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Il sacrum barbarico.

Il nostro discorso si pone come obiettivo primo di risolvere un problema centrale e fondamentale (con ciò intendo che il problema sta al fondamento dell’analisi del tema affrontato) in relazione all’analisi del tema scelto, il problema dell’esistenza del sacro per il barbaro: ‘esiste il sacro per il barbaro?’ sarà la domanda cui cercheremo la risposta. Nello sviluppare il nostro discorso dovremo passare inevitabilmente dall’individuare i tratti caratteristici del sacrum barbarico, dal rilevare come questi tratti siano stati in relazione con la struttura sociale politica e giudiziaria propria del barbaro e come abbiano condizionato la storia dei popoli barbari quando questa storia vide l’incontro con la cultura cristiana. Porremo in verità altre domande, cui però non daremo una risposta, ma che fungeranno piuttosto da stimoli di riflessione, in quanto questioni solo poste e non già risolte. Il nostro discorso prende in considerazione i tratti comuni del barbaro spesso senza entrare nel dettaglio (e distinguo) spaziale e temporale; tratteremo del barbaro europeo vissuto nel medioevo.

Quando si parla della fine del tardo-impero e del seguente periodo chiamato alto-medioevo, ma anche più in generale quando si parla di medioevo tout court, comprendendo sì anche il basso-medioevo, si sente fastidiosamente ripetere l’espressione ‘secoli bui’, espressione – notevolmente laconica – volente indicare quella che è evidentemente creduta essere la cifra caratteristica di questo lunghissimo periodo storico: l’oscurità. I parlanti più raffinati o, quantomeno, più originali fanno un passo in più lungo la tortuosa strada della speculazione rispetto alla poco ragionata stereotipizzazione del periodo medioevale come epoca storica caratterizzata dall’oscurità, ponendo affatto polemicamente il seguente quesito: i secoli bui sono giudicati essere tali perché visti alla luce dei nostri lumi, o semplicemente perché noi – illuminati – manchiamo  di fonti sufficienti in grado di illuminare il lungo periodo chiamato medioevo, dunque manchiamo di sufficiente illuminamento per veder chiaro il medioevo e per veder chiaro che non stiamo affatto vedendo chiaro. Philippe Daverio, aprendo la puntata televisiva di Passepartout dedicata alla ‘tesi di Carlo Magno’, poneva allo spettatore un simile quesito.

Vorrei porre però – subito e senz’altro – una domanda, che non mi pare venga spesso posta – perlomeno in televisione (ma cosa non è posto oggi in televisione?) –, e la cui risposta resta, per così dire, a livello sub-liminale del discorso: è proprio vero che possediamo scarse fonti?

Poniamo sul campo delle ipotesi le due possibili alternative di risposta, e consideriamo le conseguenze per quello che riguarda il nostro breve ragionamento introduttivo; abbiamo che il fatto che possediamo scarse fonti sul medioevo o è vero o è falso. Se è vero che possediamo scarse fonti, allora non dovremo perdere altro tempo ma chiederci subito il perché di questo fatto; e non è da escludersi – qui propongo un suggerimento di risposta sempre del tutto speculativo – che il perché esplicante, almeno in parte, il fatto della scarsità delle fonti, spinga nella direzione suggerente una conferma della tesi per cui il medioevo è ‘buio’ in sé. Infatti la mancanza delle fonti è spiegabile in due modi: primo, che le fonti non sono mai esistite, e questo porterebbe a confermare la tesi secondo cui il medioevo è il periodo della stasi, e dunque dell’oscurità; secondo, le fonti e le relative testimonianze non si sono tramandate e conservate sino ai giorni nostri, e questo sostiene la tesi che vede nel medioevo il periodo della confusione e dei rivolgimenti continui e della poca cura per il proprio tempo, nonché il periodo nel quale si aspettava l’avvenire a breve della fine dei tempi, dunque un periodo dove non avrebbe avuto molto senso pensare di trasmettere qualcosa al futuro. Ben inteso, le due tesi non si escludono a vicenda, sono invece complementari l’una all’altra. E questo nel caso l’ipotesi della scarsità delle fonti sia vera. Nel caso opposto invece, in cui l’ipotesi della scarsità delle fonti sia falsa – i.e. abbiamo una buona quantità e qualità di fonti a nostra disposizione per poter illuminare a dovere i secoli del medioevo – risulta chiaro che, anche qui, una risposta che tenga conto del perché questi secoli ci appaiono bui nonostante il nostro possesso di buone informazioni, porta nella direzione che tende a confermare la tesi del medioevo “periodo oscuro”. Infatti non possiamo attribuire l’impressione d’oscurità alla scarsità delle fonti, ché abbiamo giusto detto che queste non sono scarse. E se non possiamo attribuire la percezione dell’oscurità alla mancanza di informazione allora dobbiamo considerare il fatto dell’oscurità come strutturale al periodo storico preso in esame.

