra, probabilmente altrettanto innata, necessità di avere sempre un’Itaca a cui fare affidamento?

Grazie a voi per questa splendida opportunità, ve ne sono profondamente grata! Non vedo l’ora di rispondere alle vostre domande. E come inizio… questa è proprio tosta!

Partiamo dal presupposto che credo che la propria Itaca possa prendere innumerevoli forme. Itaca può essere all’interno di noi, può essere fatta di pensieri, può costituire una forte etica, una serie di valori, può essere il nostro stesso cuore. Vista la sua essenza mutaforme, trovo estremamente umano che ognuno di noi abbia bisogno di esplorare la realtà il più possibile per poterla trovare e conoscere.

Ho sempre trovato complesso da capire come la curiosità di Ulisse nella Comedìa potesse risultare per lui una vera e propria condanna. A volte, superare le colonne d’Ercole può significare anche ritrovarsi, superare dei limiti che, in quanto tali, ci costringono ad un mondo ristretto, dove alcune persone possono sentirsi in trappola. L’innata spinta di conoscenza non dovrebbe essere da punire così aspramente, cosa saremmo senza di lei d’altronde?

Se sentiamo in cuor nostro che una nostra Itaca non esiste ancora, corriamo a scovarla! Mettiamoci alla ricerca! Che quest’Ulisse non l’avesse ancora trovata tornando all’isola in cui è nato? A volte può capitare. L’insoddisfazione, l’insaziabilità non deve essere considerata solamente peccaminosa. Non si può incolpare un uomo di non aver ancora realizzato i suoi desideri, di avere smania di risposte. La realtà è complessa e ricca di sfumature, non esiste giusto e sbagliato. Che la vera Itaca di Ulisse si trovasse proprio nel desiderio di seguire il suo istinto? Che fosse essa stessa il suo animo curioso? Che la ricerca di risposte e la sua curiosità fossero la risposta al sogno del suo animo di esplorare il mondo contro tutto e tutti, attraversando tempeste nella sofferenza e nel dolore pur di assecondare questo richiamo? Perché avrebbe dovuto costringersi a non ascoltare la sua anima?

Sono tutte domande a cui è impossibile trovare risposta, ma spero che un’interpretazione diversa del capolavoro dantesco possa essere stimolante.

 

#2 Nella tua poesia hai scritto che «talvolta il mare / diventa umano» (vv. 5-6): è innegabile che, nel bene e nel male, il mare, e con esso l’interezza della natura, ci parla e ci detta poesia: secondo te, come possiamo porci all’ascolto del mare? Come arrivare ad avere l’umiltà di tacere dinnanzi alla potenza dei versi cantati dal mare?

Il mare, nella mia poesia, può essere interpretato in diversi modi. Può essere il male, in senso lato, la cattiveria, il dolore. La chiave trovo che sia ricordarsi che nella sofferenza il bene esiste sempre. Nessuna circostanza in cui ci possiamo ritrovare, per quanto avversa, è solo negativa. Bisogna imparare, col tempo, ad avere una visione più ampia della realtà, dove il bene e il male sono solamente un’illusione ed entrambi contengono in parte l’altro. È come indossare un paio d’occhiali in grado di farci vedere il mondo con più sfumature, che ci permettono di renderci conto di quanto tutto sia più complesso di quanto spesso ci ritroviamo a credere. Si tratta di ascoltare il mare nella sua interezza, senza avere la pretesa che sia facile da interpretare, concludendo in maniera affrettata che si tratta di qualcosa di negativo. La chiave per porgergli l’orecchio è avere speranza. Il concetto di speranza mi sta estremamente a cuore, non a caso è proprio grazie a lei che sento di essere diventata la persona che sono senza perdermi mai. Credo fortemente nell’idea dietro il simbolo yin yang e trovo che non bisogni mai tacere quando ci si ritrova nel bel mezzo della tempesta. Anzi! Per riprendere anche la domanda precedente, è necessario essere curiosi di osservare la situazione con sguardo più ampio per scovare quel puntino bianco, il bene, in ogni occasione. Non c’è spazio per essere umili, c’è spazio solo per trovare la forza e il coraggio per cercare speranzosamente quel barlume di positività che si cela dietro ciascun’avversità. La speranza è fondamentale! Itaca esiste e ci aspetta, sempre!

 

#3 Secondo te, il mare ci parla in prosa o in versi?

Ottima domanda, il mare parla diversamente ad ognuno di noi. O meglio, lui parla, noi sentiamo cose diverse in base a come scegliamo di ascoltarlo. Ad una persona realista come me comunica sicuramente in prosa, se mi parlasse in versi, finirei col non capirci più niente!

 

#4 Che colore assegneresti alla poesia? E per quale motivo?

La poesia è indubbiamente bianca, ai miei occhi. Il bianco non solo è il mio colore preferito, ma è anche un segno d’inizio. Una pagina bianca è una pagina che può diventare ancora qualsiasi cosa. E, vista la natura interpretabile della poesia, in ciascun verso è possibile leggere quello che più sentiamo vero per noi. In un certo senso, ogni parola può essere una tela ancora da scrivere, che completiamo grazie al nostro animo.

 

#5 In un mondo sempre più votato alla tecnica, vivere di poesia diventa un atto di coraggio. Pensi che la tua sia un’ultima generazione di poeti? O ritieni piuttosto che la poesia troverà il modo di sopravvivere?

