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La filosofia politica cinese contemporanea: Rinascimento Confuciano e proposta di un modello ibrido.
Offrire una panoramica esaustiva del pensiero filosofico-politico cinese in poche righe sarebbe non solo inefficace, ma anche riduttivo e irrispettoso verso la complessità e la profondità di questa tradizione. Tuttavia, alcuni aspetti fondamentali devono necessariamente essere introdotti per poter proseguire in modo rigoroso l’analisi del problema.
In primo luogo, prenderemo in esame lo status attuale della filosofia cinese nel panorama intellettuale globale. In seguito, si analizzerà, in termini generali, il fenomeno socioculturale della riscoperta e della riattualizzazione del pensiero confuciano all’interno della politica cinese contemporanea. Infine, l’attenzione sarà rivolta ai più recenti sviluppi teorici del cosiddetto “modello politico confuciano”, proposto come possibile risposta alla crisi delle democrazie liberali.
Per iniziare con il problema generale della filosofia cinese, non mi avventurerò in analisi storico-filosofiche per le quali non possiedo le competenze specifiche. Mi limiterò invece a porre l’attenzione su una questione solo in apparenza “nominale”: il problema, ampiamente dibattuto, se la tradizione cinese possa essere considerata portatrice di una vera e propria “filosofia”.
Parlo di questione solo apparentemente nominale perché le sue implicazioni sono profondamente concrete, situandosi all’interno di una rete di pregiudizi e assunzioni implicite propri dell’impostazione occidentale, a cominciare dalla stessa definizione di “filosofia” – storicamente costruita e culturalmente situata.
Per questa riflessione, farò riferimento a una conversazione avuta con alcuni colleghi delle università di Pechino e della Fudan University in occasione del Congresso Mondiale di Filosofia (conversazione in parte ripresa anche nella mia intervista a Tongdong Bai, disponibile su YouTube[1]), nonché al testo introduttivo di riferimento di Anne Cheng, sinologa e docente al Collège de France, che rappresenta una delle sintesi più autorevoli e accessibili del pensiero cinese classico.
Il dibattito sull’inclusione del pensiero cinese all’interno della disciplina filosofica nasce dal fatto che il termine stesso di “filosofia” ha origini europee e fu introdotto in Cina soltanto tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Questa origine storica e culturale ha generato un pregiudizio radicato: mentre l’insegnamento di Platone è universalmente riconosciuto come attività filosofica, quello di Confucio solleva spesso dubbi e resistenze. Il problema deriva dalla tendenza occidentale a identificare la filosofia con un percorso concettuale che va da Platone a Kant, fino a Wittgenstein, escludendo così forme di riflessione che si sviluppano al di fuori di questa genealogia.
Il pensiero cinese è stato spesso ridotto a mera etica o a una pratica di vita, anche a causa della relativa assenza, nella tradizione cinese pre-buddhista, di un elemento teologico paragonabile a quello Platonico-Cristiano, che ha profondamente modellato la filosofia occidentale. Tuttavia, tale visione risulta parziale. Pensatori come Zhuangzi affrontano temi profondi relativi all’esistenza, alla conoscenza e alla soggettività, pur utilizzando forme espressive e stili discorsivi differenti da quelli tipici della tradizione socratica a cui spesso viene associata.
Il confronto tra il pensiero cinese e quello occidentale mostra che entrambe le tradizioni si interrogano su questioni fondamentali della condizione umana. I filosofi cinesi, pur concentrandosi su temi pratici — come il buon governo, la formazione morale o la relazione tra individuo e comunità — sollevano interrogativi universali sul vivere bene, sulla natura dell’uomo e sul significato della vita. La minore attenzione alla metafisica nelle epoche anteriori all’influenza buddhista non è indice di una carenza teorica, bensì il segno di una diversa gerarchia di priorità intellettuali. Il confronto con altre tradizioni di pensiero è essenziale per mettere in discussione le categorie con cui l’Occidente definisce la filosofia stessa. Riconoscere che non tutte le culture hanno posto al centro le medesime domande ontologiche o epistemologiche permette di avviare una riflessione meta-filosofica sul carattere storicamente situato — e non universalmente valido — delle cosiddette “domande fondamentali” dell’Occidente.
