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Riflessioni su “Sorvegliare e punire. La nascita della prigione” di Michel Foucault – la storia del Grande fratello, ovvero della nostra società.

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Per una Analisi storico-filosofica sulla nascita della prigione e dei sistemi repressivi

Parte 1. Concetti preliminari e una brevissima storia dei cambiamenti disciplinari

E’ non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che gli uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi, non abbino rimedio alcuno; (…) iudico esser vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso noi.

N. Macchiavelli[1]

Il problema di una definizione

Omnis determinatio est negatio

Spinoza

 

Già dal titolo non si può sbagliare, Sorvegliare e punire. La nascita della prigione di Foucault è un’opera di storia, una storia non molto nota, marginale. Una marginalità apparente perché, come molte storie marginali, in realtà frutto di uno scontro importante. In che senso allora la storia della prigione è una storia marginale? Marginale è la visibilità del problema, marginale è l’attenzione sul problema, marginale è la cura del problema. I perché possono risiedere in diverse ragioni, ma possiamo dare due risposte possibili, che non si escludono, una di carattere formale e l’altra, se così si vuol dire, di sostanza: (1) è difficile dare una definizione chiara del problema, (2) non è facile parlare della dimensione pratica del problema.

Il problema della prigione è dunque di tipo teorico o di tipo pratico? Come si deve definire il potere della giustizia?, come fare ad applicare la giustizia? Già se si pensa a questo problema, in modo almeno un po’ distaccato, è chiara l’incertezza in cui si cade. Prima di tutto bisogna definire l’ambito di applicazione, dunque la legge, poi le sue modalità di applicazione, in fine, la legittimità di questa. Posta la legge, giustificata e, almeno un po’, onorata c’è, poi, la dimensione pratica, ovvero l’applicazione del potere. Se la legge può esser chiara, non sempre lo è la sua determinazione. Cioè non è necessario che tutti concepiscano le pene, per esempio, allo stesso modo così come non è chiaro chi le debba far valere. E questi sono i problemi della definizione, problemi che diventano sempre più spinosi tanto più si scende nel dettaglio e ci si avvia alla concretezza.

Quando si arriva alla concretezza, poi, è un vero incrocio di incertezze. Infatti, non è facile guardare, osservare, scoprire i ranghi più bassi dell’umanità, quando si appartiene alle fasce protette, a chi detiene i privilegi. Non è semplice non perché si prova indignazione per un’ingiusta situazione di superiorità, piuttosto per il contrario: perché non si capisce come quelli possano esistere. Il potere, chi lo gestisce, è così spesso abituato ad averlo che si stupisce quando guarda chi non lo ha: “chi gode di un privilegio, finisce con l’odiare e col temere chi ne è privo”. [2] Per molto tempo coloro che si sono minimamente posti il problema della prigione, in termini storiografici e teorici, non potevano esser certo gli stessi detenuti. Ma, al di là dei problemi di classe, la prigione è comunque un argomento difficile da trattare per chiunque, perché pone delle implicazioni morali, religiose o, al limite, di buon senso non trascurabili.

Dal punto di vista storico…

…chiara dimostrazione di come la società abbia bisogno degli storici, i quali assolvono il compito professionale di ricordare ai loro concittadini ciò che questi desiderano dimenticare. [3]

Eric J. Hobsbawm

 

Preso così in astratto, come molte cose che nascono e si sviluppano nella storia, l’argomento della prigione sembra di fatto intrattabile, come quando si vuole parlare della famiglia a prescindere da ogni possibile contesto reale. Ovvero, i concetti storici non possono essere posti senza sfondo a meno di volerli travisare.

Foucault ha certamente in mente dei problemi attuali e ce ne rendiamo conto dagl’innumerevoli riferimenti, espliciti ed impliciti, alla sua, alla nostra contemporaneità e non a caso la sua analisi conclude proprio alle soglie dell’età contemporanea (l’ultima data riportata esplicitamente nel libro è il 1846)[4]. Però per descrivere quei problemi più recenti, bisogna aver ben presente l’evoluzione del passato, o meglio, di quel passato che ha portato al presente. Sorvegliare e punire inizia a parlare della storia di un cambiamento, di una realtà che, dopo un certo momento, è mutata profondamente. Così ci sembra doveroso richiamare alcuni punti fondamentali della storia moderna, per capire meglio ciò da cui parte Foucault e così lo stesso problema.

Uno dei temi principali dell’età moderna è il lento venir fuori dello stato come organizzazione stabile del potere. Una grande pluralità di organizzazioni differenti per una differente conformazione geografica, demografica e storica è lo scenario dell’età moderna. Un’età di rivolgimenti e continue “sperimentazioni” (per noi che veniamo dopo…), che per lungo tempo sembra avere ben poche unità, punti di incontro e molti continui punti di diversità. Dopo un lungo periodo di assestamento però, dopo le guerre di religione, quando ormai il sangue versato in nome della fede sembrava ormai essersi asciugato sulla terra calda dell’Europa, incominciano a imporsi dei nuovi ordinamenti ovvero una nuova concezione del potere stava nascendo, era lo stato che lentamente stava emergendo.

Ma questa “emersione” non è certo stata indolore e senza qualche riflessione. Se già dal cinquecento c’era qualche illustrissimo scrittore italiano che si arrovellava sull’argomento, tra il seicento e il settecento vengon fuori una molteplicità di concezioni originali e lontane da una qualunque impostazione “tradizionale” del problema, se per “tradizionale” vogliamo intendere quella via di pensiero che, in un modo o nell’altro, faceva capo ad una qualche fede. Era la ragione laica, una ragione secolare che incominciava a dire la sua su questioni nelle quali gli intellettuali avevano molto da riflettere: Spinoza, Hobbes, Locke, Kant, Rousseau, per non parlare di tutto il movimento morale inglese, sempre così attento ai problemi dei diritti, non sono dei nomi che ci ricordano dei pensieri buttati lì per caso ma, a contrario, ci mostrano lo sforzo loro e della loro epoca di dare ordine ai problemi sociali e politici.

