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Una guida alla pubblicazione internazionale “Peer-review” – Tutto quello che avreste voluto sapere ma non avete mai osato chiedere

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:In_Peer_Review_We_Trust.jpg

Abstract

In questo lavoro presentiamo Una guida alla pubblicazione internazionale. Questa analisi intende guidare il lettore alla comprensione del meccanismo di pubblicazione della ricerca internazionale nelle principali riviste di settore che costituiscono il benchmark universale della ricerca scientifica.


Introduzione

Scrivo questo articolo in lingua italiana, perché so molto bene che un testo simile può avere uno scopo principalmente per persone come me, ovvero che hanno iniziato a studiare in Italia completamente all’oscuro di come funziona il sistema editoriale scientifico che è alla base di ogni carriera universitaria e simil-universitaria (think tank etc.) all’estero, dove con ‘estero’ intendo un limitato numero di stati che fanno capo principalmente (ma non esclusivamente) al sistema anglo-americano (USA, UK etc.) o europeo-continentale (Germania, Olanda, Polonia etc.). Infatti, un preciso percorso meritocratico, ovvero fondato principalmente su fatti misurabili, è appannaggio di pochi Paesi. Non starò qui a sostenere in quale contesto l’Italia si situi e lascio decidere al lettore da che parte stare. Ma quale che sia la sua parte, sarà potenzialmente interessato a scoprire come funziona il meccanismo scientifico di pubblicazione, che è fatto di regole precise e misurabili.

Il fatto che tali regole possano essere migliori o peggiori, che possano essere soggette a revisioni per rendere più efficiente il processo è al di là di questo articolo, sebbene mi sia concesso dire che, pur con i suoi limiti, il processo di pubblicazione scientifica internazionale, quando salvaguardato, è, a misura umana, uno dei sistemi più equi e solidi che mi sia stato concesso di scoprire (si veda l’ultimo paragrafo). Questo articolo ha solamente l’interesse di descrivere il funzionamento per pubblicare in una rivista scientifica internazionale (peer-review journal article) che può essere definita come una rivista il cui processo è di doppia revisione anonima minima. Vedremo più oltre di cosa si tratti, ma per il momento basti dire che la principale caratteristica è il doppio livello selettivo che avviene sempre su basi la cui evidenza deve essere mostrata: l’editor(s) in chief (che in italiano credo si traduca con ‘direttore editoriale’ o qualcosa del genere), pre-seleziona i testi in base ai principi editoriali della rivista (argomento, stile argomentativo etc.), e poi, se accetta di considerare il saggio, lo gira a due revisori anonimi che non sanno chi sia l’autore e hanno il compito di valutare il testo. Torneremo su ogni passaggio. Ma prima di iniziare valga una dotta considerazione.

Se sei uno studente di una laurea triennale o specialistica, se sei un dottorando che crede di essere tenuto all’oscuro dei meccanismi che decidono la tua competitività nel tuo ambito, ebbene so cosa significa. Per altro, nel mio caso, forse non ho un gran che da lamentarmi, ma l’università è un mondo solitario che, per natura, per così dire, tende alla paranoia e, in un mondo solitario tendente alla paranoia, è sempre difficile discriminare la percezione dalla realtà. Neppure durante il PhD ho avuto un corso sulla pubblicazione scientifica internazionale e su come valorizzare le proprie opere e il proprio lavoro che, in ultima analisi, è ciò che rende un CV accademico solido e appetibile per la selezione in sede internazionale. Inoltre, si tenga presente che questo dovrebbe essere il corso numero 0 di ogni percorso universitario, essendo questo quello che mi fu chiesto di insegnare come primo corso assoluto nel BA di politics a Dublino e se lo fanno a Dublino (molto giustamente) non si vede perché noi non dobbiamo fare lo stesso. E va pur detto: ho imparato tanto quanto i miei allievi durante il mio corso. Ad esempio, non mi sorprende più scoprire che neppure strumenti essenziali come Google Scholar o JStore siano molto conosciuti (e se tu sai cosa sono, per favore, dillo anche ai tuoi colleghi).