Ora, per completezza, dovremo notare due cose a proposito del nostro ragionamento introduttivo. La prima è che lo si è sviluppato facendo ricorso a una rigida dicotomia (ma rimane chiaro il fatto che non si dà mai, se non in linea teorica, l’opposizione netta di presenza di sufficienti fonti e mancanza di sufficienti fonti su un periodo così lungo e complesso come il medioevo; è chiaro che la presenza o assenza di fonti debba essere contestualizzata all’interno di precise questioni e precisi nonché limitati periodi storici); se c’è una cosa che lo storico insegna, di contro le tendenze schematiche proprie spesso – aimè – della filosofia ad esempio, è proprio che le rigide dicotomie, se pur adeguate per le esigenze di tipo teorico o magari di tipo didattico, non lo sono affatto per descrivere con esaustività e puntualità la realtà storica. La seconda cosa che notiamo è questa: che la nostra conoscenza sia ‘theory laden’ è vero e dimostrato dalla psicologia (attraverso gli studi prima di J. Bruner e poi quelli di Pylyshyn), nonché argomentato da importanti pensatori come Popper, Kuhn, Hanson, Toulmin e Feyerabend. Rilevata questa verità, il cui dominio è trasversale all’attività cognitiva e culturale dell’uomo, dovremo concentrarci più che sui problemi di prospettiva, sui problemi che concernono dati di fatto, quali ad esempio un’analisi comparata – magari con il metro della statistica – sulla quantità e significatività delle fonti in nostro possesso.

Detto questo a livello introduttivo, procediamo senz’altro nello sviscerare il tema di cui ci vogliamo occupare: il sacro nel barbaro, o come abbiamo scritto nel titolo, il sacrum barbarico – formuletta il cui significato comprenderemo nella sua interezza più avanti nel testo. Alla luce di quanto appena detto sopra, incominciamo lo svisceramento col porci la questione delle fonti, a partire da un problema circoscritto. Iniziamo, dunque, ponendo un problema (o meglio due problemi) per poi procedere con l’esposizione del tema. Al di là del fatto, non banale, ma che qui non ci interessa, per cui le fonti sulla società del barbaro sono o testimonianze esterne o testimonianze interne ma ex post, dal momento che chi ci informa sul barbaro è, storicamente parlando, prima il latino come Tacito, e poi il sovrano barbaro che decide di codificare per lo più le tradizioni giuridiche del suo popolo[1]; al di là di questo fatto, vogliamo qui rilevare come è problematico a nostro avviso un altro fatto riguardante le fonti, o per meglio dire la loro assenza. Sia Modzelewski sia Cardini[2] sono d’accordo nell’affermare che per il barbaro non sussiste come invece sussiste per l’uomo contemporaneo (e prima moderno) la separazione tra la sfera propria del sacro e quella propria del profano; il sistema concettuale del barbaro non comprende la distinzione tra sacro e profano. Questo dato, preso in sé, non è affatto problematico. Lo diventa però nel momento in cui proviamo a ragionare sul dato stesso, e lo diventa precisamente per due distinte ragioni. Se per il barbaro non vi è distinzione tra sacro e profano, questo – il barbaro – non farà menzione certo di una separazione tra di essi, ma non farà nemmeno menzione di una non separazione (o inscindibile unione concettuale) tra le due sfere; per cui l’unica prova che si dà allo storico per affermare che il barbaro non separa tra sacro e profano è appunto una prova indiretta, una cosiddetta prova ex silentio, i.e. una prova che estrapola il dato che intende dimostrare precisamente dal silenzio del barbaro sulla distinzione tra le due sfere del sacro e del profano. E questa è la prima ragione per cui noi diciamo problematico il fatto di cui sopra. In realtà pur trovando corretto il ragionamento appena concluso, lo giudichiamo nondimeno incompleto; lo storico potrebbe con agio affermare che il fatto dell’unione concettuale delle due sfere è dedotto dalle testimonianze in nostro possesso sulle pratiche sociali, giuridiche, politiche e religiose del barbaro. Quest’osservazione non toglie plausibilità generale alla nostra conclusione: il fatto della mancata separazione tra sacro e profano è tratto indirettamente dalle fonti. La seconda ragione corre parallela alla prima. A noi sembra che il dato sopra divenga affatto problematico poiché questo corre il rischio di dar vita alle più diverse e contrastanti speculazioni, sia da parte dello storico che da parte dello studioso in generale. Un dato talmente generico come quello per cui tutto nella società del barbaro è considerato da questo sacro, corre certamente il rischio di generare speculazioni ingiustificate, potendo supportare le più diverse tesi.

