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Abbiamo varcato il punto di non ritorno, ma io non ne ho paura


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Il trillo della rivoluzione

“Le vere rivoluzioni, quelle che non si limitano a cambiare la forma politica e il personale del governo, ma che trasformano le istituzioni e dànno luogo ai grandi trasferimenti della proprietà, lavorano a lungo sotterranee prima di scoppiare alla luce del giorno sotto l’impulso di qualche circostanza fortuita. La Rivoluzione francese, che colse alla sprovvista col suo impeto irresistibile non meno gli stessi autori e beneficiari, che quelli che ne furono le vittime, ebbe una lenta preparazione per più di un secolo. Essa nacque dalla sconcordanza, che tendeva a farsi di giorno in giorno più profonda, tra la realtà delle cose e le leggi, tra le istituzioni e i costumi, tra la lettera e lo spirito”, così inizia la monumentale Rivoluzione Francese degli storici Albert Mathiez e Georges Lefebvre. Come ogni cambiamento storico significativo, esso si fonda su una lunga catena di avvenimenti che si pongono alle spalle degli esseri umani i quali decidono infine per una direzione o per un’altra. Come il capitano di una nave senza precisa rotta, ma ispirato dalla ricerca di grandi ricchezze e con la perpetua paura di perdere la nave, gli esseri umani non possono cambiare ciò che sono, non possono decidere di vivere in un altro mondo o con altre persone. Esse però sono pur sempre ancora responsabili di ciò che vivono, nella misura in cui vogliono e dispongono.

Abbiamo varcato insieme il punto di non ritorno. Una serie di avvenimenti determinerà la fine di un mondo conosciuto, per alcuni appropriato, per altri insopportabile. In queste poche righe cercheremo di abbozzare le ragioni per cui parliamo di “punto di non ritorno”. Partiremo dalla storia per cercare le radici profonde di quello che, probabilmente, vivremo in prima persona. E alla base di tutto sta la constatazione dei due grandi storici francesi, così semplice da leggere eppure così difficile da accettare sulla propria pelle. Anche l’Italia e l’Europa hanno proseguito, insistito e sostenuto nel creare la sconcordanza, che tendeva a farsi di giorno in giorno più profonda, tra la realtà delle cose e le leggi, tra le istituzioni e i costumi, tra la lettera e lo spirito.

Una premessa indispensabile per non prenderci in giro

Per prima cosa, il COVID-19 non ha creato il sistema economico, esso non ha generato né creato lo stato, le sue istituzioni e il personale pubblico. Esso non ha neppure generato lo squilibrio demografico presente in Italia, ovvero dove in molti comuni italiani per cause naturali c’è un rapporto di tre a uno tra morti e nati. Il COVID-19 non c’era durante la crisi del 2008, da cui la gran parte dei paesi europei non si è mai ripresa e, in cima ad essi, l’Italia. Infatti, se non tutti si sono ripresi, alcuni sono rimasti perfettamente là dove la crisi li ha lasciati e, dunque, la parola “crisi” si usa piuttosto inappropriatamente. Tutto questo esisteva già da prima tanto che l’esperienza dell’autore è infatti limitata a una sequenza di crisi dichiarate che hanno fatto la normalità. Dalla percezione del declino alla vita nel declino, una nuova ordinarietà. A tal punto che un uomo dell’età di Dante quando iniziò la Divina Commedia è oggi definito un “giovane”. Partiamo dalle cause demografiche, in quanto le più fondamentali. Passiamo poi alle condizioni socio-economiche e quindi a quelle politiche per concludere con una nota generale e, per così dire, universale.