Le parole di Anne Cheng colgono con grande lucidità il nodo teorico e politico della questione. Scrive la sinologa:
Tutto ciò che s’è detto fin qui sembra interdire al pensiero cinese la qualifica di filosofia, titolo che si riservano gelosamente gli eredi del logos, respingendo ai margini gli altri aspiranti: il pensiero cinese si configurerebbe dunque come uno stadio ‘pre-filosofico’ […] ‘L’Oriente – ci si dice – ignora il concetto, perché si accontenta di far coesistere il vuoto più astratto e l’essente più triviale, senza alcuna mediazione’ (Deleuze e Guattari, Che cos’è la filosofia?). Si ha qui l’espressione di un orgoglio intellettuale che, associato alla supremazia occidentale, spiega perché l’etichetta filosofica, divenuta sinonimo di una dignità che ogni cultura cerca di rivendicare a sé stessa, sia oggi tanto ambita. Come ha mostrato Joël Thoraval, la Cina non è sfuggita a questo desiderio di riconoscimento, dotandosi in epoca moderna della categoria ‘filosofia’, designata con un neologismo mutuato dal giapponese alla fine del XIX secolo (zhexue, dal giapponese tetsugaku).[2]
E ancora:
I testi cinesi si chiariscono dal momento in cui si sa a chi rispondano. Non possono dunque costituire un sistema chiuso, poiché il loro significato si elabora nella rete delle relazioni che li costituiscono. Invece di costruirsi in concetti, le idee si sviluppano in questo grande gioco di rinvii che altro non è che la tradizione, e che ne fa un processo vivente. L’assenza di teorizzazione alla maniera greca o scolastica spiega senza dubbio la tendenza cinese ai sincretismi. Non v’è una verità assoluta ed eterna, ma dei dosaggi. In particolare, ne consegue che le contraddizioni non sono avvertite come irriducibili, ma piuttosto come delle alternative. Invece di termini che si escludono a vicenda, si vedono predominare le opposizioni complementari, che ammettono il più e il meno: si passa dallo Yin allo Yang, dall’indifferenziato al differenziato, attraverso un’impercettibile transizione. Insomma, il pensiero cinese non procede in modo lineare o dialettico, quanto piuttosto a spirale.[3]
Questa radicale alterità del pensiero cinese dovrebbe farci riflettere non su una presunta inferiorità teorica, ma piuttosto sull’alto grado di sviluppo di un impianto speculativo che, pur privo di metafisica nel senso occidentale, è profondamente orientato alla dimensione politica e pratica. È un punto che si ricollega a quanto già osservato nel capitolo precedente, circa la corrispondenza tra l’antichità cinese e la modernità europea: la filosofia politica occidentale moderna nasce da una frattura con i presupposti teonomi della legittimazione del potere. A partire da Macchiavelli fino a Kant, passando per Hobbes, Locke e Rousseau, si assiste alla costruzione di una teoria del potere fondata su basi non metafisiche, ma razionali, consensuali, storicizzate e secolari.
Tuttavia, proprio questa cesura dovrebbe portarci a una riflessione critica: se la filosofia politica occidentale moderna si fonda sull’eliminazione dei presupposti metafisici, perché continuiamo a negare il riconoscimento filosofico a una tradizione, come quella cinese, che sin dalle origini ha adottato un approccio pragmatico, laico e orientato alla gestione concreta del vivere associato? La contraddizione è evidente: chiamiamo “filosofia” un pensiero che ha rigettato il fondamento metafisico, ma neghiamo lo stesso statuto a un pensiero che ne è stato strutturalmente privo.
Hobbes fu accusato di ateismo, fondando la sua teoria del potere sul monopolio della forza legittima; Locke, nel Primo Trattato, confutò la visione patriarcale e teocratica proposta da Filmer; Machiavelli, ne Il Principe, presentava la religione come uno strumento utile al controllo delle masse. In questo senso, il pensiero cinese — che sin dalle sue prime formulazioni si è occupato di etica, ordine sociale e legittimità politica in assenza di una teologia fondativa — non appare né arretrato né “pre-filosofico”, ma, anzi, potrebbe essere considerato più coerentemente moderno.