Infatti, qui non mi addentrerò nell’interessante questione se la pubblicazione nelle riviste internazionali sia un pro a livello locale e aumenti l’appetibilità per la carriera futura. Dato il mio scarso impegno in tal senso, a scapito della mia nota attività editoriale nazionale (almeno parzialmente cessata nel 2019), di nuovo, lascerò al lettore al suo senso critico in materia. Tuttavia, vale la pena di rimarcarlo: questo testo essenziale, privo di pretese di esaustività, ha come unico scopo sopperire alla mancanza di informazione che i futuri ricercatori hanno sistematicamente, a meno che, per misteriosi motivi personali, impersonali, divinatori, burocratici, fatalistici etc. ne siano a conoscenza. E va pure aggiunto che, chi sa queste cose, tende per natura a tenersele per sé, magari perché ha migliori argomenti di conversazione o magari perché ritiene tutto questo ovvio e scontato, o magari no. Costoro sono invitati a commentare sotto nel caso trovino porzioni di testo suscettibili di miglioramento. Detto tutto questo, veniamo al tema in questione.

Il processo di selezione dei testi scientifici

Esistono vari modi per pubblicare in riviste internazionali, ma in una guida essenziale e non esaustiva mi limiterò a considerare il caso standard. Il processo standard si applica a qualsiasi rivista di qualsiasi disciplina, indipendentemente dalla categorizzazione assunta dalla burocrazia di riferimento. Una rivista scientifica internazionale pubblica periodicamente in lingua inglese (per il momento, assunta come lingua franca della ricerca) e seleziona i suoi testi mediante un processo di peer-review. Ovvero, la rivista si impegna a far valutare i testi pre-selezionati da “pari”, e con il che si intende “esperti del settore”. L’usuale definizione di “esperto” è di tipo statalista-burocratica, cioè principalmente fa capo ad una sorta di patente: chi fa parte di una università in qualità di ricercatore, detentore di PhD[1], esperto non-universitario ma potenzialmente tale (ad esempio, uno studioso all’interno di un centro studi o think tank), conclamata autorità in materia che ha pubblicazioni all’attivo nel settore (ad esempio, un biografo di Nietzsche per la Oxford University Press, che non fa capo ad alcuna università, centro studi e non ha un PhD sarebbe sicuramente un potenziale revisore per un articolo sulla vita del filosofo). Questa è la base, dopodiché il processo può essere più complesso, ma si può riassumere come segue.

Step 1 – Selezione del Testo da parte dell’Editor in Chief – Durata fino ad 1 mese

Prima di tutto, l’autore del testo raggiunge un draft credibile. Tale draft deve essere scritto in una forma che potrebbe sostanzialmente passare ogni forma di selezione. Quindi deve essere scritto in un buon inglese, stilisticamente leggibile, argomentativamente solido, ben referenziato in termini di note e bibliografia. Suggerisco anche di impaginarlo in grazia di Dio/dio, aiutare il lettore a leggere è sempre un fatto apprezzabile e lancia un segnale di stile e serietà, che nel dato contesto, credetemi, conta molto (un giorno scriverò una guida essenziale a come presentarsi decentemente, chissà). Il testo dovrà anche essere originale, ovvero portare un tema o un argomento presente nel passato storico della ricerca ma contenere elementi di innovazione. Un testo puramente compilativo non ha quasi ragion d’essere, a meno di voler scrivere una rassegna sulla letteratura, ma anche in questo caso, deve contenere tracce di originalità come l’essere un unicum o proporre revisioni rispetto ai precedenti, etc..