La fragilità dello stato era netta perché gli stati erano una serie composita di poteri regionali o ancor più piccoli con una loro diversificata gestione del potere autonoma. Ciò che distingueva i nobili erano i loro diversi privilegi, prima ancora le loro terre. Tante autonomie significano tante leggi diverse che impongono un ordine diverso. Ordini diversi pongono forze sociali diverse e così non si può amministrare dall’alto allo stesso modo due regioni di costumi sociali e leggi del tutto diverse a meno di limitare la propria possibilità di disporre di quelle.

Ma lo sviluppo degli Stati si era affiancato ad una serie di eventi fondamentali: le nuove forme di economia (mercantilista e precapitalista), la ridefinizione della geopolitica, la nuova scienza.

(1) La nuova economia stava incominciando ad imporre un nuovo sistema di scambi e di rapporti tra gli uomini e le loro forze di produzione. Nuovi modelli e nuove realtà concrete ponevano nuovi problemi. Inoltre ci fu una crescita demografica rilevante e con essa ci furono da affrontare le nuove questioni ad essa connesse: l’organizzazione dell’ordine pubblico, la distribuzione del cibo, la gestione delle risorse comuni, la riorganizzazione delle forze politiche che culminò con la grande, tragica ma immaginifica rivoluzione francese.

(2) In tutto il corso del seicento l’importanza delle colonie incominciò sempre più ad aumentare e le dimensioni dei traffici commerciali col resto del mondo s’intensificarono notevolmente e tutto questo portava nuovo potere agli stati europei. Di quanto fosse il peso politico ed economico delle colonie può dare un’idea la guerra dei sette anni che si svolse tra Inghilterra e Francia, per lo più, in India e in America, dunque non negli stati centrali ma nelle “periferie”, in quei luoghi marginali in cui anche l’illecito poteva essere accettato per via della sua scarsa visibilità, un triste tratto caratteristico della nostra tradizione politica e della sua prassi. L’occidente ha sempre rivendicato di essere la culla della civiltà e ha sempre rifiutato la sua anima barbarica e gode nel stupirsi, nel riscoprirsi capace di grandi atti di brutalità, quando occorre.

(3) Nuove idee incominciarono a circolare sin dalla fine del cinquecento, la nuova scienza si stava ormai sviluppando velocemente. Studi importanti e nuove tecnologie stavano iniziando a circolare nell’Europa. Tecnologia, conoscenze esatte costituiscono solo l’apice cosciente di ciò che è stato lo sforzo culturale della modernità, il cui ultimo apice è la costruzione delle armi di massa, capaci di radere al suolo intere città senza bisogno di entrarvi con l’esercito, evitando, così, le incresciose conseguenze morali degli atti quotidiani della guerra di conquista. D’altra parte, dietro a quelle conoscenze, incomincia a contorcersi ed avvilupparsi una profonda coscienza critica che porterà alla formazione delle correnti storico-politiche rivoluzionarie, impossibili da pensare senza un preciso sottofondo ideologico di potenzialità al cambiamento, impensabile prima dell’elaborazione della scienza, un paradigma conoscitivo che si oppone all’immutabilità della realtà, là dove la legge di natura non è altro che l’espressione di un principio da adottare per cambiare lo stato di cose. Ed è sempre in questo periodo che l’importanza, la centralità dell’individuo, graniticamente esplosa nel romanticismo, incomincia ad essere ridimensionata alla luce dell’infinita causalità fisica, meccanicismo materialistico che ombreggia una realtà di fede ancora salda. La concezione dell’uomo, come pedina sulle spalle della terra necessaria, è in questo periodo che viene violentemente portata alla ribalta e discussa nei minimi dettagli.

L’accumulazione delle forze e delle tensioni, le risoluzioni di altre delicate questioni portarono gli stati europei di fronte al problema della loro stessa organizzazione: a grande potere deve corrispondere un grande autocontrollo, un controllo dello Stato sullo Stato: ed ecco la nascita del problema della giustizia e della sua riforma. Immediatamente conseguente al problema della giustizia è il problema della ridefinizione della pena e della sua applicazione. Tutti questi processi, posti qui in una sintesi brutale, sono in realtà tutti connessi e si influenzano reciprocamente. Ma ciò che importa, al caso nostro, è che nell’organizzazione dello stato giocarono tutte queste forze: conoscenze teoriche, attività pratiche, quindi le tecnologie furono unite per un sol scopo: riordinare le forze. Come in una partita a scacchi, tutti i mezzi diventano più efficaci se richiamati e concentrati verso un sol fine: la giustizia era la questione principale.

La riorganizzazione del potere

In breve, costituire una nuova economia ed una nuova tecnologia del potere di punire: sono queste senza dubbio le ragioni d’essere essenziali della riforma penale del secolo XVIII.[5]

Foucault

Il potere dello Stato deve essere organizzato dall’interno, deve mobilitare le sue forze per sé stesso e per dare una realtà coerente a sé stesso. Questo è stato un problema storico chiaro di cui si era ben coscienti già nell’immediato. Ma come procedere? Intanto non si può prescindere dalle forze che agiscono nel presente, questo è evidente, ma qual’è il piano d’azione?

Il potere è una possibilità, non è né più né meno che questo. Una possibilità che si concretizza. Dunque, il potere è sempre di qualcuno su qualcosa. In questo senso, il potere, in quanto possibilità, è di per sé indeterminato e irrazionale. Ma il potere, così come nasce dalla storia, si rivolge nella storia e si polarizza a partire da uno scopo che gli si viene conferito, uno scopo, si badi, che è esterno ed estraneo al potere. La concezione di questa forma di potenza reale è estranea, dunque, al pensiero razionale perché esclude in sé un’autodeterminazione razionale che possa giustificare il fine stesso dell’azione concreta del potere. Il problema storico in questione era quello di riorganizzare le forze, o meglio, dargli finalmente una organizzazione giusta, coerente e funzionale, un’organizzazione che potesse essere gestita in modo efficiente.