La demografia di un lungo scricchiolio

L’Italia è un paese in forte decrescita demografica, il cui principale e maggiore problema iniziale, ovvero dello status quo, è quello generato dallo squilibrio tra popolazione giovane (under 24) e meno giovane (under 40), e gli over 50. In circa vent’anni una città come Cagliari ha perso esattamente un decimo della sua popolazione (15.000) unità. Il trend è confermato dai dati pre-COVID e il COVID non è un fattore. Questo si può estendere ad una moltitudine di comuni italiani e l’Italia intera è infatti in deficit demografico di 100.000 unità annuali. Questo per vari fattori. Il risultato più vistoso per chi rimane in Italia è la mancanza di opportunità per gli uinder-40 perché essi sono coloro che non hanno ancora maturato il tempo tecnico per trovare qualcuno che li aiuti, sia essa una istituzione pubblica o un cittadino privato. Essi devono fronteggiare e competere in un mercato con pochi posti in cui chi detiene il controllo politico è già oltre la soglia di interesse (over 50). Non solo, ma la media per persone di famiglia è inferiore a quattro e il tasso di crescita è negativo da molti anni.

Demografia incrociata ai dati economici

Il dato demografico è di lunga durata ed è generato da uno squilibrio ormai quarantennale. Una popolazione che invecchia è strutturalmente una popolazione (a) poco propensa al rischio, (b) poco interessata allo sviluppo economico (come conseguenza di (a)), (c) che consuma poco e i tipi di consumi sono limitati ad articoli datati, ovvero si tratta di un mercato tendenzialmente avverso all’innovazione. Questo va incrociato con un altro dato strutturale, che è la progressiva “perdita di produttività” del tessuto economico, che significa delle persone che vivono in Italia. Questa perdita di produttività è testimoniata dal fatto che la persona media non ha idea di come generare denaro, ovvero di come creare e generare impresa. Anche ai livelli più infimi, c’è la semplice difficoltà a creare un gruppo per uno scopo comune. Allo stesso tempo, a livello politico, sono pochi i funzionari che sanno come interloquire con la burocrazia proprio per lo stesso ordine di motivi. Non c’è conoscenza di come si creano le condizioni economico-burocratiche per creare lavoro. A livello politico quanto a livello economico, si mantiene lo status quo. Peccato che mantenere l’esistente non è una strategia, non è un’opzione. Per mantenere una casa bisogna pulirla e aggiustarne le componenti cadenti. Mantenere inalterato lo stato di cose significa degradarlo, non preservarlo. Non c’è entropia zero, non c’è magia per preservare ciò che esiste. Esiste solamente il lavoro. E questo ci porta alla constatazione della cultura economica.

L’economia e la cultura economica di uno scavatore di buche

La cultura economica è improntata ad una concezione magica del mondo in cui la ricchezza esiste come un dato da acquisire per mezzo di carriere spianate da precedenti manovre politico-sociali. Non si pensa che per produrre una pizza bisogna che qualcuno ari i campi, semini il grano, lo raccolga, lo macini, lo porti al magazzino, lo venda, quindi venga mescolato con una marea di altre cose, cotto etc. Si, pensa, piuttosto, che la pizza è un dato di fatto acquisito. Abbiamo deciso che le risorse naturali sono malvagie perché qualcuno ha pensato che l’essere umano è di troppo in questo Pianeta. Perfetto, ma allora bisogna essere ben conseguenti ed essere lieti di tornare nelle caverne. Ma neppure questa sembra un’opzione.

