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Metodi di indagine dello sviluppo: il ragionamento morale – pt. 6 di 6

Foto di Tumisu da Pixabay

La natura parrocchiale del bimbo ma dell’uomo

Un ulteriore e qui conclusivo capitolo della psicologia morale è la naturale tendenza dell’uomo a dividere l’umanità in gruppi. Il che significa dividere il mondo sociale in ‘noi’, da una parte, e ‘loro’, dall’altra. Parenti, fratelli, amici, conoscenti, appartenenti al proprio gruppo, che sia razziale, linguistico, politico, confessionale o sociale, da una parte, estranei, stranieri, appartenenti ad un altro gruppo, o, sarebbe meglio dire, soprattutto non appartenenti al proprio gruppo, dall’altra. Il mondo sociale si tinge in breve e naturalmente dei colori delle parti. Non serve nemmeno ricorrere alla Storia dell’uomo per mostrare la verità di quest’affermazione, tanto la Storia è in sé stessa la storia delle divisioni dell’uomo, del suo coalizzarsi in gruppi che si oppongono a vicenda. Piuttosto, costante della Storia dell’uomo, dovremmo riconoscere un fatto fondamentale di natura psicologica, ovvero la naturale tendenza delle assemblee umane a costituirsi in gruppi spesso mutualmente esclusivi o, comunque, poi, contrapposti.

A questa tendenza si accompagna, naturalmente, una serie di manifestazioni che potremmo compendiare nella propensione a favorire il proprio gruppo di appartenenza rispetto agli altri gruppi e, poi, dunque, sfavorire il gruppo o i gruppi a cui non si appartiene o che, più chiaramente, sono contrapposti al gruppo a cui si appartiene. In questo senso, favorire gli interessi del proprio gruppo risulta spesso un’opposizione rispetto al soddisfacimento dei bisogni e degli interessi del gruppo opposto o rivale.

Nelle lezioni precedenti abbiamo passato in rassegna una serie di evidenze empiriche a supporto delle tesi che l’uomo possieda una natura fondamentalmente prosociale, che sia naturalmente portato a provare compassione verso l’altro, che sia dotato in maniera innata di un senso della giustizia che gradualmente si complessifica con il decorso evolutivo, e che sia naturalmente predisposto a valutare gli eventi sociali con le categorie tipiche della morale. Ora, queste tendenze e capacità naturali entrano ben presto in relazione con la natura parrocchiale del bambino, ma dell’adulto, a determinarne il pensiero e il comportamento. In questo senso, è la dinamica fra le varie parti del sentire e del pensare morale che struttura l’algebra morale umana, nei suoi aspetti desiderabili o indesiderabili. La morale dell’uomo sembra caratterizzata da un fatto psicologico fondamentale, ovvero che essa è naturalmente una visione condivisa all’interno di un gruppo, i cui membri valgono come soggetti morali, e tende a lasciare spazio a deroghe sempre più ampie rispetto all’applicazione rigorosa dei codici morali condivisi in funzione della distanza e della diversità percepita tra sé e gli altri, in altre parole nella relazione con l’appartenente ad un gruppo diverso.

È chiaro che questo dato di natura psicologica noi l’abbiamo ereditato filogeneticamente, ma che, oggi, dopo una lunga evoluzione di tipo storico, sociale e culturale lo conteniamo attraverso l’uso della ragione la quale ci suggerisce, ad esempio e fondamentalmente, l’eguaglianza di ogni uomo, qualsivoglia sia la sua appartenenza o provenienza, al diritto alla libertà e alla felicità. Con una specifica importante. È ovvio, relativamente a questo punto, anche se spesso dimenticato in nome di un piacere antistorico a pensare che si viva nel peggior mondo possibile, che sia avvenuta un’evoluzione rispetto alle società primitive di natura tribale. Meno ovvia, tuttavia, ci pare la considerazione dell’adeguatezza dello stato attuale dell’evoluzione culturale umana rispetto alle forme di inclusione morale, che indicano la parità del diritto alla libertà, alla ricchezza e alla felicità. È sotto gli occhi di tutti che mezzo mondo è ridotto alla fame, senza la reale speranza di placarla in un modo o nell’altro. Sono fin troppo evidenti le nuove forme di schiavitù e sfruttamento, ad esempio del lavoro, anche solo rimanendo in Occidente, in cui domina quello che Louis Hartz, politologo statunitense del secolo scorso, ha chiamato lo “squallore liberale di chi vede l’uomo lavorare autonomamente in base al proprio interesse personale”.

Rimane che, studiando la natura della psicologia morale umana ed il suo sviluppo lungo l’arco evolutivo, lo psicologo morale debba, allora, prendere in considerazione verso chi il pensiero morale è diretto con maggiore forza o debolezza. Per riassumere, gli psicologi dello sviluppo morale sono arrivati a concludere che l’uomo nasce con la naturale tendenza a favorire il proprio gruppo a discapito di chi, invece, al gruppo sia estraneo, in altri termini l’uomo nasce naturalmente pronto a strutturare la propria comprensione del mondo sociale attorno alla categoria mentale della ‘coalizione’.