Un testo mal scritto, senza paragrafazione, con errori tipografici grossolani etc. difficilmente passa il primo e più basilare momento: la verifica dell’editor in chief. Se egli/lei ritiene che il testo non sia apprezzabile per le ragioni sopraindicate rigetterà il lavoro sic et simpliciter. Alcune riviste accludono una spiegazione per il rifiuto, ma non tutte (in genere dipende dal grado di qualità della rivista o dall’apprezzamento dell’editor sul testo o sul precedente lavoro dell’autore etc.). Infatti, gli editor in chief sono persone il cui calibro scientifico è tale da dare lustro alla rivista in quanto tale, sicché la loro conoscenza del settore è indiscutibile. Ma dato il volume delle sottomissioni ai giornali internazionali, essi hanno ben poco tempo a disposizione, anche perché la pubblicazione scientifica non è a pagamento. Il che significa che sia gli editor che i peers revisori non sono pagati, ed essendo loro anonimi (i reviewer), non vengono che riconosciuti in modo indiretto. Ad esempio, nel mio caso, ho fatto da reviewer per Social Epistemology, leading journal nel settore dell’epistemologia sociale. Per riconoscere il mio lavoro, essi mi hanno inscritto in un registro ma (a) ciò è a discrezione del reviewer, (b) non c’è scritto quale testo/i abbia revisionato così da mantenere l’anonimità (cosa utile, a seconda dei casi), (c) non tutte le riviste lo fanno (e infatti ho referato – come si dice nel tristo gergo – anche per un’altra rivista che però non registra l’atto). Bisogna dunque tener sempre presente che una rivista scientifica richiede tempo e tale tempo è sottratto a ciò che garantisce la paga (e quindi la sopravvivenza). Quindi, ancorché non sempre piacevole, si deve comprendere la laconica mancanza di spiegazioni in caso di rifiuto preliminare. Ah, e naturalmente capita a tutti nella vita.

Step 2 – Il Peer-Review ovvero la Revisione dei Pari 4/6 Mesi (in Funzione della Rivista)

Supponendo che il testo sia passato al vaglio dell’editor (o degli editor), il processo prosegue con la valutazione anonima di due referees (‘arbitri’). Costoro, prima di tutto, vanno trovati (e, credetemi, non è detto che sia semplice). In secondo luogo, devono avere il tempo materiale per leggere il testo e commentarlo. Per il settore ‘umanistico’ (cioè tutto quello che non richiede simboli differenti da quelli alfabetici per essere almeno in parte scritto) questo solo processo, in genere, richiede tre-quattro mesi, in base alla natura del testo, alla reperibilità dei revisori e altre variabili (compresa la salute dei revisori[2], il momento dell’anno accademico in cui si è sottomesso il lavoro etc.). Migliore è la rivista e più rapida è la valutazione del testo perché uno dei parametri di valutazione delle riviste è proprio il tempo di attesa di pubblicazione ovvero il tempo trascorso dalla data di sottomissione del lavoro e la sua effettiva pubblicazione.

I valutatori hanno i seguenti compiti: (a) rilasciare un giudizio all’editor della rivista indipendentemente dal commento pubblico, (b) rilasciare un commento al testo da condividere con l’autore con argomenti e migliorie suggerite, (c) dare un tag di giudizio generale (accettato, accettato con revisioni minori, accettato con revisioni maggiori, rifiutato). (c) deve essere ovviamente una logica conseguenza di (b), mentre (a) dovrebbe essere un sostanziale riassunto di (b). La natura dei commenti può variare enormemente ma, in generale, possiamo astrarre e generalizzare che essi sono di due o tre generi: (I) commenti critici di natura argomentativa o di mancanza di evidenza empirica (ad esempio, il testo contiene dei paralogismi, argomenti poco elaborati, evidenza non sufficiente etc.); (II) segnalazione di errori tipografici, stilistici etc.; (III) considerazioni generali sul testo stesso in genere sulla base di (I) & (II). I primi due sono di gran lunga i maggioritari.

