Nelle ultime settimane, il conflitto tra Iran e Israele ha riportato al centro del dibattito il ruolo dell’Unione Europea nei grandi scenari geopolitici. La crisi in corso, con attacchi reciproci, vittime civili e un cessate il fuoco fragile mediato da attori esterni, dimostra quanto sia ancora debole la capacità dell’Europa di proporsi come soggetto strategico autonomo.
La questione non è solo militare o diplomatica: è una questione di struttura. L’Unione Europea, così com’è oggi, ha fondamentali difficoltà a comportarsi come una potenza centralizzata sul modello statunitense. La sua architettura è fatta di Stati con storie, interessi e sensibilità diverse. Il sogno di un governo federale unitario, se mai è stato realistico, appare oggi superato dagli stessi meccanismi della storia. Sebbene vi siano strumenti e istituzioni profondamente centralizzate, per vari motivi, sono ancora i capi di governo a dettare l’indirizzo strategico di ciascun stato membro e proprio in virtù di questo potere tendono ad instaurare alleanze cruciali che non necessariamente sono incluse nel perimetro dell’Unione.
Eppure, una strada esiste. E viene, forse poco noto ai più fuori dal contesto italiano, da un ambito molto più ristretto e a contatto diretto con i cittadini: le Unioni di Comuni in Italia. Queste realtà amministrative, nate per condividere servizi tra piccoli comuni, offrono un modello di governance flessibile, funzionale e operativa che può ispirare una riflessione seria sulla politica estera europea.
Unioni di Comuni: un modello funzionale
Le Unioni di Comuni sono enti locali previsti dall’ordinamento italiano (art. 32 del Testo Unico degli Enti Locali, D.lgs. 267/2000), formati da due o più comuni che si associano per l’esercizio congiunto di funzioni e servizi. L’idea nasce per razionalizzare la spesa pubblica, aumentare la qualità dei servizi e garantire l’efficienza amministrativa in territori spesso frammentati e caratterizzati da piccoli centri con risorse limitate.
A partire dagli anni duemila, la loro diffusione è stata incentivata da leggi regionali e statali, anche con contributi economici. In particolare, dal 2010 in poi, alcune norme hanno reso obbligatoria per i comuni sotto i 5.000 abitanti (3.000 in zona montana) l’associazione di funzioni fondamentali tramite Unioni o convenzioni. Tuttavia, l’applicazione concreta ha mostrato notevoli differenze regionali e gestionali. C’è da chiarire che si tratta di uno strumento, comunque, abbastanza recente e che insiste su territori non sempre del tutto omogenei e comunque su istituzioni che possono divergere politicamente con assidua regolarità.
Le Unioni funzionano? Dipende. Alcune Unioni si sono dimostrate virtuose, riuscendo a creare economie di scala, migliorare i servizi e sviluppare capacità amministrativa, mentre altre sono rimaste sulla carta, ostacolate da conflitti politici, carenze di personale o modelli di governance poco efficaci. Molte Unioni hanno affrontato difficoltà legate alla complessità amministrativa, alla scarsità di risorse umane e finanziarie e alla mancanza di una visione realmente condivisa tra i comuni aderenti. Alcune hanno addirittura visto il recesso di membri o lo scioglimento.
Tuttavia, ci sono anche casi virtuosi, che sono stati trattati in appositi e approfonditi documenti e che possono essere rianalizzate anche alla luce di ulteriori evoluzioni. In alcuni casi, comunque, le Unioni più grandi hanno dimostrato che l’aggregazione sovracomunale può diventare un’efficace piattaforma per la gestione coordinata dei servizi, la pianificazione territoriale, e l’efficienza economica. La loro efficacia è comunque la variabile di un’equazione costituita da fattori come l’equilibrio demografico, la densità urbana, la coesione politica e la governance multilivello.
Ciò che conta è che le Unioni non cancellano l’identità politica dei comuni aderenti, ma permettono (o comunque, tendono a) di creare un’ossatura operativa condivisa. Nascono per fornire servizi in modo più efficiente laddove le singole amministrazioni non avrebbero risorse sufficienti (di natura economica, personale a disposizione, “peso politico” nei confronti degli enti di maggiore dimensione). Ogni Unione può decidere quali funzioni condividere (anagrafe, polizia locale, raccolta rifiuti) e come gestirle, mantenendo al tempo stesso l’autonomia dei comuni aderenti.
La governance si basa su statuti condivisi, mandati temporanei, responsabilità definite. Esiste un ente capofila, ma non è una gerarchia rigida. È un sistema modulare, che permette flessibilità e adattamento ai contesti locali. Esattamente ciò che manca oggi alla proiezione internazionale e spesso alla capacità operativa interna dell’UE.