6.1. La preferenza dell’infante tra familiare ed estraneo

Come abbiamo visto più volte, indagare il comportamento e la valutazione dell’infante è uno dei modi maggiormente appropriati e sperimentalmente validi in relazione al fine di stabilire quali tratti della nostra psicologia matura abbiano probabilmente un fondamento innato. Una prima maniera di affrontare il tema della natura parrocchiale dell’essere umano è considerare quegli studi che dimostrano come il bambino, fin dai primi giorni di vita, preferisca ciò che è familiare a ciò che è estraneo. Tale preferenza può sembrare fin troppo banale, dal momento che se il bambino non fosse in grado di distinguere e preferire ciò che è familiare a ciò che è estraneo, lo sviluppo del legame affettivo tra madre e bambino, ad esempio, sarebbe gravemente impedito o comunque ritardato. Eppure, ricordare questa preferenza ci aiuta ad introdurre con maggiore precisione e consapevolezza il discorso relativo alla psicologia morale.

Una storica ricerca degli anni ottanta del secolo scorso, pubblicata su Science e condotta dagli psicologi DeCasper e Fifer, ha stabilito che i neonati non solo distinguono perfettamente tra familiare ed estraneo, ma preferisco il primo al secondo. I due psicologi hanno studiato infanti neonati al loro terzo giorno di vita, stabilendo che essi preferiscono ascoltare la voce della mamma rispetto ad una voce sconosciuta. Gli infanti ascoltavano la voce registrata della mamma, o, alternativamente, quella di un donna sconosciuta, intenta a leggere un brano di narrativa per bambini. Nel frattempo, il ritmo di suzione medio del neonato veniva registrato per mezzo di un dispositivo di misurazione del tutto simile ad un seno, posto tra le labbra del bimbo. Durante la fase di ascolto, se il bimbo succhiava con un ritmo, poniamo più veloce rispetto alla media, allora veniva presentata la voce materna, mentre se il ritmo era diverso ancora, poniamo più lento rispetto alla media, allora veniva presentata la voce sconosciuta.

In questo modo il bambino poteva controllare, variando il ritmo di suzione, quale voce ascoltare. A tre giorni di vita il neonato riesce a comprendere perfettamente la dinamica del controllo del dispositivo e ad usarla per ascoltare la voce della mamma, che gli sperimentatori hanno dedotto, dunque, essere preferita dall’infante rispetto alla voce estranea. Chiaramente, una preferenza di questo tipo è appresa, e lo è nei primissimi momenti della vita del bimbo. Più chiaramente, la tendenza a preferire la madre rispetto ad un estraneo, e, così, la voce della madre a quella di una donna sconosciuta è innata, ma la specifica preferenza verso questa particolare voce che la madre si trova ad avere è chiaramente acquisita attraverso l’esperienza. Che, inoltre, sia la voce a permettere al bambino di discriminare tra la madre e l’estranea, ci pare un fatto del tutto accidentale, ovvero non necessariamente legato al cuore della tendenza innata del bambino a preferire ciò che è familiare a ciò che è estraneo.

Notare questo ci permette di chiarire un punto fondamentale, su cui per altro converge gran parte dello studio della psicologia dello sviluppo. Che l’uomo abbia una natura parrocchiale non significa che sia innata in lui la tendenza a dividere l’umanità rispetto a categorie necessariamente stabilite a priori. Piuttosto, significa che la natura dell’uomo lo predispone a trarre delle distinzioni tra le persone. Quali elementi, quali proprietà, quali caratteristiche delle persone siano rilevanti a stabilire delle differenze in grado di separare le persone in gruppi opposti non è la natura a dircelo, ma, fondamentalmente e generalmente, la cultura. In questo senso, è il contesto culturale in cui il bambino cresce ad indicargli sulla base di cosa discriminare, anche se rimangono fermi i fatti che, primo, il bambino è naturalmente portato a discriminare, e, secondo, che ci sono alcune categorie che sono naturalmente più salienti rispetto ad altre relativamente alla pratica discriminatoria. Chiariremo quest’idea nel prosieguo del capitolo, attraverso la presentazione di alcuni studi scientifici.

Per ora, a parziale riprova di quanto affermato, uno di quegli studi che hanno utilizzato il tempo di fissazione dello sguardo per misurare le preferenze del bimbo ha permesso di stabilire che l’usuale preferenza dell’infante per la madre ed i visi femminili è una preferenza in relazione alla figura familiare o maggiormente familiare e non è, quindi, né una preferenza necessariamente o aprioristicamente diretta verso la madre né verso la figura e il viso femminile (Quinn et al., 2002). Infatti, mentre i bambini, nello studio infanti di tre e quattro mesi, allevati ed accuditi principalmente dalla madre hanno preferito la riproduzione di un viso femminile alla riproduzione di un viso maschile, i bambini allevati ed accuditi principalmente da un uomo hanno invece preferito la riproduzione di un viso maschile.

La preferenza, come abbiamo detto, è stata dedotta dal tempo di fissazione dello sguardo. Al bimbo venivano presentati simultaneamente due visi, uno maschile e uno femminile, e lo sperimentatore registrava la quantità di tempo che il bimbo indugiava nell’osservare l’immagine di un viso piuttosto che l’immagine dell’altro. Il risultato, appunto, è che i bimbi accuditi principalmente dalla madre hanno osservato più a lungo i visi femminili rispetto a quelli maschili, mentre i bimbi accuditi principalmente dal padre hanno indugiato sui visi maschili. Ciò implica che non vi è un modulo innato che porta il bambino a preferire la madre o la figura femminile, ma che, piuttosto, vi è la naturale tendenza a preferire ciò che è familiare, indipendente dal genere.