Lo Stato così incomincia a descrivere il proprio campo d’azione: se stesso. Lo stato come potere si rivolge alle sue stesse componenti per porre una decisiva decostruzione: scomposizione ai minimi termini non per distruggere ma per conoscere, comprendere e ridefinire da capo. Questa operazione deve iniziare dal basso perché il potere in realtà nasce dal basso e finisce in esso: tuttavia non per esso sempre agisce. Ad ogni modo, è nell’organizzazione organica della popolazione che si deve puntare per avere maggior potere: prima di trovare sistemi per incrementare il potere, prima concentriamoci a ridistribuire meglio ciò che abbiamo: principio dell’efficienza statale.

La nascita della nuova economia pone problemi di riorganizzazione sociale e, contemporaneamente, di nuove forme di conoscenza, richiesta proprio da questa nuova necessità economica. Ma, quel che non viene detto chiaramente, forse, nel libro di Foucault, è che questa ridistribuzione controllata del sistema del potere richiede, necessita ed implica nuove forme di credenza, ancor prima che di conoscenza: per questo la gente deve essere rieducata. La rieducazione cercherà prima di tutto inculcare una nuova fede, la conoscenza, nella storia, ha sempre avuto molto tempo per pensare… La nuova fede si laicizza perché deve escludere le credenze alternative e radicate al di là della terra. Bisogna mostrare come sia il globo terracqueo l’unico centro dell’universo, nonostante sia un punto inequivocabilmente scentrato rispetto a tutto il resto della massa intergalattica. Lentamente a Dio si sostituisce la fede nella possibilità individuale, prima, e nella cieca fiducia nei mezzi delle forze di produzione dopo. Non è un caso, infatti, che dall’individualismo empirista, la cui fonte di ispirazione principale sono le opere di Locke e Hume, su cui vengono a riflettere Smith e Riccardo, tradizione che si spinge fino alla contemporaneità, giacché la teoria economica neoclassica di Friedman e la formalizzazione offerta da Von Neumann assume la teoria della motivazione humeana come la base per l’edificazione matematica dell’economia attuale; dall’individualismo empirista, dunque, si passa alla cieca fede nelle forze produttive, quando l’individuo, che ormai ha già dato tutto, non basta più e deve organizzarsi in forze per modellare la realtà, troppo grande e complessa da essere passibile di modifica da parte dei singoli.

Ed ecco che in questa nuova dimensione dello Stato, di uno stato riformato, con un nuovo rigore, prendono corpo le nuove concezioni del diritto, affermate prima nella rivoluzione americana, poi nella rivoluzione francese quindi trapassate, poi, a tutta l’Europa grazie alla cavalcata del destriero di Napoleone. Ma questo nuovo diritto non si dimentica di pensare all’origine da cui è sorto e l’origine è tutto quel coacervo di tensioni che è stato quel suo recente passato: tutta la dimensione teorica, almeno, è un continuo e definitivo ripensamento.

Una questione di fede: corpo e disciplina ovvero la nuova moralità

… sotto la disciplina di Ponocrate, ma questi, in principio, ordinò che seguitasse secondo il suo costume, affine di comprendere in sì lungo tempo, gli antichi precettori avessero potuto renderlo tanto sciocco, zuccone e ignorante. (…)

-E che? Non basta voltarsi nel letto, cinque o sei volte (…)? Papa Alessandro faceva altrettanto per consiglio del suo medico ebreo e visse sino alla morte, a dispetto degli invidiosi.[6]

Rabelais

La nascita dello Stato, la nascita di una nuova forma di economia pongono, come s’è detto, una serie di nuove conoscenze: la scienza naturalistica, prima di tutte. Ma la scienza naturalistica è una conoscenza forte e, accanto a tutte le conoscenze forti, si accampano bellamente tante piccole conoscenze più rozze e certamente meno sofisticate ma non per questo meno incisive: nella Storia nulla va sprecato, tanto meno una forza potente come l’ignoranza.

Se la grande conoscenza emana una serie di nuove concezioni, ecco che si solidificano e prendono una nuova vita nello spazio immaginario della gente comune. Ma tra la grande conoscenza e la gente comune, in quell’età (e poi sempre), si pongono a schermo, una serie di istituzioni. Il potere, ridefinito in termini funzionali, adatta la conoscenza scientifica alle proprie esigenze. La scienza, infatti, è facilmente polarizzabile proprio in quanto, di per sé, non pone alcun limite ma solo potere: si può fare!, è l’esclamazione dello Stato di fronte alla scienza. Nulla è stato vietato dalla scienza, tranne, naturalmente, che l’impossibile. Così i nuovi saperi sono stati uno dei mezzi per la stessa riorganizzazione del potere.

Lo Stato, dal canto suo, ha così utilizzato le nuove conoscenze scientifiche che non si sono arrestate di fronte alle differenze tra gli ambiti che intendevano studiare: in fondo, tra l’uomo e un topo non v’è che un passo, e non sempre per tutti tale differenza è stata così chiara. Così una serie di concezioni, più o meno scientifiche, più o meno legate all’istituzione, incominciano a erodere la concezione dell’uomo per portarla via via verso la concezione più contestualizzata di “essere-umano”. L’uomo incomincia a prendere forma nel suo contesto e sempre più il suo contesto diventa la causa di ogni sua azione.[7] Così si mette in moto un doppio processo: da un lato, la persona è individualizzata a partire dalle sue azioni, da un altro è deresponsabilizzata a partire dalle cause che hanno posto il suo stesso comportamento. L’uomo è, così, individuo individualizzato ma spersonificato, privato della sua privatezza: l’uomo è solo il punto centrale di una serie di cause/stimolazioni i cui effetti si sono, per così dire, concretizzati casualmente in un unico baricentro che, d’altra parte, non è niente di più di un punto immaginario.