Anche la lunghezza delle revisioni varia enormemente non essendoci, a mia conoscenza, linee guida e questo vale per almeno quattro settori di cui sono certo: filosofia, scienze politiche e relazioni internazionali, psicologia cognitiva e storia. Nella mia ormai affermata esperienza sia di autore sia di revisore ho riscontrato una media di una pagina e mezza (2000-3000 battute spazi inclusi) di commenti. Ma si possono avere anche casi estremi come una riga di apprezzamento (uno dei due revisori del mio primo paper aveva scritto semplicemente: “Lavoro eccellente, continua così!” citazione a memoria ma rende il concetto) ma anche quindici pagine (!) ma in questo caso l’editor della rivista si è “scusato” per lo zelo del reviewer: infatti, lo scopo delle revisioni è migliorare un testo. Scrivere 15 pagine significa scrivere un esteso commentario al testo di partenza, quindi non può per natura sua migliorarlo! Ma le revisioni-fiume sono decisamente una rarità perché in conflitto con la natura umana e il tempo lasciato a disposizione per tale lavoro editoriale.

A questo punto, il testo o è accettato con o senza revisioni o rifiutato, poi avete ragione voi (direbbe un mio amico). Per essere davvero rigorosi, se il testo è “accepted with major revisions” non si può davvero essere sicuri che il secondo manoscritto verrà accettato. Tuttavia, di tredici paper pubblicati o in fase di pubblicazione, non mi è mai capitato di avere testi rifiutati nella fase di seconda revisione. In un caso eccezionale, il testo mi fu inizialmente rifiutato ma l’editor, riconoscendo l’importanza del tema, mi ha invitato a scriverne un altro che fu prontamente accettato nella seconda fase di revisione. Quindi, anche se major revisions required, raramente il paper non passa. Le fasi critiche sono decisamente la prima scrematura dell’editor e la prima lettura dei revisori.

Step 3 – Revisione & Secondo Passaggio di Controllo Peer-Review

Una volta giunti a questo punto, l’autore ha il compito di rivedere il testo seguendo le indicazioni dei reviewer. Egli deve essere attento sia rispetto ai contenuti che allo stile, rivedere scrupolosamente il testo ed evidenziare le modifiche a beneficio della velocità del processo successivo. Questa fase è, a mio giudizio, importante perché dà all’autore una visione critica del suo testo, lo aiuta a migliorare il lavoro e a renderlo più appetibile ai futuri lettori (che saranno più o meno affini ai reviewer, essendo questi identificati come tali). In genere, le riviste accordano fino ad un mese per la seconda stesura/revisione, ma le circostanze possono chiedere più o meno tempo. Ad esempio, una volta ho chiesto l’estensione di un mese, mentre nella maggioranza dei casi ho rimandato il testo rivisto in meno di tre settimane (sconsiglio, in termini strategici, di rimandare il testo in meno di una settimana – it doesn’t look good, ma magari mi sbaglio).

Rimandato il testo, i reviewer nuovamente verificano che le mancanze siano state superate. A questo punto, si possono verificare due scenari più un terzo estremo (e mai verificato ma possibile): (a) i reviewer accettano il testo con altre modifiche preliminari, (b) i reviewer accettano il testo così com’è, (c) i reviewer rifiutano il lavoro. Ora, (c) è estremamente raro, mentre gli altri due casi sono equiprobabili e dipendono anche da altri fattori, ad esempio se l’editor decide di introdurre un terzo o addirittura quarto reviewer per scrupolo o ‘fingersi’ egli/lei stesso come reviewer inserendo sue osservazioni da valutare.[3] Quest’ultima evenienza ha molto senso, in realtà, quando appropriata perché serve come ulteriore passo di rafforzamento del valore del lavoro. Si deve infatti tener presente che la credibilità stessa della rivista passa dalla qualità delle sue pubblicazioni e la sua crescita dal numero di citazioni che gli articoli pubblicati ricevono. Così è nell’interesse di tutte le parti in causa produrre lavori di qualità e, in teoria, farlo in fretta.