Un discorso molto simile vale per quanto riguarda l’interpretazione di quei, molti, risultati che supportano l’idea che il bambino, fin da piccolo, sviluppi una preferenza selettiva verso i membri appartenenti alla propria razza (intendendo, approssimativamente e ad esempio, che un bimbo bianco preferisce osservare o interagire con un bianco caucasico piuttosto che con un nero). La preferenza non sarebbe tanto da interpretare come una preferenza data a priori, ma piuttosto come una preferenza del bimbo per le persone che assomigliano maggiormente a quelle che vede intorno a sé. In questo senso, il bimbo bianco, vivendo tra individui bianchi, preferirà l’adulto bianco e il bimbo nero, vivendo tra individui neri, preferirà l’adulto nero, con importanti implicazioni relative alla possibilità di sviluppare meno forme di preferenza potenzialmente discriminatoria nei contesti multiculturali.

Un modo semplice ed intelligente per chiarire la questione relativa alle preferenze razziali è indagare se i bimbi preferiscano la loro razza alle altre oppure preferiscano la razza delle persone che si trovano ad avere attorno, nel loro contesto abituale di vita, ad altre razze, quando la razza delle persone da cui sono circondati non coincida con la loro. È la situazione, ad esempio, di un bimbo nero che viva in una comunità e con genitori bianchi. Se il bimbo nero preferisse l’uomo bianco o non mostrasse particolari preferenze allora avremmo il caso che l’uomo non è portato a favorire naturalmente gli appartenenti alla propria razza, ma, piuttosto, che la razza non è che uno tra gli indizi, culturalmente appresi come salienti o rilevanti, o ancora filogeneticamente appresi anche se non in senso strettamente legato a motivazioni di tipo razzista, da cui e con cui si esprime la naturale tendenza parrocchialistica dell’uomo.

Lo studio di Bar-Haim e colleghi, pubblicato nel 2006 su Psychological Science, è illuminante a questo proposito. Gli psicologi hanno registrato le preferenze di infanti a tre mesi di vita, rispettivamente verso l’osservazione di facce prototipiche caucasiche oppure di facce prototipiche africane. La particolarità della ricerca è che ha coinvolto non solamente bimbi caucasici cresciuti in un ambiente popolato da caucasici e bimbi africani cresciuti in Africa, ma anche bimbi africani cresciuti in un ambiente popolato per lo più da caucasici. Coinvolgendo anche questa ultima tipologia di bimbi è stato possibile determinare se la preferenza per una certa razza è o meno in relazione all’esposizione ambientale a cui il bimbo è sottoposto. Ai bambini sono state mostrate simultaneamente due facce, una con tratti caucasici e l’altra con tratti invece africani. Dopodiché, gli sperimentatori hanno registrato il tempo di fissazione dello sguardo per stabilire quale faccia venisse osservata più a lungo, al fine di comprendere, ancora una volta, la preferenza del bimbo.

Prima di vedere i risultati si impone una breve riflessione di natura metodologica. Nello studio dello sviluppo e delle prime istanze del pregiudizio di tipo razziale – il quale è da intendersi come una delle più salienti ed interessanti forme di inclinazione selettiva verso la valutazione positiva del proprio gruppo e la valutazione negativa di chi, invece, non appartiene al proprio gruppo – è stato dato molto peso alla misurazione del vantaggio di ‘processamento’, ad esempio, dei membri appartenenti alla razza del bambino rispetto ai membri appartenenti ad una razza diversa. La tipica procedura sperimentale prevedeva l’utilizzo del paradigma di abituazione/disabituazione per catturare l’abilità discriminatoria e di categorizzazione del bambino.

In questo contesto sperimentale, se il bimbo guarda più a lungo una faccia nuova allora vuol dire che la distingue rispetto alla faccia vista in precedenza, durante l’abituazione, e, per tanto, ne comprende e categorizza una serie di elementi utili a trarre, appunto, delle distinzioni tra le persone. Ebbene, alcuni esperimenti hanno dimostrato che queste capacità discriminatorie e di categorizzazione sono maggiormente evidenti quando al bambino venga chiesto di distinguere tra due individui appartenenti alla sua propria razza, mentre sono meno evidenti quando al bambino è chiesto di distinguere tra due individui appartenenti ad una razza diversa dalla sua.

La procedura di abituazione/disabituazione, in questo senso, non permette di comprendere la preferenza del bambino per gli individui appartenenti alla sua razza piuttosto che per gli individui appartenenti ad una razza diversa dalla sua, proprio perché al bambino non viene chiesto di comparare direttamente gli individui appartenenti a due razze diverse. Al fine di comprendere le preferenze del bambino è necessario presentare simultaneamente due facce, in modo che il bimbo possa essere almeno teoricamente diviso tra il porre attenzione ad una figura piuttosto che all’altra. Registrando, poi, i tempi di fissazione dello sguardo diretto ora ad un viso ora all’altro, è possibile dedurre la preferenza del bambino. Chiaramente, un tempo di fissazione più lungo indicherà una preferenza.

Bar-Haim e colleghi, utilizzando quest’ultima procedura sperimentale, in cui al bimbo vengono simultaneamente presentate facce di origine razziale manifestamente diversa, e coinvolgendo anche bimbi africani ma cresciuti in un contesto abitato da caucasici, hanno trovato dei risultati piuttosto rilevanti per la nostra discussione circa la naturale inclinazione verso l’inclusione del simile e l’esclusione del diverso. La tendenza a preferire le facce di individui appartenenti alla propria razza è già presente a tre mesi di vita (oltreché, chiaramente, la capacità di distinguere tra le due facce), infatti i bimbi caucasici hanno guardato più a lungo le facce caucasiche mentre i bimbi africani hanno osservato più a lungo le facce africane.