Il processo porta ad una nuova visione dell’individuo nello Stato: non più persona, nel bene e nel male, ma com-plesso di comportamenti: un fatto tra gli altri. Lo Stato nella sua organizzazione ha la necessità di porre un codice di comportamento fitto e uniforme in modo tale che possa più facilmente organizzare il suo stesso potere. In questo modo bisogna effettivamente porre una “uguaglianza” tra tutti gli uomini:[8] un’uguaglianza che senz’altro riguarda il popolino, è poi discutibile che si ponga anche verso coloro che detengono il potere: “ora la delinquenza propria della ricchezza è tollerata dalle leggi, e quando avviene che essa cade sotto i loro colpi, è sicura dell’indulgenza dei tribunali e della discrezione della stampa”. [9] Se il potere, qualunque, è semplicemente il “poter-fare” qualcosa e se si riuscirà a giungere nell’ordine fino a quel livello più semplice che è il comportamento individuale allora si riuscirà veramente a trarre il massimo beneficio da tutti, il sogno vagheggiato da Platone al quale faceva difetto l’immaginario del possibile per ipotizzare strutture coercitive capaci realmente di assoggettare ogni uomo fino a fargli credere di far davvero ciò che vuole. Quando anche l’ultimo dei servi crederà di essere libero e capace, nel suo insignificante punto di esistenza sperduto nel globo, di poter cambiare la sua stessa vita, allora e solo allora la vittoria dell’ordine storico avrà raggiunto la sua meta. Posto lo scopo bisogna trovar il giusto mezzo. Ed ecco che sorgono tante e diverse istituzioni: scuole, ospedali, prigioni e le relative forme di controllo: insegnanti, ordine dei medici, polizia, corti di giustizia, psicologi.

Scuole, ospedali e prigioni, in quell’età di transizione, che muta qualcosa e mantiene qualcos’altro, sono dunque le centrali operative del potere dell’educazione dei nuovi cittadini. Tre forme diverse per un unico potere, tre forme diverse per un’unica sostanza, tre mezzi diversi per un unico fine. Ciò che varia nelle tre istituzioni è solo la qualità degli individui inscritti in quel contesto, ma le qualifiche degli individui che ne escono devono essere le medesime: sia chi esce dalle scuole, sia chi esce dagli ospedali che ci esce dalle prigioni deve potersi reintrodurre nella società senza portare perturbazioni problematiche alla società stessa. Perturbazioni nella società orizzontale, nella società civile, pongono perturbazioni nella società verticale, nel ceto dirigente della politica e dell’economia.

Denominatore comune di scuole, ospedali e prigioni: disciplina. La disciplina deve rispondere all’incrocio di due esigenze: massima aderenza alla legge e massima capacità di rendimento. Efficacia ed efficienza, già suonano simili: ecco cos’è la disciplina. L’esser pienamente coerenti col sistema, col proprio fine, è l’anima stessa della disciplina. Disciplina che è così metodo educativo e metodo produttivo insieme.

La disciplina, prima di penetrare in modo massiccio all’interno della società moderna, era stata una caratteristica di un mondo marginale, tale e riconoscibile proprio perché dotato di una rigida disciplina. Solo alcuni eserciti e gli ordini monastici erano dotati di sistemi educativi rigorosi e non molti sarebbero stati disposti a sottostare a quelle regole rigide, se posti nell’agio di una bella vita, naturalmente. Come mai non ci furono furori fiammeggianti, o non più di tanto per tutta questa massiccia e progressiva riorganizzazione? Esattamente come i bambini imparano a selezionare i suoni a partire dalle voci dei genitori, così in un secondo momento incominciano a distinguere le parole e, solo alla fine, imparano a parlare come i loro familiari, allo stesso modo gli uomini si comportano quando si trovano inscritti in contesti rigidi, dove le regole di selezione sociale sono molto restrittive e impongono un certo rigore a chi ne fa parte: le persone selezionano i comportamenti corretti da quelli scorretti, distinguono le azioni altrui  tra giuste e sbagliate, imparano a loro volta ad interagire con quella grammatica di comportamento (di molto semplificata e quindi chiarificata). Chi non riesce a rientrare nei ranghi, chi fuoriesce dalle qualifiche viene lentamente spostato, fino allo slittamento finale nell’oblio, considerato come lo scemo del villaggio, incapace di generare atti linguistici credibili, impossibilitato ad agire, screditato nell’animo e cancellato: in una parola, selezionato artificialmente per l’estenzione, come quel cane che rifiuta di riportare la pernice a comando. Così non ci sono state forme di rigetto della disciplina proprio perché il contesto economico-polico lo richiedeva e non si poteva concepire alternativa: chi è nell’ignoranza ricade al caso della storia e alla sua educazione perché non ha i mezzi per difendersi. L’imposizione dei comportamenti non pone solo che si seguano, ma che pure si concepiscano solo quelli, cosicché si creda che essi siano la norma(lità). Il comportamento, tramite la disciplina, tra-passa, sublima e diventa credenza.

La credenza sviluppata a seguito della disciplina è la fede che ha come dio la normalità. La normalità non è un punto di partenza, ma è l’espressione, risultato, dello Stato sul piano sociale. E’ l’espressione del potere nello svolgimento della sua introiezione sociale. Le persone così ridescritte nel contesto si comportano in modo chiaro e distinto a partire da questo e tutti coloro che ne fuoriescono saranno intravisti come estranei, intrusi, deformi, anormali. Estranei perché strani. Intrusi perché fuori dal loro posto. De-formi perché dotati di una forma deviante. Anormali perché al di fuori della norma. E nei confronti di questi ci sarà una chiusura circolare che li inscriverà al di fuori della propria società di riferimento e saranno condannati ad un’ostilità silenziosa, nel migliore dei casi. Come chi veniva visto in tralice perché di fede diversa, allo stesso modo verrà visto l’anormale dalla società dominante.

Il fascino che esercita l’anormale è il fascino dell’ambigutà (così è chiaro da donde la cagione del piacere pruriginoso che molti provano quando vanno a vedere i film su efferati criminali). Da una parte, infatti, si vede nell’altro il male che quotidianamente si deve trattenere, anche quello solo presunto, e, di ciò, si ha tanto più paura proprio perché si vede un esempio di chi va oltre quel limite. Da un’altra parte, però, intriga l’idea di chi agisce in nome delle sue pulsioni più intime e represse: proprio perché intime, proprio perché represse. Così, anche dopo una durissima disciplina, l’uomo non finisce mai del tutto cancellato, nonostante ciò che ne pensava il pessimista sociale Nietzsche il quale, non a torto, rivendicava la centralità della vita nella sua brutalità contro un ordine sociale formato da reggimenti di uomini cadavere.