Concettualmente legato a questo problema è il nostro dichiarato problema: se il barbaro non distingue il sacro dal profano, se egli manca propriamente delle categorie concettuali necessarie al fine di marcare una linea di separazione tra le due sfere, come possiamo noi accingerci allo scrivere una relazione sul ‘sacrum barbarico’, ovvero accingerci allo scrivere una relazione che già nel titolo o comunque negli intenti tradisce una contraddizione concettuale? La questione posta altrimenti suona così: esiste il sacro per il barbaro?

Tutti questi problemi sono avvicinabili a quelli che avrebbe dovuto porsi Roberto Calasso nello scrivere il suo ultimo libro ‘L’Ardore’. Anche lì noi leggiamo di una cultura, quella vedantica, che non distingue affatto il sacro dal profano; il sacro permea di sé tutta l’esistenza dell’individuo e della comunità in cui esso vive. Tuttavia il parallelo tra le due comunità, quella barbarica e quella vedica, non regge, seppur limitato alla sfera del sacrum. Vi sono certamente alcuni elementi simili, come ad esempio il ‘palo sacrificale’ presente nel paesaggio vedico, anche detto yūpa, da tradursi con ‘folgore’, avvicinabile al simulacro del dio Thor presente nelle assemblee del barbaro, simulacro di un dio emanante terrore e venerazione, sentimenti suscitati similmente anche dal palo dei vedici; ma ci sono anche moltissimi elementi che separano i due sacri (quello barbaro e quello vedico), ad esempio la premessa vedica dell’atto sacrificale, che consiste nel pensiero metafisico per cui ‘entrando nel rito si entra nella verità, uscendo dal rito si torna nella non-verità’[3], premessa affatto assente ed estranea al pensiero del barbaro.

Detto questo, procediamo senz’altro con l’analisi del nostro tema: il sacro nel barbaro. Nel rispondere alla domanda di cosa vogliamo intendere con questa formuletta riusciremo anche a far luce sulla domanda se esiste il sacro per il barbaro.

Karol Modzelewski nel suo lavoro L’Europa dei barbari (d’ora in poi nelle note e nel testo come KM) nota come ‘nel sistema concettuale dei barbari […] non si trovi la distinzione tra sacrum e profanum. La separazione tra ciò che è santo e ciò che è laico fece la sua comparsa – o piuttosto venne imposta – con l’arrivo del cristianesimo’[4].