Tuttavia, questa preferenza non è data a priori al bambino insieme al suo codice genetico, ma è, almeno in parte, in relazione con l’esposizione ambientale a cui il bambino è sottoposto. Infatti, i bambini africani cresciuti in un contesto abitato per lo più da individui di razza caucasica non hanno guardato più a lungo una faccia rispetto all’altra, mostrando così di non avere particolari preferenze verso gli individui appartenenti alla loro razza. Di conseguenza, i bimbi, fin da molto piccoli, sviluppano delle preferenze di tipo apparentemente razziale per lo più in relazione alle caratteristiche fisiche delle persone con le quali si trovano a crescere.

Con ciò, però, non è ancora chiarita la natura evolutiva della tendenza ad usare la razza come indice di discriminazione. Come va interpretato, allora e più correttamente, l’uso da parte dei bambini e degli adulti della proprietà relativa alla razza di una persona nel classificare, comprendere, dividere, distinguere e preferire gli altri? Se, da una parte, sappiamo bene che proprietà della persona come quelle relative all’età, al genere sessuale e alla razza sono piuttosto salienti, tanto che vengono quasi sempre ricordate anche dopo un breve incontro con un individuo prima sconosciuto, dall’altra non è immediatamente evidente come spiegare l’evoluzione dell’attenzione al tratto relativo alla razza ai fini dell’orientamento sociale.

6.2. Tra lingua e razza, indici di coalizione. Le preferenze dei bambini in età prescolare

Seguendo le riflessioni di alcuni psicologi evoluzionisti, possiamo rilevare come negli ambienti di vita ancestrali la razza difficilmente possa aver avuto un ruolo importante nel distinguere i membri appartenenti a coalizioni diverse. I nostri antenati probabilmente non arrivarono a coprire distanze tali da conoscere membri appartenenti a razze diverse, almeno prima delle lunghe migrazioni. Un carattere più saliente al fine di distinguere tra gli appartenenti a coalizioni diverse sarebbe potuto essere, invece, l’aspetto fisico, il colore della pelle o qualche altra caratteristica fisica. La razza, in questo senso, diventerebbe un carattere saliente in relazione alla sua funzione di indizio nella segnalazione della presenza di una coalizione differente (Cosmides, Tooby, & Kurzban, 2003; Kurzban, Tooby, & Cosmides, 2001). Se l’attenzione alla razza come indice di differenziazione tra le persone è evoluta, lo è poiché la razza, in quanto legata alle proprietà fisiche delle persone, può essere stata utile alla formazione delle coalizioni, le quali però, come è facile intuire, possono essere create per mezzo di tanti altri indici di distinzione fisica o percettiva.

Inoltre, se è la distinzione tra coalizioni ciò che ha dato senso funzionale alla considerazione della razza, allora è ragionevole aspettarsi che le caratteristiche fisiche degli individui possano perdere importanza di fronte ad un indice di divisione più saliente come il linguaggio. La lingua parlata dall’individuo sarebbe più saliente, in relazione alla funzione di distinguere tra le coalizioni, poiché il linguaggio varia più rapidamente rispetto alle caratteristiche fisiche. Due gruppi separati inizieranno a sviluppare linguaggi differenti pur mantenendo le somiglianze fisiche. Perciò, in un contesto primitivo, il linguaggio può essere stato un indicatore di coalizione più saliente rispetto alla razza. L’uomo odierno, per tanto, dovrebbe aver ereditato una naturale propensione ad utilizzare la proprietà della lingua parlata, come e più della razza, nella categorizzazione sociale delle persone e nella creazione di coalizioni.

Non a caso, secondo gli psicologi evoluzionisti impegnati a sostenere il tipo di ragionamento appena presentato, la psicologia sperimentale riporta due dati fondamentali. Primo, i bimbi utilizzano più la lingua e meno la razza di una persona per guidare il loro pensiero e il loro comportamento diretto verso di essa; secondo, lo sviluppo di una discriminazione forte tra le persone sulla base del linguaggio usato è anteriore ontogeneticamente allo sviluppo di una divisione del mondo sociale sulla base delle caratteristiche razziali.

Il primo dato è supportato dall’evidenza empirica riportata nell’articolo di Katherine Kinzler e colleghi, apparso su Social Cognition nel 2009. Abbiamo visto, con lo studio di Bar-Haim e colleghi, che già durante la prima infanzia le preferenze sociali dei bambini possono strutturarsi attorno alla categoria concettuale della razza. Accanto a questo dato esiste un’ampia letteratura la quale porta a concludere che anche l’uso della lingua come fattore discriminante emerge presto durante l’infanzia. Ad esempio, i neonati preferiscono ascoltare la loro lingua nativa rispetto ad altre lingue; gli infanti di cinque mesi preferiscono osservare un individuo che parla la loro lingua rispetto ad uno straniero, e un individuo che parla la loro lingua con un accento nativo rispetto ad un individuo che parla con un accento straniero; infine, a dieci mesi di vita gli infanti preferiscono accettare dei giocattoli da parte di un individuo che parla la loro lingua nativa. Se è così, è sensato chiedersi se la lingua possa costituire un’informazione utile per la categorizzazione sociale e se possa prevalere in salienza rispetto all’informazione relativa alla razza.