Il secondo macrotema che va sottolineato è il ruolo del linguaggio filosofico:
Cheng osserva anche:
Il valore del linguaggio nella Cina antica, dunque, non si annette tanto alla sua capacità descrittiva e analitica, quanto piuttosto alla sua strumentalità. Se il pensiero cinese non avverte mai l’esigenza di esplicitare né il problema, né il soggetto, né l’oggetto, è perché non si preoccupa di scoprire una qualsivoglia verità di ordine teoretico.[4]
Queste considerazioni ci aiutano a comprendere che esistono modi differenti di fare filosofia, ciascuno dei quali esprime priorità intellettuali specifiche, che a loro volta si traducono in esigenze politiche diverse. Riconoscere la piena dignità filosofica del pensiero cinese non significa ridurre la filosofia a un relativismo culturale, ma ampliarne i confini oltre i limiti autoimposti da una tradizione che, pur nella sua ricchezza, non è l’unica possibile.
Per di più il tema del linguaggio è intrinsecamente un tema politico.
Esplorare in modo approfondito il rapporto tra linguaggio, politica e costruzione dell’identità collettiva richiederebbe uno spazio ben più ampio di quello disponibile in questa sede. Tuttavia, è sufficiente chiarire un punto essenziale: la struttura linguistica di una comunità non determina rigidamente il suo assetto politico. Lo dimostra il fatto che lo stesso linguaggio europeo, fondato su categorie escatologiche e universalistiche, sia stato alla base tanto delle ideologie totalitarie del Novecento quanto delle democrazie liberali.
Ciò che qui si intende sostenere non è dunque un determinismo linguistico, bensì il fatto che alcune strutture politiche e culturali possono essere comprese più chiaramente alla luce dell’autorappresentazione linguistica di una data civiltà. Come osserva ancora Anne Cheng, il cinese è una lingua costitutivamente irriflessiva, pertanto:
Non è quindi affatto sorprendente che il pensiero cinese non si sia costituito in ambiti come l’epistemologia o la logica, fondati sulla convinzione che la realtà possa rappresentare l’oggetto di una descrizione teorica nell’istituzione di un parallelismo fra le sue strutture e quelle della ragione umana. Il procedimento analitico inizia con un distanziamento critico, costitutivo sia del soggetto che dell’oggetto. Il pensiero cinese, invece, appare totalmente immerso nella realtà: non v’è ragione al di fuori del mondo.[5]
Questa immersione nella realtà contribuisce a spiegare l’orientamento antiretorico e pragmatico che caratterizza in larga parte il discorso politico cinese. Anche durante l’era maoista, le premesse teoriche del marxismo – originariamente legate alla dialettica hegeliana – sono state reinterpretate attraverso una lente strettamente pragmatica.
A questo proposito, è illuminante quanto osserva Maurizio Migliori a proposito della concezione maoista della conoscenza:
Mao interpreta il marxismo in una chiave strettamente legata al più puro pragmatismo. La teoria qui proposta trova la sua origine e il suo fondamento nella prassi. ‘I marxisti ritengono che soltanto la pratica sociale degli uomini possa essere il criterio della verità delle conoscenze che l’uomo ha del mondo esterno. Nei fatti accade che la conoscenza umana riceve la sua verifica solo quando, nel processo della pratica sociale (nel processo della produzione materiale, della lotta di classe e della sperimentazione scientifica), gli uomini hanno raggiunto i risultati che prevedevano nel pensiero.[6]
Questa impostazione è coerente con un circolo tipico delle filosofie pragmatiste: il pensiero è una forma di esperienza che si sviluppa per ipotesi operative, soggette a verifica nella prassi. L’idea viene così riformulata in maniera icastica da Mao Zedong in un celebre passaggio della Antologia:
Da dove provengono le idee giuste? Cadono dal cielo? No. Sono innate? No. Esse provengono dalla pratica sociale e solo da questa. Provengono da tre tipi di pratica sociale: la lotta per la produzione, la lotta di classe e la sperimentazione scientifica. È l’esistenza sociale dell’uomo che determina le sue idee.[7]
Queste affermazioni illustrano con chiarezza la continuità tra alcune istanze del pensiero cinese classico — centrato sull’azione, sull’armonia dinamica e sulla funzione sociale del sapere — e l’interpretazione marxista operata da Mao, in cui la teoria è valida solo se confermata dalla pratica. Anche in questo caso, si conferma il tratto distintivo di una filosofia eminentemente pragmatica, immersa nella realtà e orientata all’efficacia concreta, piuttosto che alla costruzione astratta di sistemi concettuali. Alla luce di quanto detto, risulta pienamente giustificata la necessità di adottare una prospettiva filosofico-linguistica adeguata ad analizzare il mondo cinese, anche (e soprattutto) in ambito politico. È ampiamente riconosciuto che il linguaggio costituisce un elemento fondamentale non solo della prassi politica, ma anche di ogni forma di linguaggio prescrittivo, come quello giuridico. Il modo in cui si definiscono, usano e articolano i concetti ha conseguenze dirette sull’azione politica e istituzionale.