Per come parlo di speranza, non posso che rispondere che sono assolutamente certa che la poesia sopravviverà sempre. Anche laddove sembra appassire sempre più rapidamente, sono sicura che troverà modo per rinascere. Nella storia siamo già passati per secoli bui, in cui la produzione poetica era pressoché nulla; tuttavia, abbiamo le prove che non sia mai stata assente. L’uomo ha un animo poetico per natura e ci sarà sempre chi sceglierà di farlo emergere, seppur timidamente, anche solo tramite qualche verso composto e poi lasciato in un cassetto della scrivania o abbandonato nelle note del telefono.

 

#6 La tua poesia è dolcemente delicata, ma al contempo lascia trasparire la forza della speranza. Pensi che la poesia possa diventare anche un’arma irriverente contro la cattiveria, per far vincere l’amore?

Grazie di cuore. Non ho dubbi che la poesia possa essere un’arma, in un certo senso! La poesia, a parer mio, è uno strumento estremamente potente e la sua forza risiede nella capacità di evocare sensazioni profonde in ciascuno di noi. È in grado di risvegliare i nostri cuori e dar senso ai nostri animi.

Non penso che possa essere la chiave per far vincere l’amore, quella sarebbe un’utopia troppo pretenziosa, ma sicuramente è capace di farci riflettere e questa è già di per sé una strabiliante risorsa.

 

#7 A proposito di irriverenza, nel 1919 l’artista dada Marcel Duchamp, con una provocatoria opera ready-made, dipinse i baffi sulla Gioconda. Immagina di fare lo stesso, un gesto forte per sdegnare e svegliare il mondo: quale poesia od opera andresti a parodiare? E come lo faresti?

Posso permettermi un enorme azzardo? Tanto immagino che si sia capito che non sono mai riuscita ad apprezzare Dante fino in fondo… Aggiungerei un canto alla Comedìa solamente per buttare anche lui nel primo girone del Purgatorio tra i superbi! Il sommo poeta si meriterebbe un bel macigno sulla schiena per essere stato così presuntuoso in vita, ahahahah.

 

#8 Ho immaginato questa intervista come parolibera: ti chiedo di scrivere, con parole in totale libertà, qualche frase che descriva te e la tua poetica.

Speranzosa.

Ottimista.

Concatenata.

Interconnessa.

Fluida.

Scegliete voi quali aggettivi sono per me e quali per la mia poetica!

 

#9 «Itaca è sempre casa»: hai già trovato una tua Itaca? E soprattutto, parlando a una generazione che esprime con passione e sofferenza la necessità di trovare il proprio posto nel mondo, quale suggerimento ti senti di dare alla ricerca di una propria Itaca?

Il mio suggerimento è quello di essere sempre curiosi. Può sembrare una banalità, ma trovare sempre la forza di mettersi alla ricerca, di esplorare, non è da tutti. Eppure, credo fermamente che sia un ottimo modo per ritrovarsi e conoscere la propria Itaca. La fortuna di trovarla non esiste, esiste la forza di volontà e seguire il proprio cuore è un’utile strategia.

Per quanto riguarda la mia Itaca, invece, penso di averla vista più che trovata. Ho un’idea di cosa e dove potrebbe essere, ma la strada per raggiungerla è ancora tanta. Devo ancora cadere e rialzarmi diverse volte per definirla “casa”, mi sa!

 

#10 Quest’ultima domanda è bianca e completamente libera, è una tela a tua disposizione. Scrivi quello che vuoi.   

Allora ne approfitto per condividere una delle poesie che più preferisco, che ho affisso in camera mia e ne ho fatto il mio motto di vita. Si tratta di un haiku del poeta giapponese Mizuta Masahide e recita:

Il tetto si è bruciato: ora posso vedere la Luna.

Spero possa parlare a voi tanto quanto lo ha fatto a me! Grazie ancora di avermi concesso questo spazio, a presto!

 

 

BIBLIOGRAFIA

Autori Vari 2025 = Autori Vari, Parole in fuga, vol. 15, Bruxelles, Villanova di Guidonia, Aletti Editore, 2025.

Aletti 2025 = Giuseppe Aletti, pp. 9-10, in Autori Vari, Parole in fuga, vol. 15, Bruxelles, Villanova di Guidonia, Aletti Editore, 2025.

Haidar 2025 = Hafez Haidar, Prefazione, pp. 11-13, in Autori Vari, Parole in fuga, vol. 15, Bruxelles, Villanova di Guidonia, Aletti Editore, 2025.

Palazzeschi 1910 = Aldo Palazzeschi, L’incendiario, Milano, Edizioni Futuriste di “Poesia”, 1910, pp. 179-185.

Palazzeschi 1972 = Aldo Palazzeschi, Via delle cento stelle, Milano, Mondadori, 1972.

 

 

[1] Il riferimento è alla celebre frase «Un bambino, un insegnante, un libro, una penna possono cambiare il mondo», parte del discorso dell’attivista tenuto alle Nazioni Unite nel 2013.

[2] Si riproduce il testo pubblicato in Parole in fuga, vol. 15, Bruxelles, Autori Vari (cfr. Autori Vari 2025), p. 81.


Simone Di Massa

Nato nel 2002, laureato in Lettere Moderne all'Università degli Studi di Milano con una tesi di Filologia Romanza, mi occupo di filologia e linguistica delle letterature romanze medievali, nonché di letteratura latina, dedicandomi con acribia e passione a ciò che è propriamente un culto degli studi, e una ragione d'esistere.

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