Kinzler e colleghi hanno studiato le preferenze dei bambini di cinque anni per far luce sulla questione. Con un primo esperimento è stata chiarita la dipendenza della scelta di concedere la propria amicizia rispetto a due variabili chiave: la lingua e l’accento della persona a cui concedere o rifiutare l’amicizia. Ai bambini, americani parlanti la lingua inglese, venivano mostrate alcune facce di bambini a loro coetanei, e ad ogni faccia era associata una traccia vocale in inglese, in francese oppure in un inglese con accento francese. Dopodiché, ai bimbi veniva chiesto con quale bambino avessero preferito stringere amicizia, e di indicarlo applicando un adesivo sopra il viso del bambino scelto. Tra il bimbo che parlava francese e quello che parlava inglese, i bambini intervistati hanno scelto di stringere amicizia con quello che parlava la loro lingua. Tra il bimbo che parlava inglese e quello che parlava inglese ma con un accento straniero, ancora una volta i bambini hanno scelto il parlante nativo con accento nativo.

Con un esperimento successivo gli autori hanno invece chiarito, tra la razza e il linguaggio, quale caratteristica della persona contasse di più per i bambini nella scelta di concedere la propria amicizia. In una condizione, alle due figure ritraenti i bimbi tra cui scegliere non era associata alcuna traccia vocale. Un’immagine raffigurava un bimbo bianco, l’altra un bimbo nero. In questo caso i bambini intervistati hanno scelto di concedere la propria amicizia al bimbo bianco. Tuttavia, nella condizione in cui al bimbo nero veniva associata una traccia audio in inglese con un accento nativo, e al bimbo bianco una traccia audio in inglese ma con accento straniero (francese), i bambini hanno preferito come potenziale amico il bimbo nero. La loro scelta è stata dunque dettata dall’informazione ricavata dalla traccia audio, e in particolare l’accento linguistico. I bambini, allora, nello strutturare le loro preferenze, sono guidati più dal linguaggio e meno dalla razza o dalla caratteristiche fisiche delle persone. Di conseguenza, questo risultato rafforza la tesi evoluzionistica per cui durante la nostra storia filogenetica la lingua più che la razza ha per lungo tempo avuto un ruolo fondamentale nel distinguere tra gli appartenenti al gruppo e gli estranei ad esso.

A supporto, invece, del secondo dato evolutivo, che la discriminazione linguistica è anteriore ontogeneticamente alla discriminazione su base razziale, possiamo riportare lo studio di Kinzler e Spelke, pubblicato su Cognition nel 2011. Le autrici hanno registrato il comportamento di bambini di età compresa tra uno e cinque anni, utilizzando diverse procedure sperimentali utilizzate in precedenti studi che concludevano in favore dello sviluppo precoce di preferenze sociali basate sul linguaggio usato dalle persone. Questo al fine di comprendere a che età il bambino cominci a discriminare in un certo modo sulla base, però, della razza e se incominci precocemente o solamente più tardi.

L’idea è che se le prime preferenze sociali espresse dall’infante sono fondate sull’attenzione rispetto a fattori che hanno aiutato l’uomo, lungo la sua storia evolutiva, a dividere il proprio mondo sociale in gruppi o coalizioni, allora, data la maggiore salienza del linguaggio sulla razza da un punto di vista evolutivo, ci si dovrebbe aspettare una preferenza del linguaggio sulla razza nel guidare queste prime divisioni sociali operate dal bambino. Le psicologhe hanno studiato il comportamento manuale di scelta di bambini bianchi americani di dieci mesi e di due anni e mezzo, ed il giudizio verbale esplicito dei bambini più grandi, di cinque anni. A tutti i bambini sono state mostrate in video due ragazze, una bianca e una nera.

Nel primo esperimento, ai bambini di dieci mesi venivano mostrate due attrici, una ragazza bianca e una nera, intente ad offrire, simultaneamente, un giocattolo al bimbo. Concluso il video i giocattoli venivano fatti apparire sul tavolo, in modo da creare l’illusione che fossero stati posati dalle attrici stesse apparse in video. Dopodiché, veniva registrata la scelta del bambino rispetto a quale giocattolo prendere per primo. Mentre uno studio precedente riportava che gli infanti, a quest’età, preferiscono ricevere un giocattolo da un parlante nativo rispetto ad un parlante straniero (Kinzler, Dupoux, & Spelke, 2007), lo studio di Kinzler e Spelke ha riportato invece che gli infanti non mostrano di preferire necessariamente il gioco posto dall’attrice appartenente alla loro stessa razza. In sostanza, a quest’età la razza dell’attrice non è un indizio discriminatorio saliente quanto lo è, invece, il suo linguaggio.

Il secondo esperimento ha coinvolto bimbi di due anni e mezzo. Questa volta ai bambini veniva chiesto di scegliere a quale delle due attrici regalare un gioco. I bimbi potevano decidere se riporre il gioco in una scatola, e sarebbe apparso sullo schermo davanti all’attrice bianca, oppure se riporre il gioco in una seconda scatola, e allora sarebbe apparso sullo schermo davanti all’attrice nera. Anche in questo caso i bambini non hanno mostrato particolari preferenze tra le due attrici, dove invece bambini coinvolti in un precedente studio, in cui le due attrici erano distinte per la variabile della lingua parlata, hanno preferito regalare il gioco all’attrice nativa piuttosto che a quella straniera (Kinzler, Dupoux, & Spelke, 2012). A due anni e mezzo di vita, allora, il bimbo discrimina in modo consistente sulla base della lingua ma non ancora sulla base della razza, almeno quando si tratta di scegliere a chi regalare una certa risorsa.