Mi si permetta qui, giusto prima di affrontare il nostro tema, di proporre un veloce commento ai due testi che fungeranno da guida alla nostra riflessione. Si tratta di KM e del testo Alle radici della cavalleria medievale di Franco Cardini (d’ora in poi nelle note e nel testo come FC). L’obbiettivo di KM è quello di spiegare diversi aspetti della società del barbaro (sia quello germanico che quello slavo) all’interno di una cornice unitaria, ovvero comparando fonti appartenenti a diversi tempi e a diversi spazi, nell’intento appunto di analizzare gli aspetti comuni alle diverse manifestazioni storiche del barbaro. L’obbiettivo di FC è quello di spiegare al lettore quali sono le radici del cavaliere medievale, ovvero di rintracciare nel tempo del tardo-impero e dell’alto medioevo quegli elementi che preparano (o semplicemente precedono in modo significativo) l’introduzione della figura fisica e morale del cavaliere. Modzelewski è apprezzabile per il suo rigore espositivo, poche ed essenziali fonti supportano un discorso che si coglie unitario e ben strutturato; eleganti ragionamenti rivelano con chiarezza al lettore le conseguenze del discorso, si nota – facendo un poco di psicologia – una sottesa passione per il ragionamento filosofico. Cardini dà un’esposizione a tratti tutt’altro che chiara ed essenziale, a volte inutilmente protratta nell’elencare particolari assolutamente non necessari nell’economia del discorso – e questo aggravato dal fatto che il libro intende parlare di un argomento di nicchia e si propone essere uno scritto a metà strada tra il divulgativo e lo specialistico –, nonché come abbandonata a speculazioni di cui difficilmente si rintracciano le basi empiriche; ripetitivo, inutilmente lungo e, aggiungerei, dalla prosa a tratti inadeguatamente complessa e ricercata, la quale a volte si fa simile a quella del romanziere. Si nota – facendo un poco di psicologia – una sottesa passione per il racconto letterario.

Ma riprendiamo senz’altro il nostro discorso, e lì dove l’abbiamo lasciato in sospeso. Il passo citato sopra da KM, oltre ad affascinare il lettore contemporaneo, quello cristianizzato, grazie alla sua carica di estraneità che lo investe – il lettore –, permette di comprendere meglio e dar ragione di una serie di caratteriste e avvenimenti concernenti il barbaro. Vediamo quali, e, nel vederli, ci avvicineremo sempre più alla risoluzione del nostro dichiarato problema.

Come è noto, il barbaro subì la cristianizzazione. Il caso dei Sassoni è significativo a riguardo. Con la Capitulatio de partibus Saxonie del 785 Carlo Magno imponeva attraverso misure punitive draconiane (come ad esempio la pena di morte per chi rifiutava il battesimo) la religione cristiana e i suoi culti alla popolazione barbarica sassone da lui sottomessa, almeno temporaneamente. Se il barbaro poteva in certa misura accettare d’includere Cristo nel proprio pantheon divino, se ancora poteva in certa misura comprendere – con profondo dolore e terrore, per il vero – la volontà di eliminare tutti gli dei del pantheon a favore dell’unico Dio dei cristiani e così la volontà che alla prima consegue di eliminare le pratiche religiose legate alle vecchie divinità, non poteva comprendere facilmente – e questo è il fatto qui rilevante – l’imposizione da parte del Carlo Magno di separare le assemblee dal culto. Per il barbaro, assemblea e culto, costituivano un unicum concettuale indivisibile; e dividere l’indivisibile non è mai un’operazione facilmente comprensibile, per nessun popolo, nessuna società, e in nessun tempo.[5] Di fatto il barbaro sassone non comprese l’operazione, e ne subì le terribili conseguenze: lo sterminio di massa. Il genocidio dei sassoni è, secondo una nostra tesi, la massima e più tragica espressione dell’incomprensione e della divergenza tra la cultura cristiana e quella barbara, tra la concezione cristiana del sacro e quella barbarica. Detto per inciso, uno sterminio oggi poco commemorato nonché poco conosciuto. Certo, i Sassoni furono sterminati dai Franchi perché instancabili nel ribellarsi al dominio straniero, perché in certo senso preferirono la morte alla sottomissione; ma rimane il fatto della diversità culturale come rilevante fattore d’attrito fra le parti.

Ma domandiamoci subito senz’altro il perché della difficoltà del Sassone e più in generale del barbaro a comprendere l’imposta separazione di assemblea e culto – a prescindere certo dal fatto che questa è imposta. Sappiamo che, durante l’assemblea, secondo le credenze barbare, ‘gli dei erano sempre presenti […] quali garanti della pace sacra e come fonti di ispirazione per i convenuti; dietro ogni decisione dell’assemblea c’erano gli dei’[6]. L’assemblea, che riuniva gli abitanti del vicinato (potevano esserci assemblee locali nella singola comunità di vicinato come assemblee delle singole tribù dove una tribù era solitamente formata da circa una decina di comunità locali) e che si teneva di regola in un posto ch’era creduto sacro, e alla presenza dei sacerdoti, era luogo ove si conveniva allo scopo di discutere questioni sociali e politiche, giuridiche, personali, e legate alla guerra. V’era in queste società un ‘legame indissolubile della politica e della giustizia tribale con il sacrum pagano’[7]. È interessante notare come l’assemblea fosse un’istituzione politica ‘presente presso tutte le tribù germaniche e slave’, e presente presso tutte queste tribù era anche il legame strutturale tra l’assemblea e il culto pagano. Di fatto ‘l’assemblea era l’istituzione fondamentale della comunità e il suo funzionamento obbediva a regole praticamente identiche ovunque’[8].