Step 4 – Editing e Pubblicazione (1-2 Mesi)

Supponendo che il testo sia ora accettato, l’autore riceve una email di conferma per procedere al passo successivo, perché il processo non è ancora terminato. Infatti, a questo punto il testo è quasi pronto per essere pubblicato. Ma non ancora! Adesso il lavoro passa nelle mani di quelli che noi italiani chiamiamo, in effetti, ‘editor’, ovvero degli specialisti del sistema informatico-editoriale che verificano che tutte le citazioni siano scritte secondo i criteri della rivista, che i testi in referenza siano esistenti, presenza di mispelling e refusi etc.. Interestignly, gli editori e i publisher sono due nozioni e ruoli totalmente diversi nel panorama internazionale perché gli editori sono coloro che selezionano ciò che i publisher poi pubblicheranno stando alla loro procura. Anche questo, a ben pensare, depone a buon favore di tale processo.

I revisori editoriali possono anche chiedere di modificare errori tipografici. Questa parte del processo è di gran lunga la più tediosa possibile, ancorché si deve ammettere la sua necessità. L’autore ha, in genere, una settimana per apportare le modifiche finali nel sistema informatico della rivista. Una volta terminato questo stadio, il lavoro è accettato e viene pubblicato appena esce il numero successivo della rivista, a meno che si tratti di un volume speciale, di cui non parliamo perché non è parte del sistema standard di pubblicazione ma, già che ci siamo, val la pena di dire che esso non è in rottura con quanto qui presentato, solamente i responsabili sono di più (cioè lo special issue ha uno o due ‘guest editors’. Ad esempio, nel caso del volume in corso per Intelligence and National Security sulla filosofia dell’intelligence, io sono uno dei due guest editor e ho il dovere di provvedere che gli articoli seguano il loro iter standard più assicurarmi io stesso della qualità del testo e dei suoi criteri e, dopodiché, sarà comunque compito degli editor in chief valutare il lavoro nel suo complesso).

Considerazioni sul processo e sulla sua validità

Dato il fatto che il mio primo paper è stato scritto nell’infinito remoto che è il 2017, pubblicato nel poco meno remoto 2018, posso dire di essere una meteora delle pubblicazioni internazionali, avendo pubblicato undici lavori più tre in riviste internazionali (nell’unità di tempo, è un numero direi “dignitoso”) e, come detto, sono il co-responsabile del volume Philosophy of Intelligence. Quali considerazioni possiamo trarre sul sistema peer-review? Partiamo da una premessa.

Interessati ai Conflitti di Interessi?

Sebbene il 2017 sia stato il primo tentativo (positivo) di pubblicazione in rivista internazionale peer-review, non è stato il primo in termini assoluti. Ovvero, avevo tempo addietro (2012-2013) mandato tre testi ad una rivista minore locale di cui non specificherò il nome. La natura delle risposte mi sembrò così idiosincratica da condurmi ad un ragionamento che, nella sua spinosità, bisogna pur porsi, se si è persone ancora capaci di operare semplici somme algebriche. In termini di pura carriera, un reviewer ha solamente interesse nel rigettare un lavoro, perché verosimilmente egli/lei sta leggendo un testo scritto da un suo pari e il suo pari dovrà essere assunto come un probabile competitor nella disciplina. Se il pari è alla pari carrieristicamente, tanto peggio, se il pari ha un numero di pubblicazioni inferiori, anche meglio etc. Per quanti sforzi uno possa fare per essere obiettivo, rimane il fatto che tale conflitto di interessi è presente in funzione della difficoltà intrinseca di fare carriera in un settore dove ci sono pochi posti di lavoro (e questo è vero anche a livello internazionale). Infatti, in un contesto di abbondanza di offerta, tale conflitto si assume nullo, ceteris paribus. Ora, si obietterà, che tale possibilità è eclissata dalla deontologia professionale, che richiede ai reviewer di essere obiettivi nella valutazione e sinceri (ma gentili, si spera) nell’espressione del giudizio. Però proprio per il fatto di essere anonimo, il revisore non paga se fa un cattivo lavoro o se esprime un giudizio idiosincratico negativo. Assumendo che l’onestà e la qualità sono virtù rare, altrimenti come spiegare la filosofia morale come necessità storico-umana nonché gli eloquenti e più che numerabili esempi quotidiani, supponendo che i reviewer siano persone statisticamente ordinarie, cioè come tutte le altre, che fanno un lavoro particolare, come si può essere convinti che essi faranno davvero l’interesse della ricerca e non il proprio? Non ho ragione di pensare che esista una classe di individui capace di fare il proprio male, e non giudicando di per sé questo fatto come malvagio ma anzi il sintomo stesso di una certa, seppur principiale, intelligenza, ne conclusi che infatti questo processo non può che essere minato dalla mancanza di trasparenza e accessibilità alle fonti degli eventuali rigetti. Dove, dunque, la risposta negativa non può che essere una registrazione burocratica di una malevolenza ab principio. Anche ai più ottimisti chiedo del e perché no?