Lo stato come fattore economico

Quindi, il calo demografico, il numero ristretto di persone per famiglia, la presenza di uno squilibrio dell’età media, va coniugato con una mancanza di capacità economica sia a livello produttivo di base (materie prime), a livello intermedio (produzione di prodotti rifiniti), e a livello superiore (innovazione tecnologico-manageriale). L’interfaccia politica rappresenta perfettamente la condizione economica. Laddove, infatti, l’attività dello stato è stata quella di acquisire sempre maggiori porzioni dell’economia, esso è diventato anche il principale referente per le politiche economiche. Nessuno aveva chiesto ai “padri fondatori” (chi oggi li conosce?) di basare un Paese sul lavoro. Nessuno aveva detto allo stato di prendersi cura dei servizi e dei cittadini sulla base del supremo principio regolativo secondo cui lo stato (e i suoi funzionari) sa meglio di tutti cosa è meglio per loro. Dove qui con “stato”, evidentemente, va intesa la sequenza di persone che viene assunta per calcolare i bisogni degli altri. Una volta che lo stato è riconosciuto come il principale attore economico, esso genera indirettamente il monopolio del mercato del lavoro in quanto stabilisce le stesse regole di assunzione. Ad esempio, se l’università è esclusivamente statale, le modalità di selezione saranno stabilite da altri funzionari dello stato, i quali dovranno rendere conto ad altri funzionari ma tutti faranno parte dello stesso unico datore di lavoro. Questa meccanica rende impossibile la valutazione dello stato da parte di terzi se non nel senso di utenti passivi. Se una pizzeria viene valutata ogni volta in base alla sua qualità perché si può sempre cambiare pizzeria, non funziona così per lo stato, il quale non si cambia così facilmente.

Le cause politiche dell’evoluzione statale e la perdita di legittimità delle istituzioni pubbliche

Nella formulazione classica della politica degli ultimi settant’anni, lo stato è stato rinforzato da destra e da sinistra, perché esso era il punto d’unione di entrambe le visioni. Anche questo è un fenomeno di lunga durata, che ha generato una spaccatura nel paese, tra chi ha una carriera nel settore pubblico e chi no. Ma dato il fatto che lo stato eroga i suoi servizi in funzione delle tasse che può raccogliere, il principale beneficiario delle politiche dello stato è, ovviamente, chi ne fa parte. Questo processo di accentramento dei poteri nelle mani di una unica istituzione è ben noto sin da Thomas Hobbes. Il sogno dell’italiano medio è morire da statale per i benefici, la cui consistenza è pari solo ai suoi benefit. Principalmente, una stabilità economica garantita indipendentemente dalle circostanze, dalla propria qualità media e dal come si è ottenuto quel particolare posto di lavoro. Qui il punto non è essere o meno a favore dell’esistenza di uno stato come questo. Il punto è qui rimanere fedeli alle stesse premesse dello stato per come si è configurato. E quando le istituzioni pubbliche violano le loro stesse premesse di legittimità, fondate a priori da loro stesse, sono loro che devono anche spiegare dove sta la loro stessa ragion d’essere e non chiedere al cittadino di accettare lo stato di cose, sempre col principio che esiste qualcuno che sa meglio di lui cosa è meglio per lui. Qui non c’è alcun genere di valutazione politico-partitica. Qui c’è la semplice constatazione di fatto che spiega la natura della “sconcordanza” tra le parti sociali. Se l’inefficienza nel settore privato genera mancanza di rendita, perdite e, in ultima istanza, il fallimento, nel settore pubblico l’inefficienza genera cinismo, disincanto e, in ultima, analisi incentiva alla rottura della condizione di mutuo rispetto tra stato e cittadini, di cui il primo è pur sempre il garante dei diritti dei secondi e della loro libertà, secondo qualsiasi teoria non totalitaria dello stato.

Il compito dello stato

Lo stato non ha il compito di generare crescita economica e infatti non la genera. Questo è testimoniato dal fatto che se lo stato la generasse di per sé, allora esso non dovrebbe neppure richiedere unilateralmente la cessione di una certa percentuale di proprietà privata ai suoi cittadini. Ovvero, se lo stato generasse ricchezza, esso non dovrebbe neppure tassare nessuno. Anzi, addirittura, esso sarebbe costretto a ridistribuirla e, di fatto, a cederla, rendendosi così equiparabile ad una azienda privata. Ma questo non è il suo compito. Infatti, lo stato è il garante delle regole che rendono possibile l’impresa, che è il modo attraverso cui la ricchezza viene infatti generata. Quindi, lo stato rilascia servizi non sulla base della ricchezza che produce, ma sulla base della ricchezza che esso consente. D’altra parte, però, se lo stato eroga servizi, esso diventa responsabile per essi, soprattutto rispetto a quelli che non sono parte della costituzione stessa dello stato in quanto tale. Quindi, esso ha la legittimità morale del servizio sin tanto che esso è anche in grado di garantirlo efficientemente. Alternativamente, c’è semplicemente dissoluzione di ricchezza generata da terzi. È inutile portare degli esempi di quanto il meccanismo dissipativo sia stato usurato da ben settant’anni. Perché questo si mostra nella sua semplicità proprio oggi, nella fase di emergenza, laddove questa si è venuta a determinare in funzione stessa di ciò che lo stato si è assunto come onere senza neppure averlo richiesto dal suo stesso mandato sociale.