Un collega, parlando dell’applicazione della filosofia all’analisi dell’intelligence strategica[8], era solito ricordare come quello dell’intelligence sia “un mondo dominato dalla parola”. In questo senso, si potrebbe dire che, se il filosofo è colui che attribuisce significato alle parole, lo stratega è colui che si muove nell’orizzonte di tali significati nell’esercizio del suo potere.
Questa breve digressione sul linguaggio non è secondaria, ma anzi si rivelerà essenziale per affrontare l’analisi dei discorsi politici di Xi Jinping, in particolare per comprendere come questi facciano leva su una legittimazione filosofica specifica, radicata in un linguaggio politico e culturale che richiede una lettura attenta e contestualizzata.
Veniamo ora alla riscoperta politica della figura più emblematica della tradizione filosofica cinese: Confucio. Come è noto, il ritorno del confucianesimo sulla scena internazionale — almeno sul piano simbolico e discorsivo — trova il suo punto di svolta con l’ascesa alla leadership dell’attuale presidente Xi Jinping. Sebbene il recupero del confucianesimo sia un processo stratificato e non privo di ambiguità, è con Xi che tale operazione assume un carattere sistematico e visibile a livello globale.
Numerosi studiosi, tra cui Maurizio Scarpari[9], individuano un momento chiave nel 2008, in occasione delle Olimpiadi di Pechino. L’evento, fortemente carico di significato simbolico, viene descritto in modo efficace da François Bougon:
I Giochi Olimpici erano stati presentati dalla propaganda ufficiale come il ‘sogno centenario’ del popolo cinese, e rappresentavano l’occasione perfetta per mettere in scena davanti al mondo intero la nuova ‘narrazione nazionale’, quella dei ‘cinquemila anni di storia’ rivendicati dal Partito, nella loro magnificenza — e non nel loro orrore, ovvero senza le atrocità dell’era maoista.
Xi, già all’epoca dei Giochi, era convinto che questa fosse la direzione da intraprendere per riscrivere la storia cinese. Confucio e Mao Zedong furono, in quella rappresentazione, gli ospiti d’onore.[10]
Com’è noto, la riabilitazione della figura di Confucio in un contesto politico comunista rappresenta un passaggio di straordinaria rilevanza simbolica e ideologica. Dopo la radicale condanna subita durante la Rivoluzione Culturale maoista — in cui il pensiero confuciano fu bollato come espressione del feudalesimo da estirpare — il ritorno di Confucio sulla scena pubblica è segno di un’azione propagandistica di alto profilo, funzionale alla costruzione di una legittimazione politico-identitaria su scala nazionale e internazionale.
François Bougon descrive in modo puntuale uno degli episodi più emblematici di questo processo.[11]Meno di un anno dopo l’inizio del suo mandato, il 26 novembre 2013, Xi Jinping si recò a Qufu, città natale del Maestro, per segnare simbolicamente l’inizio del proprio percorso politico sotto l’egida di Confucio. Durante la visita, Xi incontrò gli studiosi del Confucius Research Institute, fondato nel 1996 con il sostegno del governo di Jiang Zemin.
Nel corso della visita, Xi si fermò davanti a un tavolo coperto di testi e riviste. Due volumi catturarono la sua attenzione: un commentario agli “Analecta” e una raccolta di citazioni del Maestro e dei suoi discepoli. “Voglio leggere con attenzione questi due libri”, dichiarò ai giornalisti presenti. Questo breve gesto fu prontamente amplificato dalla macchina della propaganda. Lo stesso giorno, l’episodio venne raccontato con entusiasmo dalla televisione di stato CCTV-13, lasciando chiaramente intendere che si trattava di molto più di una visita protocollare: era un messaggio politico.