Tutto questo fenomeno si può riassumere anche nella nascita di nuove parole: la parola chiave “normale” è parola assai recente, nell’uso che ne facciamo oggi. Basti dire che in latino si usavano due parole diverse, iustus e consuetus rispettivamente per “aderente alla norma” e per “abitudinario”. [10] Come si vede, sono dei significati che, anche uniti, non riescono a porre ciò che noi vogliamo oggi dire con la parola “normale”. Oggi le due parole si sono sovrapposte tenendo il passo alla storia. Anche il linguaggio non è rimasto indenne dalle riforme del seicento e il linguaggio è l’anticamera del pensiero, la porta aperta per le credenze della gente.

Parte 2. Ri-scrizione del problema al presente: i risultati dell’analisi

I gentil uomini possono parlare dell’epoca della cavalleria, ma pensate ai contadini, i ladri di bestiame e i furfanti che essi comandavano. E’ con questi strumenti che i grandi guerrieri e i re hanno fatto il loro feroce lavoro nel mondo. [11]

Kubrik

Cosa voleva dirci Foucault

E se la prigione assomiglia agli ospedali, alle fabbriche, alle scuole, alle caserme, come può meravigliare che tutte queste assomiglino alle prigioni?[12]

M. Foucault

 

Il senso del lavoro di Foucault è chiaro: una trattazione storica della prigione. Dal concepimento alla sistemazione, di fatto, attuale. La volontà di comprensione della contemporaneità è chiara: (…) la critica della prigione e dei suoi metodi apparì ben presto (…) essa si fissa d’altronde in un certo numero di formulazioni che –salvo per le cifre- sono ancor oggi ripetute quasi senza alcun cambiamento.[13] Se la critica di un medesimo oggetto è posta nel tempo allo stesso modo, evidentemente, nella struttura, l’oggetto deve esser lo stesso. E:

Da un secolo e mezzo[14], la prigione è sempre stata come il rimedio di se stessa; la riattivazione delle tecniche penitenziarie come il solo mezzo per ripartire il loro perenne scacco; la realizzazione del progetto correttivo come il solo metodo per sormontare l’impossibilità di realizzarlo nei fatti. (…) le rivolte dei detenuti, in queste ultime settimane, sono state attribuite al fatto che la riforma del 1945, non era mai stata realmente effettuata; che bisognava dunque riportarsi ai suoi principi fondamentali. Ora, questi principi, da cui ancora oggi si attendono effetti così meravigliosi, sono ben noti: costituiscono, da quasi centocinquant’anni, le sette massime universali della “buona condizione penitenziaria”.[15]

Così è chiaro che il problema storico viene (ri)pensato per comprendere la società presente e di come questa, in realtà, non necessariamente dovesse per forza esser quel che è.

Dunque, il corso delle argomentazioni e dei problemi posti nell’ottimo trattato è chiaro: ri-costruire ciò che è stato, srotolare il gomitolo a più fili che è stata la storia della prigione dalla seconda età moderna (inizialmente uguale nelle pene alla prima), fino a che il processo non si mostra da sé con l’evidenza della verità storica. Sin qua è tutto molto chiaro.

Ma sempre più difficile è guardare sin dentro il significato. Certamente, si tratta di un lavoro storico e non si può non tenerne conto. Ma, forse, il trattato sulla “Nascita della prigione” vuol dirci qualcosa di più. Il testo può essere considerato come una grande indagine sull’uomo, o meglio, su un processo storico anch’esso: la progressiva reificazione dell’uomo. Al di là di tutte le eventuali definizioni proponibili, oggi si assiste ad una reale difficoltà a concepire l’uomo come persona, come vita, dotata di una realtà sua propria e di una sua forza individuale. Uomo come vita fine a se stessa.[16] Tutto il testo di Foucault è una grandiosa parabola di un processo che inizia col mostrare come l’uomo, al principio, veniva punito in quanto aveva leso la maestà del sovrano in persona, ovvero aveva, in un certo senso, leso Dio stesso: l’uomo che ha travalicato i suoi vincoli, che ha fatto il folle volo. L’uomo andava punito per riportarlo nella sua “dimensione umana”, ma, appunto per ciò, pienamente umana. Da qui i grandi spettacoli e la difficoltà, per la gente, di concepire il penitente come solo un oggetto di punizione e non come un eroe. L’età moderna stravolge questa concezione: riformare il potere implicava riformare l’uomo, dal concetto del corpo alle implicazioni morali e, soprattutto, “religiose”. La normalità diventa, finalmente, lo status quo. L’uomo diventa progressivamente un oggetto di studio, e, nello studio scientifico, non si conosce noumeno e così dell’uomo si riconosce più la coscienza, o ne viene travisata l’importanza. Il comportamento, efficiente, docile e ordinato, è ciò che conta: che tu la pensi in modo del tutto diverso, che tu non abbia alcuna fiducia in ciò che fai è affatto importante: basta che tu faccia come devi e, in questo, sì che ha ragione Nietzsche nel rivendicare l’idea di calcolabilità del comportamento come base solida per il giudizio sociale, un giudizio viziato dal pregiudizio di normalità al quale, tuttavia, sembra essere irrimediabile, irrivedibile e definitivo. La calcolabilità dell’individuo diventa essa stessa l’essenza di ciò che è la concezione e la valutazione dell’”essere-umano”. Una serie di imperativi sociali si sostituiscono alle vecchie credenze progressivamente nei costumi sociali a seguito delle massicce revisioni del sistema educativo.