Il conformismo come risvolto culturale del default statale

Oltre a tutto ciò, quando esiste un unico datore di lavoro, con modalità di assunzione generiche e in cui la corruzione è nota a chiunque, addirittura al di fuori dei confini nazionali, ciò che rimane è naturalmente una cultura del conformismo. Ad esempio, se esistesse un unico acquirente di libri, tutti gli scrittori dovrebbero scrivere lo stesso libro perché obiettivamente sarebbe l’unico modo di essere letti e, ovviamente, comprati. Se esistesse un unico sistema di istruzione, non c’è modo di insegnare diversamente le materie, perché il sistema non lo prevede. Questa situazione culturale è ben nota. Si chiama conformismo, ed è la condizione in cui ogni individuo si adegua passivamente all’unico set di regole perché sono direttamente o indirettamente le uniche che gli consentono di vivere. Il conformismo crea una naturale tendenza alla coesione sociale in termini regressivi, dove l’individuo viene schiacciato verso il comun denominatore sociale in cui ogni idea differente è scacciata dalla paura di gruppo di dover rimettere in discussione i pochi dati acquisiti che consentono di vivere in pace. Una pace, naturalmente, indotta da una forma di repressione sottile quanto pervasiva. E d’altra parte la cultura statale non può che essere di natura conformista in quanto generata da apparati che sono lontani dalla creatività resa possibile dalle forze sprigionate dalla varietà del mercato delle idee. Basti prendere la condizione dei manuali di storia della filosofia e compararli alle stesse idee dei filosofi per rendersi conto dello stato di cose.

Un’iperbole cruda ma chiara

Per capire il processo, e perché lo stato formulato in questo modo induca al conformismo, supponiamo per un istante che lo stato non abbia l’istruzione o la sanità, ma le pizzerie. Le pizzerie statali sarebbero uniformate alle necessità produttive stabilite a priori da chi fa i calcoli della produzione. Essendo l’unico erogatore di pizze, esso non avrebbe neppure alcun interesse a vendere molta varietà, nel momento in cui chiunque voglia una pizza dovrebbe rivolgersi a una persona apposita, tramite apposito metodo documentale, per avere una pizza a condizione che quella persona e quel modulo dicano che il cittadino X sia idoneo per avere proprio quella pizza e non un’altra. Da dove dovrebbe nascere la creatività, lo stimolo all’innovazione e al non-conformismo? E allo stesso tempo, se lo stato si assumesse il servizio di erogare le pizze, anche in assenza di totale controllo del suo (illibero) mercato, esso rimarrebbe comunque moralmente responsabile per la qualità dei suoi stessi prodotti, come lo sono tutti gli altri. E tuttavia, se si nascesse in un Paese in cui le pizze sono prodotte e vendute solo in questo modo, si penserebbe possibile un sistema non pubblico della produzione della pizza?