Il segnale fu ulteriormente rafforzato nel settembre 2014, quando Xi Jinping partecipò alle celebrazioni per il 2.565° anniversario della nascita di Confucio, nonché al quinto congresso dell’International Confucian Association. Di fronte a un pubblico già predisposto all’approvazione, il presidente tenne un lungo discorso celebrativo, in cui elogiava la figura del “figlio di Qufu” e il contributo fondamentale del confucianesimo alla civiltà cinese:
Come componente essenziale della cultura tradizionale cinese, la filosofia confuciana ha esercitato un’influenza profonda sulla civiltà nazionale. Insieme ad altri risultati intellettuali che hanno accompagnato la formazione e lo sviluppo della nazione cinese, il confucianesimo ha registrato le attività spirituali, il pensiero razionale e le realizzazioni culturali del popolo cinese nella costruzione della propria patria; ha riflesso le sue aspirazioni spirituali e ha fornito una fonte fondamentale di nutrimento per la sopravvivenza e il progresso continuo della nostra nazione. La civiltà cinese non solo ha contribuito profondamente al proprio sviluppo, ma ha anche dato un apporto significativo al progresso dell’umanità intera.[12]
Il ribaltamento era completo: la figura del saggio, un tempo condannata dai marxisti rivoluzionari come simbolo della decadenza premoderna, veniva ora pienamente riabilitata — non per nostalgia, ma perché utile alla strategia globale della Cina contemporanea. Confucio diveniva così l’emblema di una diplomazia culturale strutturata e ambiziosa.
Non sorprende, quindi, che già da diversi anni gli “Analecta” di Confucio abbiano preso il posto del “Libretto rosso” di Mao nelle politiche culturali ufficiali. A partire dal 2004, il governo cinese ha istituito, con il nome del filosofo, centri culturali all’estero modellati sugli istituti culturali europei come l’Instituto Cervantes e il Goethe-Institut. Questo riuso simbolico di Confucio non è neutro: esso rappresenta una forma sofisticata di soft power, in cui la tradizione filosofica viene piegata a una funzione di legittimazione interna e proiezione esterna dell’autorità statale.
Xi Jinping ricorre ai proverbi e agli insegnamenti di Confucio con una frequenza e un’intensità significativamente superiori rispetto ai suoi predecessori. Tuttavia, è importante riconoscere che questa operazione di recupero non nasce con lui: sia Deng Xiaoping sia Hu Jintao hanno contribuito in modo determinante a preparare il terreno per tale appropriazione ideologica. I valori confuciani, profondamente radicati nella cultura cinese, sono stati riscoperti come strumenti utili al mantenimento dell’ordine sociale e al rafforzamento dell’autorità politica, specialmente in funzione della stabilità.
Un esempio emblematico è rappresentato dall’uso che Deng Xiaoping fece dell’espressione xiaokang shehui (società moderatamente prospera), un concetto tratto dal Libro dei Riti, uno dei testi canonici del confucianesimo. Questo ideale, che prefigura una società in cui la povertà sia stata eliminata e le condizioni materiali di vita siano dignitose, è stato riformulato e rilanciato da Xi Jinping in un discorso tenuto in occasione del 2.565° anniversario della nascita di Confucio.
In quell’occasione, Xi affermò che il popolo cinese si stava impegnando con determinazione per realizzare i cosiddetti “due obiettivi centenari”, uno dei quali consiste proprio nel raggiungimento della xiaokang, ovvero una condizione di vita relativamente agiata, ideale sociale ricercato fin dall’antichità. Riprendere questo concetto nella definizione degli obiettivi nazionali di sviluppo, secondo Xi, non solo è coerente con la realtà concreta dello sviluppo cinese, ma ha anche il vantaggio di favorire la comprensione e il sostegno più ampio da parte dell’opinione pubblica.
In questo modo, il recupero del lessico confuciano assume una funzione strategica: offre una narrazione della modernità cinese come continuità con la propria tradizione culturale, rafforza l’identità collettiva e legittima le scelte politiche contemporanee attraverso un richiamo a valori percepiti come autenticamente nazionali e storicamente radicati. François Bougon sottolinea come Xi Jinping sia perfettamente consapevole del fatto che, per rafforzare il sentimento nazionalista, sia necessario proporre una narrazione della storia che sia specificamente “cinese”. In questo processo, la tradizione culturale assume un valore strategico: non come mera eredità del passato, ma come risorsa attiva nella costruzione dell’identità nazionale. La cultura, in questa prospettiva, non è semplice ornamento, bensì uno strumento di coesione e legittimazione del potere.