Scenario contemporaneo

La semplicità e oggettività dei rapporti, che elimina ogni orpello ideologico tra gli uomini, è diventata una ideologia in funzione della prassi di trattare gli uomini come cose.[17]

Adorno

 

Tutto questo lo viviamo ancora oggi. Il sistema del potere, simboleggiato nell’agghiacciante Panopticon, è pensato come invasivo e pervasivo contemporaneamente: il senso del potere è il suo stesso mantenimento mentre il suo significato è la sua credenza. Lo Stato è pensato come un tempo Dio: è ovunque e ti vede, ma non si lascia intra-vedere. Così oggi assistiamo ad una concezione di una società di massa dove, ovunque, siamo osservati dagli altri eppure nessuno ci osserva. Siamo nessuno pur essendo qualcuno: pronomi indefiniti, come indefinito è l’individuo della nostra società.
Se la voce della società facilmente trapassa in messaggi destinati alla massa indistinta, se la voce della società si fa più forte proprio dove l’individuo non conta nulla, allora possiamo vedere con chiarezza la concezione panoptica nel mondo d’oggi nei mezzi di comunicazione di massa. In particolare nello show televisivo, Il Grande fratello. In esso, i concorrenti sono posti in una casa nella quale devono vivere cento giorni circa dove vi sono telecamere ovunque: ogni metro quadro della casa è sorvegliato. I partecipanti vengono messi alla prova con diversi esercizi, tutti considerabili umilianti per chi ne è fuori. Perché citiamo questo esempio? Perché ha avuto un successo straordinario ovunque in Europa, per non parlare degli Stati uniti? E questo potrebbe essere annoverato tra le solite inezie della televisione, se non fosse per un particolare: che il principio che ha reso celebre questo programma è esattamente lo stesso che quello che soggiace al funzionamento stesso della prigione correttiva:  “(…) fa entrare i corpi in un ingranaggio e le forze in una economia”. [18] E per quanto riguarda la società:  “ (…) non è quella dello spettacolo ma quella della sorveglianza; sotto la superficie delle immagini, si investono i corpi in profondità; dietro la grande astrazione dello scambio, si persegue l’addestramento minuzioso e concreto delle forze utili; i circuiti della comunicazione sono i supporti di un cumulo e di una centralizzazione del potere…”[19], all’interno del panoptincon “(…) fare sì che gli effetti di questo potere sociale siano portati al massimo d’intensità ed estesi quanto più lontano possibile, senza scacchi, né lacune“[20], così “ (…) le discipline (…) oppongono alla forza intrinseca e contraria della molteplicità il procedimento della piramide continua e individualizzante”.[21] Insomma, il Grande fratello, programma seguito da milioni di persone, risponde esattamente agli stessi principi del panopticon, della prigione a fine correttivo. E il risultato è il medesimo: i vincitori, i più docili di tutti, sono coloro che diverranno i divi come il prigioniero delinquente. Proprio dove non piace andare a guardare, si può trovare un’ottima simulazione di ciò che accade tutti i giorni.

Se per capire un insieme di messaggi, bisogna conoscere il contesto, se per riconoscere il contesto dobbiamo già  esservi dentro, se il Grande fratello è un programma di intrattenimento (e dunque deve distrarre senza concentrare), allora per comprendere il Grande fratello bisogna essere immersi in una società che lo presupponga, che lo rende possibile e familiare. La società è il primo dei panopticon.

Ma quale è il punto conclusivo?

-Anzitutto- disse Gargantua – non bisognerà costruirvi muri all’intorno, poiché tutte le altre abbazie sono fieramente murate.

-Non senza ragione è questo- disse il monaco –dove c’è muro e davanti e di dietro, c’è molto murmurare, e invidia e mutua cospirazione.[22]

Rabelais

Dopo l’analisi storica di Foucault, dopo il riscontro trovato in modi sorprendenti nella nostra quotidianità, ci rendiamo conto che “Sorvegliare e punire” sono due dei concetti cardine della nostra società, due concetti pensati separati solo per formalità. Tutto questo già lo sappiamo, è normale, è banale ed è notevole che una frase così pregna di problemi sia anche considerata così straordinariamente ovvia. In un certo senso, il saggio dimostra ciò si mostra a noi continuamente. Così la sua conclusione, coerente se vogliamo, finisce proprio una volta finito di svelare il concetto. E qual’è la fine conclusiva del saggio di Foucault? L’avvento di una nuova società, della società del potere organizzato e onnipresente, di quel potere che sviluppa conoscenza, che se ne appropria e che utilizza per ingabbiare, vincolare a sé tutti gli uomini perché tutti gli uomini sono lì, stretti a strati, posti sotto continue ristrettezze ed ossessivamente osservati come pure assurdità: assurdità da razionalizzare. La concezione è chiara sin dalle prime battute, proprio da quelle che descrivono minuziosamente i supplizi della giustizia della prima età moderna:

Forse bisogna anche rinunciare a tutta una tradizione che lascia immaginare che un sapere può esistere solo là dove sono sospesi i rapporti di potere e che il sapere non può svilupparsi che fuori dalle ingiunzioni del potere. Forse bisogna rinunciare a credere che il potere rende pazzi e che la rinuncia al potere è una delle condizioni per diventare saggi. Bisogna piuttosto ammettere che il potere produce sapere (…); che potere e sapere si implicano direttamente l’un l’altro; che non esiste relazione di potere senza correlativa costituzione di un campo di sapere, né di sapere che non supponga e non costituisca nello stesso tempo relazioni di potere.[23]

E, per concludere:  «In breve, non sarebbe l’attività del soggetto di conoscenza a produrre un sapere utile (…), ma, a determinare le forme e i possibili campi della conoscenza sarebbero il potere-sapere, e i processi e le lotte che lo attraversano e da cui è costituito»[24].

In poche parole, prima di tutto il potere implica il sapere e lo integra al suo interno; non solo, il sapere è, in qualche modo, espressione stessa del potere. In secondo luogo, non basta esser fuori dal possesso del potere stesso ché tanto quello, essendo pervasivo, ti segue ovunque. Insomma, dal potere si prende le mosse, comunque, e, comunque, non si scappa. L’uomo non solo non è libero, ma è sempre in funzione della sua società, comunque la vogliamo descrivere. Addirittura la sua conoscenza non può nulla, non libera in ogni caso, ché anzi, essendo il frutto di ciò che cerchiamo di sfuggire, ci fa ricadere ancor di più all’interno della società e delle sue leggi.