Stato e democrazia non sono affatto la stessa cosa

La mancata efficienza dello stato si riflette sulla perdita di fiducia nella democrazia, che è una forma di governo e non uno stato. Esso è un modo attraverso cui i cittadini decidono di cambiare i governanti senza spargimento di sangue, come avrebbe detto Karl Popper. La democrazia è tutto qui, in fondo. Stato e democrazia sono due cose diverse e infatti lo stesso identico stato può ora essere una democrazia e ora una dittatura, a seconda dei momenti. Ma nel momento in cui uno stato dissipa la fiducia dei cittadini tramite la violazione sistematica del patto morale e politico che esso ha compiuto quando ha stabilito di prendersi cura di loro tramite appositi servizi, allora lì si crea la scollatura di cui sopra. A quel punto la divisione tra l’apparato statale e il resto dei cittadini di venta totale perché gli uni tenderanno a fare gli interessi di se stessi quanto gli altri in modo esclusivo e totale. Ed è quello che questa situazione di “emergenza COVID-19” ci ha portato.

L’ultimo sogno in frantumi, il sogno della vita pianificata

Il sistema socio-economico era già corrotto, era già in fase di declino. Era già verso una traiettoria di aspettative frustrate di una salvezza tramite parole magiche. Ma sin tanto che si poteva sperare ancora in futuro almeno identico al presente, il conformismo era sufficiente. Ad esso oggi si è sostituita la disperazione di vedere in frantumi anche l’ultimo barlume di unità psicologica, l’unità del piccolo impiegato, del sogno di un poco per tutta la vita. Perché ora molti non hanno niente e dal niente non si crea niente. Questa situazione ha portato alle estreme conseguenze tutti i fattori in gioco nel totale declino socio-economico italiano, statale e privato, politico e culturale. Di fronte all’impotenza più totale generale lo squilibrio non è più solo economico, non è più solo politico. Esso è, per così dire, filosofico e metafisico. Esso diventa totale. E allora la naturale tendenza ad attribuire la responsabilità ai cittadini non basta più, perché essa non dipende da loro, dalla loro volontà o, tanto meno, dalle loro speranze.

Perché l’economia non torna indietro

La ricchezza dissolta in questi mesi non è una materia di numeri o verbali. La tassazione di una pizzeria significa che un pezzo di una pizza venduta viene presa e usata dallo stato. Ogni pizza ha un pezzo che manca, che non viene mangiata dal cliente e che non viene venduta dal ristorante, e che, nel migliore dei casi, viene usata bene. Ma quando non si producono pizze, non si possono neanche ridistribuire, bene o male che sia. Ma allora anche il pizzaiolo incomincia a chiedersi cosa ne sarà della sua vita, ora che non può fare niente. E così anche chi gli vende la farina, e chi gli tiene il figlio. E così via. E questa disperazione non è né vaga né astratta. Non è illegittima, non è incomprensibile. Ma lo diventa per chi non ha neppure l’immaginazione di capire che i suoi averi sono stati generati da quelle pizze, da quella farina e da quei figli.

Un ultimo paragone storico e una conclusione universale

Dunque, l’URSS era stato più radicale dell’Italia. Esso era integralmente fondato sul principio che esiste solo lo stato che gestisce l’economia, un processo che ha coinvolto la riconfigurazione del comunismo da visione anarchicheggiante della politica ad una prettamente statale (Marxismo-Leninismo). L’URSS era una società in cui in teoria tutti avevano tutto. Ma la vita non si vive in teoria. Anche l’URSS aveva una società in crisi demografica, inefficiente economicamente, conformista e cinica. Per fortuna, essa è crollata pacificamente.

Ora, non sappiamo come tutto questo andrà a finire. “La dittatura di un partito o di una classe non si stabilisce di solito che con la forza, e questa poi diventa una vera necessità in tempo di guerra. Il governo rivoluzionario ebbe a compagno necessario e fatale il Terrore”. Non sappiamo cosa ne sarà del futuro. Ma una cosa è certa. Abbiamo passato il punto di non ritorno, e nessuno ci porterà indietro. E considerando da dove veniamo, francamente, questa potrebbe essere una buona notizia. E così, come direbbe Soldato Joker a conclusione di Full Metal Jacket “Io non ho più paura”.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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