In tale contesto si colloca l’interpretazione di Chen Lai, decano dell’Accademia di Studi Cinesi presso l’Università Tsinghua di Pechino, uno degli intellettuali più autorevoli del revival confuciano contemporaneo. Secondo Chen, il ritorno al confucianesimo è inseparabile dal più ampio processo di rinascita della nazione cinese:
L’impulso ideologico proveniente dal governo definisce l’intero quadro di riferimento; il ruolo degli intellettuali risulta decisivo, mentre la vita culturale prepara il terreno. Tuttavia, la condizione più fondamentale per il rinnovamento del confucianesimo risiede nella rinascita della nazione stessa. In altri termini, il successo della modernizzazione cinese e il ritmo dello sviluppo economico costituiscono le condizioni strutturali indispensabili per il rinnovamento del confucianesimo. […] Quando il processo di modernizzazione entra in una fase di sviluppo accelerato e l’economia inizia a crescere con successo, la fiducia culturale del popolo si ricostruisce progressivamente, generando un senso rafforzato di identità culturale. […] L’attuale entusiasmo per il guoxue (gli studi tradizionali cinesi) segnala un risveglio della coscienza nazionale e un aumento dell’autostima e della fiducia collettiva. Tale fenomeno ha promosso una consapevolezza culturale di tipo nazionale e ha svolto un ruolo cruciale in un ampio processo di rinascita della nazione cinese. In questo senso, la rinascita nazionale, in questa congiuntura storica, rappresenta una condizione fondamentale per la rinascita del confucianesimo. [13]
Il confucianesimo di cui parla Chen, tuttavia, non coincide con quello che per secoli ha strutturato l’ordine imperiale. Non si tratta di un semplice ritorno alla tradizione, né di una restaurazione in senso classico. Così come il confucianesimo popolare è stato adattato alle esigenze del presente, anche la versione oggi promossa dal Partito Comunista Cinese è una variante selettiva e funzionale. Essa espunge gli elementi più problematici o inconciliabili con la modernità e con la retorica del progresso, conservando invece quei tratti – armonia sociale, rispetto dell’autorità, valorizzazione della cultura nazionale – che meglio si prestano a rafforzare la narrativa ufficiale e a sostenere l’ordine politico attuale.
Esploreremo nel dettaglio nel capitolo successivo le contraddizioni della rinascita confuciana del governo di Xi Jinping confrontandolo con la scuola realista/legalista di Han Fei. Cerchiamo brevemente di capire prima lo stato dell’arte nella effettiva applicazione di Confucio alla politica contemporanea.
Negli ultimi anni, l’ascesa del populismo e la crisi delle democrazie liberali occidentali hanno spinto numerosi teorici confuciani contemporanei a riconsiderare il rapporto tra confucianesimo e democrazia liberale. La questione centrale non è più se le due tradizioni siano pienamente compatibili, ma se sia possibile immaginare un modello politico capace di trarre il meglio da entrambe. In questa prospettiva, il confucianesimo non è più concepito come un’alternativa regionale alla modernità politica occidentale, ma come un potenziale contributo universale al ripensamento delle istituzioni democratiche in crisi.
È su questo sfondo che si colloca la proposta teorica di Tongdong Bai, formulata nel suo Against Political Equality: The Confucian Case. Bai propone un “regime ibrido confuciano” che intende superare la frattura teorica tra confucianesimo e democrazia liberale, e, al contempo, colmare il divario culturale tra Oriente e Occidente. Il suo modello si fonda su tre elementi essenziali: il riconoscimento pieno dello stato di diritto e dei diritti umani; l’impegno dello Stato per il benessere materiale e morale dei cittadini; e infine, l’integrazione della partecipazione popolare con un sistema meritocratico, nel quale individui competenti e moralmente qualificati assumano un ruolo istituzionale determinante.
Bai giustifica il secondo elemento richiamandosi all’etica perfezionista di Confucio e Mencio, mentre il terzo si fonda su una critica alle debolezze strutturali del principio democratico dell’uguaglianza politica assoluta. La novità del suo approccio rispetto a precedenti proposte – come quelle di Daniel Bell o Jiang Qing – risiede nella volontà di salvaguardare esplicitamente i valori liberali fondamentali, come la legalità e i diritti individuali. Piuttosto che rifiutare in toto la democrazia liberale, Bai propone di riformularla: conservare i suoi aspetti liberali, ma rivedere quelli democratici alla luce dei principi confuciani.