Un ultimo esperimento ha poi coinvolto bambini al loro quinto e sesto anno di vita. Ai bambini veniva chiesto quale delle due attrici avrebbero preferito avere come amica. In questo caso la maggior parte dei bimbi ha scelto l’attrice bianca, mostrando di utilizzare l’informazione relativa alla razza come guida alla decisione. Abbiamo già visto, nello studio precedente del 2009 di Kinzler e colleghi, come i bambini, a questa stessa età, preferiscano avere come amico un individuo che parla la loro lingua rispetto ad un individuo che parla una lingua straniera o con un accento straniero. È a quest’età, dunque, che il bimbo, incomincia a discriminare anche sulla base della razza. Eppure, come dimostrato dallo studio precedente, l’informazione relativa alla razza ha sempre meno peso rispetto a quella relativa al linguaggio nella divisione del mondo sociale operata dal bimbo. Infatti, i bambini, a quest’età, preferiscono chi, pur appartenendo ad una razza diversa, parla la loro lingua nativa rispetto a chi, pur appartenendo alla loro razza, parla una lingua diversa oppure parla la loro lingua nativa ma con un accento straniero.

Se è vero che l’analisi del tempo di fissazione dello sguardo rivela che gli infanti preferiscono sia sulla base del linguaggio sia sulla base della razza, si dovrebbe interpretare la prima preferenza come un indizio di una preferenza sociale genuina per le persone appartenenti al proprio gruppo linguistico nativo, e la seconda preferenza, invece, come meno legata alla razza in sé e più legata alla familiarità del bimbo con un colore piuttosto che un altro colore della pelle delle persone che lo circondano. In questo modo possiamo concludere non solo che la lingua è un’informazione maggiormente funzionale rispetto alla razza nel trarre divisioni all’interno del proprio mondo sociale, ma anche che l’uso di quest’informazione si sviluppa prima rispetto all’uso dell’informazione relativa alla razza.

Ora, c’è una conclusione che andrebbe tratta chiaramente dagli studi descritti e dai ragionamenti compiuti. Se l’uomo è dotato in maniera innata di una natura parrocchiale, in altre parole della tendenza a dividere il mondo sociale in ‘noi’ e ‘loro’, tra gli elementi evolutivamente centrali alla creazione delle coalizioni possiamo sicuramente elencare la proprietà del linguaggio ma meno sicuramente la proprietà della razza. Dunque, la razza fungerebbe certamente in diversi contesti da indizio discriminatorio, ma non in modo necessario. Non siamo innatamente razzisti. Questo perché la coalizione può essere creata a partire da varie differenze fisiche o semplicemente percettive (ad esempio, il colore di una maglietta, come vedremo tra poco). In questo senso, la razza non sarebbe che una delle possibili differenze percettive tra le persone attraverso cui la natura parrocchiale dell’uomo può estrinsecarsi.

6.3. Lo stereotipo razziale nei bambini in età scolare

A supporto dell’idea che, accanto alla razza e al linguaggio, una serie di differenze percettive, anche minime (ovvero, in contesti tipici, irrilevanti o poco informative ad attribuire e comprendere le qualità sociali delle persone), possano fungere da criteri con i quali categorizzare le persone e, poi, formare coalizioni, riportiamo uno studio condotto dalle psicologhe Bigler, Jones e Lobliner, pubblicato negli anni novanta del secolo scorso. Le autrici hanno studiato le risposte di alcuni bambini, dai sei ai nove anni, durante un programma scolastico estivo. L’obiettivo della ricerca era stabilire se i bambini, la cui risposta era registrata con una serie di misure, favorissero il proprio gruppo rispetto all’altro, nella situazione in cui la divisione tra i gruppi fosse stata creata con un criterio del tutto arbitrario, usato per qualche settimana al fine di separare i bambini tra loro durante alcune attività, ma senza promuovere la competizione tra i gruppi.

Ogni bambino, all’inizio del programma estivo, veniva assegnato casualmente al gruppo dei ‘gialli’ piuttosto che al gruppo dei ‘blu’. Durante le quattro settimane seguenti, nella condizione sperimentale le insegnanti usavano questi due colori per separare i bambini durante le loro attività. Inoltre, ad ogni bambino veniva data una maglia, gialla o blu a seconda del gruppo di appartenenza. Concluso il periodo delle quattro settimane, i bambini sono stati intervistati individualmente sui loro atteggiamenti diretti verso il gruppo di appartenenza, registrando la variabilità percepita tra i gruppi e quella percepita all’interno del gruppo di appartenenza, la valutazione del proprio gruppo rispetto all’altro, la predizione rispetto ad una serie di capacità del proprio e dell’altrui gruppo, e il comportamento di aiuto diretto ora verso un membro del proprio gruppo ora verso un membro del gruppo opposto.

Al bambino veniva chiesto se avesse voluto cambiare gruppo, di valutare quanti bambini per ogni gruppo potessero essere descritti con una serie di caratteristiche positive (es. amichevole, buono) oppure negative (es. sporco, cattivo), di predire il numero di vittorie dei due gruppi in una serie di competizioni immaginarie, di indovinare quanti premi dati in relazione alla bontà del comportamento avessero effettivamente vinto i due gruppi, e, infine, al bambino era data la possibilità di aiutare un bimbo appartenente al proprio o all’altrui gruppo, il quale mostrava di avere bisogno d’aiuto nell’assemblare correttamente dei quadrati di plastica – il bambino coinvolto come potenziale aiutante poteva scegliere di aiutare oppure di tornare subito in classe.