All’epoca, almeno in parte erroneamente, valutai infatti il processo nel modo più estremo possibile e interpretai il processo di peer-review sostanzialmente non equo e, infatti, diressi i miei sforzi ad altro (pubblicazione di libri, principalmente; ottima idea se in inglese). Tuttavia, sebbene questo conflitto di interessi possa giocare un qualche ruolo, mi sia concesso affermare che esso è quasi assente nelle riviste internazionali. Non so dire, invece, di quelle nazioni, che, in genere, seguono processi editoriali diversi da quello indicato sopra e, valga la pena di dire, che salvo casi eccezionali, non vale la pena di pubblicare in alcuna lingua che non sia l’inglese quando si deve ambire a far ricerca e lo dico affermando che fino al 2017 (31 anni, ma già con all’attivo tre libri e altro) la mia produzione era quasi esclusivamente (98%) in lingua italiana. Questo tema ci porterebbe lontano, ma salvo i casi di ricerche sul dolce stil novo & affini (per evidenti motivi tematico-linguistici), l’unico vero obiettivo dovrebbe essere quello di rivolgersi al miglior e più vasto pubblico possibile, che è chiunque viva sul pianeta Terra e faccia ricerche nel settore. Naturalmente, ci sarà sempre spazio per pubblicare altro nella propria lingua d’origine (come un post su come pubblicare nelle riviste che contano a livello scientifico).

Peer-Review: una Difesa Convinta

Ho voluto portare il mio iniziare distrust sul processo peer-review perché sia chiaro che quanto sto per dire non è basato su quello che potremmo giustamente chiamare ‘bias dell’accademico’, ovvero di colui che sostiene che lo status quo è giusto perché funziona bene per lui e gli altri, per definizione, sono tutti meno importanti. Per me, infatti, non aveva inizialmente funzionato bene affatto e lo scetticismo sul peer-review non è basato su un argomento di principio ma su un semplice conflitto di interessi che, comunque, deve essere assunto esistente e postulato reale tanto più si esce dall’internazionalità (con le solite dovute e necessarie cautele e caveat del caso, e non sono qui interessato a criticare nessuno ma solo ad enucleare un ragionamento che, in quanto tale, è frutto di evidenza e logica la cui sostanza non è ad hominem). Ma oggi, a seguito di quanto riscontrato e in forza dell’esperienza in contesto di ricerche internazionali, posso dire di essermi ricreduto.