Notiamo un fatto interessante: tutte le decisioni dell’assemblea richiedevano per essere tali e divenire poi operative, il requisito dell’unanimità dei presenti. Non si tratta di un requisito introdotto in aderenza al rispetto dei valori democratici, infatti, l’unanimità era garantita, poco democraticamente, con il bastone, che sarebbe sceso sull’eventuale presente che avesse espresso un’opinione divergente rispetto a quella del gruppo; si tratta allora piuttosto, forse, di un requisito di natura pratica, necessario a popolazioni per cultura incapaci ad agire nella discordia interna, soprattutto se la discordia verte ad esempio sulla necessità e giustezza di una guerra. Ma evidentemente non è solo questo. ‘L’esigenza dell’unanimità dei presenti in assemblea può essere giustificata con ragioni funzionali e pragmatiche, ma per i barbari aveva quasi certamente un senso sovrannaturale’[9]. È il Tacito della Germania a farci sapere che erano proprio e sempre i sacerdoti che aprivano l’assemblea e che imponevano il silenzio ai presenti; i sacerdoti solamente avevano il diritto di usare la coercizione sui convenuti.[10] Da questo dato si desume che la pace dell’assemblea garantita dall’azione del sacerdote fosse di un tipo particolare, i.e. fosse una pace sacra[11].

Notiamo ancora un fatto d’evidente interesse: ‘il luogo dell’assemblea era al contempo un luogo di culto’[12]. L’assemblea si teneva di norma in una ‘radura circondata da una palizzata con dei portali scolpiti, in mezzo alla quale si trovava l’oggetto di culto, le querce del dio Prove’[13]; e in questo cortile potevano entrare solamente quelli che intendevano compiere un sacrificio, oltre ben s’intenda, i convocati all’assemblea durante lo svolgimento di questa. In un certo senso si può dire che ‘le deliberazioni erano precedute da un rito sacrificale collettivo; il principe e il popolo convenuto erano i partecipanti di questo rito, mentre il sacerdote era il maestro della cerimonia’[14]. Tutto questo è profondamente interessante e rilevante: significata che uno stesso luogo era al contempo tempio e spazio per l’assemblea; suggerisce un profondo intreccio tra la sfera del sacro e quelle della politica e della giustizia.

Dal racconto dell’avventura di Lebuino a Marklo (luogo dove i Sassoni tenevano l’assemblea generale) si viene a conoscenza di un fatto qui rilevante: le decisioni prese dall’assemblea dovevano essere sottoscritte per così dire anche dagli dèi, meglio, da tutti gli dèi, perché anch’essi dovevano essere unanimi nel loro sottoscrivere. ‘Nelle questioni dubbie era necessario rivolgersi agli dei per avere da loro delle indicazioni, si doveva cioè consultare un oracolo’[15]. Vi erano due diversi tipi di oracolo, da consultarsi entrambi: l’estrazione a sorte, e la divinazione con il cavallo. Noto come, all’interno del rituale assembleare, era necessario – e questo è ‘requisito di natura sacrale’ – che il risultato dei due oracoli fosse lo stesso, i.e. che vi fosse unanimità tra gli dèi, e questo all’interno di un’assemblea che si proponeva di risolvere questioni che oggi diremmo laiche, come ad es. le questioni legate alla giustizia.