Vale inoltre la pena approfondire un ulteriore aspetto che qui proponiamo come spunto di riflessione: le Unioni di Comuni nascono spesso dall’esigenza di affrontare le limitazioni di risorse locali, rivelandosi particolarmente efficaci nei territori più svantaggiati. In queste aree, il loro impatto è stato significativo, anche perché in diversi casi si sono evolute dalle precedenti Comunità Montane. Pur mantenendo la vocazione territoriale e le funzioni specifiche legate alla montagna, le Unioni di Comuni hanno rappresentato un passo avanti nella gestione coordinata delle risorse e nella fornitura di servizi essenziali. Analogamente, anche gli Stati membri dell’Unione Europea si trovano in situazioni di scarsità (sotto molteplici aspetti) ben più profondi di quanto si possa anche pubblicamente ammettere e perciò la soluzione dell’Unione modulare potrebbe essere una alternativa calzante.
L’Europa che già funziona a geometria variabile
Se guardiamo attentamente, alcune dinamiche già esistono nell’Unione Europea. Il cosiddetto “Formato Normandia” (Francia e Germania con Russia e Ucraina), l’agenda urbana europea guidata da partenariati tematici, le missioni militari nel Mediterraneo affidate all’Italia: sono tutti esempi di alleanze operative e variabili, in cui la rete si costituisce imperniandosi sui soggetti maggiormente coinvolti negli specifici servizi o ambiti.
Anche strumenti come il PESCO (cooperazione strutturata permanente in ambito difesa), o il Metodo Aperto di Coordinamento (MAC), si muovono lungo linee analoghe: nessuna imposizione centrale, ma condivisione strategica per obiettivi comuni. Questi esempi, se formalizzati e resi strutturali, possono evolvere in una vera e propria “Unione operativa differenziata”.
Un’Unione operativa differenziata: come funzionerebbe?
L’idea non è nuova, ma finora non ha trovato una forma concreta. Ispirandosi al modello delle Unioni di Comuni, l’UE potrebbe dotarsi di blocchi operativi con:
- Funzioni comuni definite (diplomazia, intelligence, sicurezza energetica, Sanità e Servizi di assistenza);
- Mandati chiari e temporanei, conferiti a Stati capofila in base a competenze e interessi;
- Statuti operativi, con responsabilità, strumenti e risorse condivise;
- Coordinamento europeo centrale per garantire coerenza e rappresentanza complessiva.
Non è una rivoluzione, è una formalizzazione dell’esistente. Ed è un modo per superare l’immobilismo che frena ogni tentativo di politica estera comune o di profonda e definitiva integrazione all’interno dei rigidi confini che impone un modello di “super stato”.
Esempi concreti di applicazione
Nel Mediterraneo, l’Italia già guida missioni UE per il controllo dei flussi migratori. Potrebbe farlo anche per la diplomazia nel Nord Africa, in coordinamento con Spagna e Grecia. La Germania, d’altro canto, ha già una leadership riconosciuta in ambito energetico e infrastrutturale verso Est.
Queste leadership, se riconosciute formalmente, permetterebbero di attivare rapidamente risorse, mediazioni e missioni. Ogni Stato continuerebbe a essere sovrano, ma agirebbe in un quadro strutturato e condiviso.
Una governance che riflette la realtà
L’Unione Europea non è un impero. Ma non è nemmeno una confederazione informe. È una rete di Stati interconnessi, che funziona meglio quando si muove per alleanze e progetti mirati. Inoltre, vale la pena ricordarsi che anche i singoli Stati presentano al loro interno livelli di governance più ridotti come le regioni e le municipalità, con poteri e capacità di rappresentanza differenti da paese a paese. Come le Unioni di Comuni, può costruire una “spina dorsale” di servizi comuni e decidere, di volta in volta, chi fa cosa e per quanto tempo.
Il nodo cruciale che emergerebbe riguarderebbe sicuramente la democraticità (o per meglio dire, la legittimità diretta dei cittadini) di questa nuova struttura. Tuttavia, considerando le affluenze alle elezioni per il Parlamento europeo e il metodo di formazione della Commissione, ben poco si potrebbe farlo per renderlo meno vicino ai cittadini di quanto già non lo sia.
Non servono sogni federalisti o nostalgie imperiali. Serve capacità operativa, legittimazione condivisa e realismo politico. In un mondo multipolare e instabile, è l’unico modo per contare davvero.
Postilla bibliografica:
- Angius, V., & Spano, A. (2024). Narrative di condivisione: un’indagine approfondita sull’efficacia delle Unioni di Comuni. Azienda Pubblica, 2024(04), 55–75.
- Messina, G., Taddei, T., & Florio, A. (2023). Le grandi Unioni di comuni italiane: un modello per le Città Medie?. Fondazione ANCI MediAree
- Manestra, S., Messina, G., & Peta, A. (2018). L’unione (non) fa la forza? Evidenze empiriche sull’associazionismo comunale in Italia. Banca d’Italia – Questioni di Economia e Finanza
- Schakel, A.H. (2020). Multi-level governance in a ‘Europe with the regions. Journal of European Integration.
- Hulst, R. & van Montfort, A. (2007). Inter-municipal Cooperation in Europe. Springer.
- Goldsmith, M. & Page, E. (2010). Changing Government Relations in Europe. Routledge.
- Spano, A. & Saba, I. (2022). Venticinque anni di Unioni di Comuni: dalla nascita alla maturità, Regional Studies and Local Development
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