In generale, il risultato è che i bimbi hanno mostrato di preferire i membri appartenenti al proprio gruppo rispetto agli altri, anche se questa preferenza non è emersa da tutte le misurazioni effettuate dagli sperimentatori. Se i bambini hanno valutato più positivamente (e meno negativamente) gli appartenenti al proprio gruppo rispetto agli altri, così come hanno dichiarato di non voler cambiare il proprio gruppo, e predetto migliori prestazioni del loro gruppo, non hanno invece preferito aiutare i membri del proprio gruppo più dei membri appartenenti al gruppo opposto.

In ogni caso, questo e altri studi sembrano portare alla conclusione che la formazione di una coalizione, e la logica associata per cui i membri del proprio gruppo sono percepiti come migliori e semmai favoriti rispetto ai membri non appartenenti al proprio gruppo, può essere ottenuta anche a partire da una divisione arbitraria che poggia su una differenza di tipo percettivo del tutto irrilevante nella maggior parte dei contesti tipici o quotidiani. Ovviamente, la rilevanza o l’irrilevanza della proprietà in questione (nello studio, il colore della maglietta) è da mettere in relazione alla rappresentazione mentale delle persone coinvolte. Il punto centrale è che i bambini, ma anche gli adulti, possono arrivare a credere che la proprietà assunta a criterio di demarcazione, la quale separa di fatto i gruppi, possa nascondere o essere indizio di una serie di altre proprietà (sociali e morali) possedute in diverso grado a seconda dell’appartenenza. Ecco, dunque, dimostrata la tesi che una coalizione può essere creata praticamente a partire da qualsiasi divisione arbitraria. L’uomo è naturalmente portato a trarre distinzioni all’interno del suo mondo sociale, e sarà il contesto, per lo più, a suggerirgli quali indizi prendere in considerazione.

Affrontato questo punto, dopo aver notato che solamente verso i cinque anni il bimbo incomincia a discriminare le persone secondo la loro razza, mostrando una preferenza sociale sistematicamente diretta verso individui generalmente appartenenti alla propria razza, rimane da chiarire come si sviluppi in età scolare il ragionamento e il comportamento discriminatorio su base razziale. Per fare ciò riportiamo, innanzitutto, l’evidenza empirica raccolta dalle psicologhe Heidi McGlothlin e Melanie Killen con uno studio sulle attitudini discriminatorie di bimbi americani di età compresa dai sei ai nove anni, pubblicato nel 2006 su Child Development.

Le autrici hanno rilevato che i bambini che studiano in scuole per lo più frequentate da bambini bianchi, in altre parole scuole etnicamente omogenee, tendono anche ad attribuire maggiori intenzioni negative agli altri se questi sono di colore. Questa tendenza influenza, poi, la loro predizione riguardo ad un’eventuale concessione d’amicizia ad un bimbo nero – dove invece altre ricerche, condotte nelle scuole etnicamente eterogenee, non hanno riportato questa tendenza (cfr. McGlothlin, Killen, & Edmonds, 2005).

Inizialmente, ai bambini venivano mostrate delle immagini ritraenti situazioni ambigue, poco chiare, per cui fossero possibili diverse ed opposte interpretazioni. Ad esempio, un’immagine ritraeva un bimbo dolorante seduto di fronte ad un’altalena, e un altro bimbo in piedi vicino a lui. Il bambino in piedi poteva essere di colore bianco o nero, così il bambino dolorante. Ai bimbi intervistati veniva chiesto di descrivere la scena (descrizione che poi veniva registrata usando un codice binario: es. 1 = negativa e 2 = positiva o neutra) e di rispondere ad alcune domande (sulla bontà o cattiveria del potenziale trasgressore, nonché sulla qualità dell’azione prevista a seguito degli eventi descritti, e, infine, sulla possibilità di un’amicizia futura tra i due personaggi).

Il metodo che chiede di descrivere questo tipo di situazioni ambigue (in sostanza, trasgressioni che potrebbero o meno essere accadute) è un metodo indiretto per comprendere il ragionamento del bimbo. Se il bambino attribuisce, anche solo implicitamente, una maggiore aggressività alla proprietà di essere di colore nero, allora interpreterà l’intenzione del personaggio in maniera più negativa quando questo è nero. Ed è ciò che è accaduto. L’intenzione attribuita al personaggio potenzialmente trasgressore è stata giudicata più negativamente nel caso in cui questo personaggio fosse stato di colore e la vittima un bianco, piuttosto che viceversa. E questa tendenza prende forza con l’aumentare dell’età del bimbo che giudica. Anche la predizione sulle intenzioni future del bambino nero trasgressore è risultata più fosca rispetto a quella relativa alle intenzioni future del bambino trasgressore bianco. Infine, la possibilità di un’amicizia tra i due personaggi è stata valutata come più probabile nel caso in cui il trasgressore fosse stato bianco piuttosto che nero.

Due dati centrali possono essere ricavati dallo studio descritto, se quest’ultimo è messo in relazione con altri studi sulla medesima materia. Primo, la tendenza a discriminare a partire dalla razza della persona emerge verso i cinque anni e rimane costante, semmai pronunciandosi, durante l’età scolare. Secondo, questa tendenza è perfettamente in relazione al contesto in cui è inserito il bimbo che giudica. Se questo è inserito in un contesto etnicamente omogeneo, allora si dà la tendenza discriminatoria, diversamente, se è inserito in un contesto etnicamente eterogeneo, non si dà la tendenza discriminatoria. Ciò significa che non esiste una tendenza innata a discriminare su base razziale, ma che è piuttosto il contesto a segnalare la razza come un potenziale fattore di discriminazione, e questo in virtù del fatto che il colore della pelle è un indizio fisico di diversità con cui il bambino semplicemente non è abituato a convivere.