Ci sembra un po’ troppo. Se per libertà poniamo una libertà ingenua, volontarista e assoluta, legata solo all’emozione, allora siamo anche d’accordo. Che il potere si sia progressivamente spogliato della sua dimensione umana, siamo pure d’accordo. Anche se ci viene più in salita esser qui d’accordo col concepire il potere, in qualche momento della storia, come qualche cosa di più umano. E’ dubbio che il gladiatore romano, costretto fin sulla terra spoglia del Colosseo, ringraziasse il Cesare di turno dell’humanitas che riservava nei suoi confronti, anche quando lo salvava dall’esser il pasto consono per una bestia. Il potere è sempre impersonale di per sé, anche quando è arbitrario ed ha sempre avuto connotati ambigui. Ad ogni modo possiamo anche concedere questo.

Però, se è vero che il potere è impersonale di per sé, è anche vero che è sempre qualcosa di umano e che nasce e vien posto dagli uomini e che comunque si rivolge agli uomini anche quando è degenere: il potere è umano attraverso l’uomo. Il potere può essere umano. Lo Stato è organizzazione astratta, forse, ma è eretto dagli uomini, questo non è poco. Così non siamo pienamente d’accordo con quel qualcuno che diceva che

(…) è ancora chi dice che la politica[25] è questione di uomini. (…) a chi insiste a dire che è questione di uomini, rispondiamo con assoluta chiarezza che è questione di istituzioni. Gli uomini, nella stragrande maggioranza sono quello che sono: le istituzioni buone rivelano le qualità positive, le istituzioni cattive quelle negative.[26]

Come per Foucault, tutto vero, ma attenzione. Bisogna sempre avere un occhio di riguardo per l’intelligenza e per le possibilità umane, che, anche quando sono poche e deboli, in realtà possono molto. Si tenga conto di questo: le istituzioni senza gli uomini sono prive di potere. Così storia e istituzioni non vanno avanti per incanto, ma grazie all’azione positiva (o negativa) degli uomini.

Ed ecco che ricordiamo la piccola introduzione aporetica che abbiamo posto provocatoriamente all’inizio: la problematicità è sempre possibilità ancora inespressa, soluzione che può essere trovata. Sicuramente il problema delle carceri può essere spinoso ma perché rinunciare ad una soluzione positiva? Che, come ci dice il pensatore francese, sia sempre stato posto il problema e si sia sempre ricaduti in una sua riaffermazione ciclica, senza mai portare alcuna modifica può anche essere vero, nessuno lo metterà in dubbio. Ma perché escludere la possibilità che si possa concepire un sistema educativo migliore, più umano e più dignitoso?

Fino ad ora il problema della giustizia si è posto in termini di necessità di controllo: perché ora non cercare di tirar fuori dalle persone invece che passività e docilità, la ragione e il sentimento? L’educazione può essere figlia del potere, ma il potere può essere ben gestito. Il potere è neutro e così se s’intesse di buone relazioni perché non dovrebbe produrre cose positive? La storia mostra che esistono dei casi del genere, certo, rari quanto ci pare, ma esistono:

E d’altra parte, deve essere difficile, ciò che si trova così raramente! Come potrebbe altrimenti accadere che se ciò che è importante sul serio fosse così alla portata di mano e potesse essere trovato senza grande fatica, venisse trascurato da tutti? Ma tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare.[27]

Visto che la demografia mostra che siamo in tanti, perché non cercare di convogliare le energie in una educazione umana e razionale, piuttosto che andare avanti ad affermare continuamente che tanto c’è poco da fare, che gli uomini son tristi e che sì, vanno bene le leggi, ma il bastone funziona bene lo stesso, se non meglio, e procedere a riaffermare le une e l’altro? Tanto peggio quando poi si mostra l’immutabile dello staus quo. Ci pare così che anche il problema della giustizia, proprio perché può essere affrontato alla larga, possa essere pensato in modo più costruttivo. Perché non tener minimamente conto della possibilità inespressa, magari, che si possa ottenere la stessa resa con processi più umani? Ci viene in mente un film ambientato proprio tra l’inizio dell’età contemporanea e la fine dell’età moderna, quando il comandante dell’esercito, ormai inabile, sgrida il carceriere Sentenza per i suoi modi disumani di controllo dei prigionieri:

Sentenza: “ho solo un pugno di uomini, quelli sono migliaia, come pensate che faccia a far mantenere l’ordine?”

Il capitano: “Otterreste lo stesso risultato se li trattaste più umanamente.[28]

E’ quel che pensiamo in relazione all’educazione, al trattamento ospedaliero dei pazzi e dei carcerati. Il futuro è aperto, a patto che però ci si dia da fare per esso e si insegni al singolo a sviluppare la propria Ragione e le proprie capacità individuali: se il saggio di Foucault ci ha detto il vero, allora il potere coercitivo una cosa l’ha capita: che dalla forza individuale si può ottenere una grande forza collettiva: dunque perché non sfruttare questo potere dell’uomo per l’uomo? E così ci riallacciamo alla prima citazione, chiudendo il discorso:

Concludo, adunque, che, variando la fortuna, e stando gli uomini ne’ loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme, e, come discordano, infelici. Io iudico bene questo: che sia meglio essere impetuoso che rispettivo; perché la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi che quelli che freddamente procedano; e però sempre, come donna, è amica dei giovani, perché sono meno rispettivi, più feroci e con più audacia la comandano.[29]

Chi ha detto che in tutto ciò ci sia solo un male e che non ci sia, proprio lì, un grandissimo bene?, che la strada della conoscenza non si possa finalmente aprire?


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[1] Machiavelli, Niccolò. Il principe. Oscar Mondadori. Cap. XXV Quantum fortuna humanis possit, et quomodo illi sit occurrendum. P.110.

[2]Prosperi, Adriano. Storia moderna e contemporanea. Volume I, Dalla peste nera alla guerra dei Trent’anni. Einaudi, Torino 2003.

[3] Hobsbawn, Eric J.. Il secolo breve. 1914-1991. Bur. 1994. P. 128.

[4] Si tenga presente che la soglia della contemporaneità è il 1848, sebbene, ormai, si possa dire, con Hobsbawn, che un altro periodo storico è terminato: quel secolo e mezzo che ha portato l’occidente a tramontare su se stesso.

[5]Foucault, Michel. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione. P. 97. Einaudi Torino 1976.

[6]Rabelais, F. Gargantua e Pantagruel, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1983. P.64-65.