La strategia teorica di Bai può essere sintetizzata così: correggere le carenze della democrazia liberale attraverso istituzioni ispirate al confucianesimo, mantenendo allo stesso tempo la compatibilità tra confucianesimo e i principi fondamentali del liberalismo politico, in particolare il rispetto del diritto e delle libertà civili. In questo senso, Bai adotta un approccio “post-Rawlsiano”, utilizzando il concetto rawlsiano di pluralismo ragionevole per mostrare come una versione “snella” di democrazia liberale possa essere assorbita in una visione confuciana della politica.[14]
Un passaggio particolarmente originale del lavoro di Bai è la sua rilettura della transizione tra le dinastie Zhou e Qing come un momento di “modernizzazione precoce”, analogo alla transizione europea dalla società medievale alla modernità. Questa trasformazione, secondo Bai, determinò la fine dell’ordine feudale basato sulla nobiltà e produsse un nuovo scenario segnato dal pluralismo sociale e dalla crisi di legittimità, caratteristiche che ritroviamo anche nelle società contemporanee. In tal senso, come accennato nel primo capitolo, il confucianesimo classico, anziché appartenere a un passato remoto, si mostra capace di affrontare problemi propri della modernità — e, quindi, attuale.
Tuttavia, questa posizione teorica solleva interrogativi non trascurabili. Se Bai ritiene che il proprio modello non presupponga la prevalenza culturale del confucianesimo e possa dunque essere applicato universalmente, resta aperta la questione del “perché” Confucio debba essere preferito rispetto ad altri approcci teorici in grado di correggere le disfunzioni delle democrazie moderne. Se, al contrario, si sostiene che vi sia qualcosa di intrinsecamente superiore nella meritocrazia confuciana, allora il modello rischia di allontanarsi dall’universalismo dichiarato, avvicinandosi a una visione culturalmente determinata e potenzialmente escludente.
Il lavoro di Bai, tuttavia, è sintomatico di un interesse degli studiosi di Confucio a legittimare teoreticamente la validità del pensatore per la contemporaneità, ciò che risulta oscura è se questa esigenza sia mossa da un reale interesse filosofico o da una agenda politica sempre più manifesta.
Ciò che è certo è che il contributo di Bai arricchisce notevolmente il dibattito filosofico politico, proponendo tra l’altro (cosa oggi molto rara) un realistico modello alternativo di parlamento bicamerale elettivo e meritocratico, anziché perdersi in astratte speculazioni.
Bibliografia
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- Conde, Juan Luis (2016), Come frecce senza bersaglio: retorica e ideologia in Han Feizi e nel discorso neoliberale, in Building Consensus, a cura di S. Di Piazza e F. Piazza, Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio, pp. 28–42.
- Henry A. Kissinger, Cina, trad. di Aldo Piccato, Milano, Mondadori, 2011.
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- Kant, Immanuel, Che cos’è l’Illuminismo?, a cura di Sergio Landucci, Roma-Bari, Laterza (“Economica Laterza”), 2000.
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- Scarpari, Maurizio, Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato, Bologna, Il Mulino, 2015.
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- Tsang, Steve; Cheung, Olivia (2024), The Political Thought of Xi Jinping, Oxford: Oxford University Press.
[1]Link video: https://youtu.be/rjPJyiZsocg?si=_bZWzJNkDF_duTtu
[2] Cheng, Anne, Storia del pensiero cinese. Volume 1: Dalle origini allo Studio del Mistero, traduzione e cura di Amina Crisma, Torino, Einaudi, 2022. p. 12
[3]Ivi. p. 14
[4] Ivi p.15
[5] Ivi p. 17
[6] Migliori, Maurizio, La dialettica in Mao, in «Aretè. International Journal of Philosophy, Human & Social Sciences», vol. 4, 2019, p. 177
[7] Ibidem
[8] G. Pili. (2019). Toward a Philosophical Definition of Intelligence. The International Journal of Intelligence, Security, and Public Affairs, 21(2), 162–190. https://doi.org/10.1080/23800992.2019.1649113
[9] Scarpari, Maurizio, La Cina al centro. Ideologia imperiale e disordine mondiale, Bologna, Il Mulino, 2023.
[10] Bougon, François, Inside the Mind of Xi Jinping, translated by Vanessa Lee, updated English edition, London, C. Hurst & Co., 2018. (Traduzione mia)
[11] Ivi pp. 129-131
[12] Traduzione mia.
[13] Ivi pp 146-147
[14] Li, Zhuoyao (2021). Against Political Equality: The Confucian Case by Tongdong Bai (recensione). In Philosophy East and West, vol. 71, n. 1, pp. 1–3.



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