Prima di tutto, i reviewer internazionali non hanno effettivamente un conflitto di interessi nei termini di carriera e l’essere invitati a rivedere i testi è, comunque, importante perché mostra engagement nella disciplina e può essere usata come forte evidenza del fatto (cosa che, ad esempio, mi è servito in più circostanze): essere invitati dagli editor in chief dà un buon polso di qualifica e qualità che si può tranquillamente riusare dove appropriato e nei giusti modi. Infatti, essere il responsabile di una valutazione scientifica è di per sé utile a se stessi. Il conflitto di interessi, in questo contesto più vasto, può giocarsi su punti più sottili, ad esempio il valutatore sostiene una tesi contraria alla propria, egli/lei non è stato citato (più si è citati, più si è riconosciuti, più è probabile affermare la propria notorietà accademica) etc. Ma si tratta di elementi minori, che giocano un ruolo ma difficilmente annullano la validità del testo. Eliminato l’elemento di conflitto di interessi più solido, il processo assume già un’altra valenza. In secondo luogo, l’interesse generale è infatti indirizzato alla massimizzazione del risultato qualitativo perché l’editor è responsabile di articoli mediocri tanto quanto la rivista e, dunque, sia il board della rivista che l’editor che, dunque, i reviewer hanno l’interesse a far bene. L’editor perché è lui/lei che ha approvato il primo stadio e ha selezionato i reviewer. I reviewer perché sono a conoscenza dell’editor e una figura magra è, in questo caso, conosciuta almeno all’editor e, dato che il mondo della ricerca è settoriale e, dunque, piccolo, fare cattive figure mina la fiducia nel reviewer stesso. Almeno nel mio caso, ho sempre voluto essere obiettivo per l’autore e rigoroso per fare l’interesse della rivista e, più in generale, della scienza (ma si può obiettare che potrei essere infatti un’eccezione, ma non è così). In terzo e ultimo luogo, almeno guardando i testi che mi sono arrivati per il volume, i miei stessi lavori e quelli di colleghi che ho rivisto come friendly reviewer, non posso che sottolineare quanto questo processo aiuti a migliorare un testo, a rafforzarne le qualità e minimizzarne le limitazioni. Lo posso dire in forza della prima e terza persona.

Il Meglio che Possiamo Ottenere

Non essendo capace di perfezione, pur provandoci, non potendo nessuno pretendere di raggiungerla, il double blind peer-review è il meglio che possiamo sperare di avere, ancorché naturalmente niente sia perfetto, ad esempio, il tempo di pubblicazione si deve accorciare, perché è troppo punitivo per i così-detti early career scholars ovvero gli studiosi dis/in-occupati o occupati sub condicione e questo è vero anche a livello internazionale. In secondo luogo, a mio giudizio, bisogna trovare strumenti più efficaci per incentivare i reviewer sia nella velocità sia nella preliminare accettazione. Infatti, gli incentivi del registro di cui sopra decadono una volta che le persone trovano una collocazione lavorativa stabile specialmente se dentro l’accademia: a quel punto il riconoscimento di quel tipo non basta più. Infatti, se nel caso locale il conflitto di interessi è un problema potenzialmente concreto, nel caso internazionale la principale limitazione è il tempo stesso richiesto per leggere e commentare un testo comunque lungo e tecnico per una rivista con alti standard di giudizio.

Concludo con una chiosa necessaria. Sebbene sia necessario avere un giusto spirito critico, e sebbene sia ben comprensibile aver maturato un certo grado di cinismo, esso non deve divenire totalizzante né inficiare la propria qualità di lavoro. Non tutti i sistemi sono uguali e tutto il mondo è paese, ma esistono paesi meno paesi di altri. E invito tutti gli interessati a scoprirlo sulla propria pelle perché niente può cambiare se stessi che l’esperienza introdotta nella propria mente.


[1] Per coloro che stanno facendo un PhD o intendano farlo, abbiano cura di valorizzarlo e non dare per scontato che per il solo fatto di aver studiato meritano di conseguenza che il mondo si prenda cura di loro. Allo stesso tempo, mi sia concesso dire che il PhD dovrebbe essere tenuto in gran conto da coloro che lo hanno, non svilendolo o sostenendo che è un certificato come gli altri, considerando che, oltre ad essere lo sforzo di almeno tre anni e mezzo di lavoro, è anche la più importante qualifica a livello mondiale.

[2] Una volta mi è capitato di avere un revisore ammalato, che ha allungato il già naturalmente lungo processo. Ma d’altra parte, anche se non li vediamo, i revisori sono esseri umani, soggetti alle limitazioni e problemi della vita quotidiana.

[3] Per inciso, solamente una volta mi è capitato di vedere reviews lunghe almeno tanto quanto le prime e iniziali, e devo dar grande credito ai revisori sia per la loro evidente serietà, sia perché concordo con loro che il testo doveva essere rivisto anche nella seconda versione. In genere le seconde revisioni sono molto succinte e vanno solo a toccare alcuni punti specifici, in genere editoriali, del testo.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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