Ora, una serie di studi hanno dimostrato che una tendenza discriminatoria su base razziale a livello implicito, ma non a livello esplicito, è presente nella maggioranza degli adulti. La popolazione adulta, tuttavia, rispetto ai bimbi, oltre a condividere per lo più una condanna esplicita verso ogni forma di discriminazione razziale, ormai pensa all’argomento razza e dintorni come ad un argomento perfettamente tabù (basti pensare alla lunga e sterile polemica degli anni settanta del secolo scorso sull’utilizzo del termine ‘negro’ e sull’individuazione delle soluzioni linguistiche politicamente più corrette). Come psicologi dello sviluppo, possiamo chiederci a che punto della crescita il bambino arrivi a considerare la razza un tabù, e in questo assomigliare all’adulto.

Con un intelligente studio, pubblicato nel 2008 sulla rivista Developmental Psychology, lo psicologo Evan Apfelbaum e colleghi ci aiutano a chiarire la questione evolutiva della concettualizzazione della razza come tabù. I bambini, di età compresa tra gli otto e gli undici anni e di etnia caucasica, erano invitati a giocare ad un giochino simile per logica al gioco Indovina chi? Di fronte al bimbo, sul tavolo, venivano ordinate quaranta fotografie ritraenti delle persone differenti tra di loro lungo quattro dimensioni, tra cui il genere sessuale e il colore dello sfondo. Lo sperimentatore selezionava una fotografia e, quindi, chiedeva al bambino di indovinare quale personaggio ritraesse facendo il minor numero possibile di domande chiuse (ad esempio, “È una donna?”). Le condizioni erano due. Nel gioco i personaggi potevano differire tra loro lungo la dimensione della razza (bianchi o neri), oppure questa dimensione poteva essere assente e sostituita con degli ovali, bianchi o neri, presenti in un angolo della fotografia. Gli sperimentatori hanno poi contato il numero di domande poste dal bambino, misura dell’efficienza nel risolvere il compito, e il numero di volte in cui i bimbi hanno posto delle domande relative alla razza o al colore dell’ovale associato al personaggio.

Nella condizione in cui i personaggi non erano distinguibili lungo la dimensione della razza, poiché tutti bianchi, i bambini più grandi, di dieci e undici anni, hanno risolto il compito più efficientemente, ponendo un numero minore di domande rispetto ai bambini più piccoli, di otto e nove anni. Questo risultato è perfettamente coerente con quanto qualsiasi psicologo dello sviluppo si aspetterebbe di trovare, ovvero una migliore capacità risolutiva dei problemi astratti da parte dei bambini più grandi, dovuta, tra le altre cose e ad esempio, allo sviluppo di capacità mnemoniche superiori.

Diversamente, nella condizione in cui i personaggi erano distinguibili lungo la dimensione della razza, i bambini più grandi hanno risolto il compito in maniera meno efficiente rispetto ai bimbi più piccoli. Questo perché i bimbi più grandi, e non quelli più piccoli, hanno evitato di porre domande riguardo la razza del personaggio. Dal risultato registrato è possibile dedurre che verso i dieci anni il bambino, al pari dell’adulto, preferisce evitare l’argomento razza, ormai tabù, probabilmente per paura di essere giudicato razzista. Ciò è in relazione al fatto che a quest’età il bambino ha sviluppato in modo maturo la comprensione degli stereotipi razziali e le norme prudenziali di comportamento che disciplinano l’uso di termini potenzialmente carichi di forza pregiudiziale. In questo senso, verso i dieci anni, il bimbo incomincia a controllare il proprio comportamento, verbale e non verbale, anche in relazione all’idea che di sé stesso pensa sia meglio o più corretto dare agli altri.

È possibile interpretare questo fenomeno come un tentativo, pur maldestro, da parte della ragione di controllare la nostra naturale tendenza a discriminare le persone, in relazione alla creazione di coalizioni, alla formazione di una divisione tra ‘noi’ e ‘loro’. Rimane compito precipuo dell’etica e del ragionamento normativo chiarire in che senso e secondo quali modalità sia corretto superare, nei diversi contesti dell’esistenza[1], la nostra natura parrocchiale, nella costante tensione ideale verso l’antico e validissimo suggerimento dello stoico Marco Aurelio, che le persone tutte vadano trattate “secondo la legge naturale della socievolezza in modo benevolo e giusto”.

Note

[1] Nei quali contesti, come giustamente e profondamente avvertiva Marx, “in generale ogni rapporto in cui l’uomo è con se stesso, si attua e si esprime soltanto nel rapporto in cui l’uomo è con l’altro uomo” (Manoscritti economico-filosofici del 1844, capitolo sul lavoro estraniato).

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Francesco Margoni

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento. Studia lo sviluppo del ragionamento morale nella prima infanzia e i meccanismi cognitivi che ci permettono di interpretare il complesso mondo sociale nel quale viviamo. Collabora con la rivista di scienze e storia Prometeo e con la testata on-line Brainfactor. Per Scuola Filosofica scrive di scienza e filosofia, e pubblica un lungo commento personale ai testi vedici. E' uno storico collaboratore di Scuola Filosofica.

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