Abbiamo giusto notato, nel paragrafo precedente, che oracolo e assemblea, giudizio umano e giudizio divino, erano strettamente uniti fra loro in un rapporto in cui l’oracolo ‘precedeva le decisioni dell’assemblea e […] le condizionava, anche se non poteva però sostituirsi ad esse’[16]. Alla luce di queste osservazioni, ritorniamo allora a sottolineare come il sacrum pagano era indissolubilmente legato alla pratica di prendere le decisioni in assemblea, decisioni che vertevano su questioni politiche, giudiziarie, belliche, e anche personali. Detto questo, come possiamo anche solo pensare che il barbaro, inserito com’era in una struttura sociale di questo tipo, avrebbe potuto comprendere la decisione di Carlo Magno? E come poteva sperare Carlo Magno di essere compreso dal Sassone con un provvedimento tanto assurdo, come quello di separare l’assemblea dall’apparato sacro? Abbiamo già detto come secondo noi lo sterminio dei Sassoni sia sintomo (terribile e definitivo) dell’incomprensibilità che accompagnò le assurde o avventate decisioni di Carlo Magno.

Chiedo: come possiamo sperare, noi uomini cristianizzati da secoli, di comprendere lo spirito d’una cultura che non distingueva tra sacro e profano, che non conosceva il concetto di ‘laico’? Come possiamo noi, a cui già un dio pare di troppo, che già facciamo fatica a comprendere il cristiano che ancora tiene stretto il suo dio, come possiamo noi pensare di comprendere il barbaro, a cui molti dei parevano invece pochi? Si provi solo a fare uno sforzo immaginativo; quale altro distantissimo mondo deve essere stato quello del barbaro?

Dal fatto della mancata distinzione tra sacro e profano deduciamo ora senz’altro un’altra conseguenza: se sacro e profano sono inseparati, alla caduta dell’uno segue la caduta dell’altro. Riusciamo ad immaginare quale deve essere stato lo smarrimento del barbaro che assistette alla morte (per mano del cristiano) dei suoi dèi? Difficilmente. Comunque, è chiaro: se sacro e profano sono inseparati, alla morte del dio segue la fine del mondo. Questa osservazione può dar conto del fatto storico per cui l’assemblea perse gradualmente, nell’incontro con il cristianesimo, la sua importanza all’interno dell’organizzazione sociale, e conseguentemente crebbe invece l’importanza del re (o principe), che tese – nell’operazione sempre appoggiato dalla Chiesa – a diventare sempre più ‘da semplice capo della propria tribù, il monarca di uno stato sovratribale’[17]. Infatti alla caduta degli dèi segue necessariamente la ‘disintegrazione dell’elemento cultuale che assicura la coesione politica dell’organizzazione delle tribù’[18], ed è chiaro perché le assemblee barbare, private dell’elemento sacrale, tesero a ridimensionare la loro importanza e centralità.

Bene, alla luce di quanto detto finora possiamo dare una risposta alla nostra domanda sull’esistenza del sacro per il barbaro affermando che il sacrum esiste senz’altro per il barbaro, ed è per lui profondamente intrecciato colle pratiche di gestione della società nonché colle pratiche di vita che noi oggi diremmo – a torto – laica.

Ma vediamo allora – brevemente – quali sono le peculiarità della religione pagana, e come queste interagirono con l’avvento del cristiano. Nello svolgimento di questo compito ci può aiutare Cardini, il quale nota nel capitolo I barbari incontro a Cristo che ‘il paganesimo germanico […] aveva un carattere più mitico e rituale che non contenutistico; esso non proponeva alcun «credo»; non possedeva una vera e propria «teologia»; non conosceva un complesso di idee precise sul destino dell’uomo’[19]. Gli dèi del barbaro erano dèi forti (gli Asi) ma anche dèi decadenti (i Vani), e questi dèi  stavano in compagnia di una serie di creature più o meno mostruose ‘dagli imprecisati contorni’. Questa ricca mitologia ‘non si componeva in un quadro religioso coerente, che richiedesse adesione personale’; più che altro, come abbiamo già notato, ‘miti e riti stavano alla base della coesione della famiglia e della tribù: erano indispensabili alla coesione di queste e alla comunicabilità fra i loro membri. E come tali permeavano di sé gli usi giuridici.’[20]

Fu dunque relativamente semplice per il cristiano convincere il barbaro alle storie della Bibbia[21], fu semplice per il cristiano annunziare al pagano la ‘Buona Novella’; fu però difficile convincere il barbaro all’abbandono degli usuali costumi che fondevano così intimamente sacro e profano e ch’erano preposti al mantenimento dell’equilibrio della società (se non del mondo stesso, come abbiamo notato sopra), e che appoggiavano sulla loro struttura mitica e dal ricco pantheon di dèi. Successe di fatto che, soprattutto con le conversioni di massa ordinate dai re barbari battezzati al cristianesimo, si ebbero intere popolazioni novelle cristiane ma solo formalmente, perché magari tutti avevano ricevuto il battesimo, però di fatto erano ancora fedeli alle vecchie usanze e credenze pagane; cristiani formalmente, pagani nel cuore.[22]