Rabelais descrive bene i meccanismi che s’instaurarono nell’ordine pubblico un secolo e mezzo più avanti. E ciò è interessante proprio perché, forse, alcuni sentimenti erano già nell’aria e si potevano intuire già nel cinquecento, da mano di grande scrittore, qui la ragione del riferimento. E tra l’altro, la stessa figura di Rabelais, dell’uomo che sta dietro l’autore, ci mostra la molteplice convergenza di forze messa in campo: legislativa, scolastica, medica e religiosa (non c’è bisogno di ricordare che Rabelais era figlio di un uomo di leggi, che entrò più volte nell’ordine benedettino e che studiò in diverse università per laurearsi proprio medicina ed esercitò egli stesso la professione di medico).  Per vedere un’interessante correlazione tra il nostro argomento e il Gargantua: “Quando Ponocrate conobbe la maniera sbagliata di vivere di Gargantua, deliberò  d’istruirlo nelle lettere in modo diverso (…). Per meglio cominciar l’opera sua supplicò un sapiente medico di quel tempo, nominato Teodoro, che studiasse il possibile per rimettere Gargantua su miglior via. Egli lo purgò, secondo le regole (…) con tal medicina lo guarì dal disordine e dai vizi” e ancora “l’introdusse nelle compagnie dei sapienti (…) a emulazione dei quali gli crebbe l’ardore e il desiderio di studiare in modo diverso.” E “Poi gli diede tale indirizzo di studi che non perdeva un’ora del giorno e dava (…) a riverire, adorare, pregare e supplicare il buon Dio, la maestà (…)” P.70. Queste immagini non possono non far pensare al saggio di Foucault.

[7] La psicologia comportamentista è il chiaro esempio di come l’idea dell’educazione come apprendimento su stimolazione del contesto sia divenuta il paradigma di credenza dominante anche al di fuori della concezione direttamente filosofica ideata nella modernità. A tal proposito è illuminante, nella sua analitica fantasia, Il mondo nuovo di Huxley.

[8] “Si comprende come il potere della norma funzioni facilmente all’interno di un sistema di uguaglianza formale, poiché all’interno di una omogeneità che è la regola, esso introduce, come imperativo utile e risultato di una misurazione, tutto lo spettro delle differenze individuali”.

Foucault M, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi Torino 1976, p. 202.

[9] Foucault, Michel. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione.Einaudi Torino 1976. P. 318.

[10] Vedi dizionario Campanini Carboni.

[11] Kubrik Stanley. Barry Lindon. In inglese: Gentlemen talk on the age of Chivalry, but remember the ploughmen, poachers and pickpockets they lead. It is with these instruments great warriors and kinks have been their murderous work in the world.  Si noti come in inglese sia molto più forte la parola “murderous” piuttosto che la parola italiana “sanguinoso”. Morderous sta per l’atto di assassinio che verrebbe meglio tradotto con “delittuoso”.

[12] P. 247. Ivi..

[13] P. 291. Ivi..

[14] Cioè dal periodo dell’affermazione del sistema penitenziario…

[15] P. 296. Ivi.. Corsivo mio.

[16] A dimostrazione di ciò riportiamo proprio la frase con cui finisce il libro: “In questa umanità centrale e centralizzata, effetto e strumento di complesse relazioni di potere, corpi e forze assoggettate da dispositivi di “carcerazione” multipli, oggetti per discorsi che sono a loro volta elementi di quella strategia, bisogna discernere il rumore sordo e prolungato della battaglia.“ (Corsivo mio). Ivi.  p. 340.

[17] Adorno, Theodor W. Minima Moralia. Introduzione e nota all’edizione 1994 di Leonardo Ceppa. Einaudi Torino. 1994. P.38.

[18] “Sorvegliare e punire” P. 229, Ivi..

[19] Ivi. p. 236.

[20] Ivi. p. 237.

[21] Ivi. p.239.

[22] Rabelais F., Gargantua e Pantagruel, Istituto Geografico De Agostani, Novara, 1983, p.135.

[23] “Sorvegliare e punire” P. 31 Ivi..

[24] “Sorvegliare e punire” P. 31 Ivi..

[25] Ma vale anche per la storia (dello Stato!), in questo caso più che mai.

[26]“c’è ancora chi dice che la politica è questione di uomini. Costoro costituivano durante il fascismo la schiera degli illusi, perché ammettevano che tutto sarebbe andato per il meglio se al posto di quegli uomini, corrotti e prepotenti, ci fossero stati altri uomini, onesti e incorruttibili. (…) gli illusi (…) scoprono che or qui or là non tutti i nuovi governanti son dei Pericli (…) alla base di questo pregiudizio (…) sta la divisione astratta e moralistica degli uomini (…) in buoni e cattivi, e la falsa e ingenua opinione che la politica sia l’arte semplicissima di mettere i buoni al posto dei cattivi. (…) Gli uomini (…) sono per lo meno mediocri, provvisti di poche virtù acquisite e di molti vizi naturali, disarmati di fronte alle tentazioni dell’ambizione, della ricchezza e del potere e che se qualche contrapposizione tra il meglio e il peggio si può gare non è tra gli uomini, ma tra le istituzioni. Perciò, a chi insiste a dire che è questione di uomini, rispondiamo con assoluta chiarezza che è questione di istituzioni. Gli uomini, nella stragrande maggioranza sono quello che sono: le istituzioni buone rivelano le qualità positive, le istituzioni cattive quelle negative.” Abbiamo citato l’intero passo, oltre che per l’estrema bellezza, per rendere più chiaro il contesto dell’asserzione che rischiava di essere poco chiara.

Bobbio, Norberto. Tra due repubbliche. Alle origini della democrazia italiana. Saggine. Donzelli Editore. Roma 1996. P.23 Capitolo VIII Uomini e istituzioni.

[27] Spinoza, Baruch. Etica. Dimostrata con metodo geometrico. A cura di Emilia Giancotti. Editori Riuniti. Parte V, P. 318. Ciò che importante sul serio è in realtà la salvezza, ma la frase rende molto bene il concetto.

[28] Leone, Sergio. Il buono, il brutto, il cattivo.

[29] Machiavelli N., Il principe, Mondadori, Milano, 1994, p.112.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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