Ma non è solo questo. Si verifica storicamente anche una tendenza inversa, che non va dal cristiano al barbaro, bensì dal barbaro al cristiano. Così scrive Cardini: ‘la sostanza del paganesimo germanico non opponeva resistenza apprezzabile al nuovo credo; la opponevano invece le sue forme […], e difatti esse avrebbero resistito più a lungo e avrebbero avvolto ancora per molto tempo la società cristianizzata’.[23] Questo è un altro punto rilevante, anche per una storia delle radici culturali d’Europa, ma qui possiamo solamente accennare velocemente ad esso. Quello che ci preme evidenziare è che la storia dell’incontro tra barbaro e cristiano, storia dell’incontro/scontro tra due visioni del sacro e del mondo diverse, è anche storia d’un intreccio culturale, oltre che di conquista con distruzione di una cultura sull’altra; ma d’altra parte l’intreccio è sempre inevitabile, anche nelle situazioni più violente e oppressive, poiché abitudini e usanze delle persone sono ovunque le cose più difficili da sradicare. Intreccio non vuol dire però pacifica integrazione. Se pure ci furono da entrambe le parti tendenze concilianti (da parte del barbaro, vuoi per convenienza, vuoi per paura; da parte del cristiano, che intuisce ben presto la necessità dei compromessi alla vittoria finale della sua causa), senz’altro non mancarono gli episodi di aperta e feroce ostilità, anche qui da entrambe le parti (il cristiano fece morti, abbiamo già detto dello sterminio dei Sassoni; il barbaro fece martiri). Il caso della cristianizzazione dei Franchi è significativo per illustrare il punto; essa fu imposta dall’alto, a seguito della conversione di Clodoveo e tramite un’opera di apostolato violenta, distruttiva e per nulla rispettosa della diversità culturale. I Franchi, loro che furono i portatori della Buona Novella alle altre popolazioni barbare europee, si convertirono solo formalmente (e, poste le condizioni storiche, necessariamente doveva essere così); il loro paganesimo si congelò, i.e. rimase ‘largamente intatto sotto le mutate spoglie cristiane così come i cibi, cotti a troppo vivida fiamma, conservano sotto la crosta carbonizzata i succhi interni non toccati dal calore’.[24] Succhi, questi, che costituiranno parte dell’eredità lasciata dal barbaro alla storia d’Europa.


[1] Cfr. Karol Modzelewski, L’Europa dei barbari, Torino 2008.

[2] Il primo in L’Europa dei barbari (Torino 2008), il secondo in Alle radici della cavalleria medievale (Firenze 1981).

[3] Cfr. Roberto Calasso, L’Ardore, Milano 2010.

[4] KM.

[5] KM.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Cfr. Publio Cornelio Tacito, La Germania, Roma 1995.

[11] KM.

[12] Ibidem.

[13] Ibidem.

[14] Ibidem.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] Ibidem.

[18] Ibidem.

[19] FC.

[20] Ibidem.

[21] soprattutto a quelle del Vecchio Testamento, che per carattere (guerriero) – rispetto al Nuovo Testamento – più si avvicinava a quello del barbaro; vorrei notare come anche un ‘nuovo barbaro’ come il filosofo Nietzsche preferiva le narrazioni dell’Antico Testamento ai pettegolezzi e al racconto di fattucci propri del Nuovo Testamento.

[22] Ibidem.

[23] Ibidem.

[24] Ibidem.


Francesco Margoni

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento. Studia lo sviluppo del ragionamento morale nella prima infanzia e i meccanismi cognitivi che ci permettono di interpretare il complesso mondo sociale nel quale viviamo. Collabora con la rivista di scienze e storia Prometeo e con la testata on-line Brainfactor. Per Scuola Filosofica scrive di scienza e filosofia, e pubblica un lungo commento personale ai testi vedici. E' uno storico collaboratore di Scuola Filosofica.

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