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La malaria nella Sardegna medioevale

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Che profumi tra i canneti, nella macchia popolata di lepri e di pernici, quando tornava il sole a risuscitare i ceppi morti e abbandonati dei bassi vigneti. Il guaio era che il paradiso in Baronia durava tre mesi: dopo il sole diventava cattivo, si metteva a pentirsi della gioia che aveva portato tra gli uomini, impazziva anche lui, in una settimana portava il deserto.

Salvatore Satta[1]

Preliminare discussione delle fonti

… chiara dimostrazione di come la società abbia bisogno degli storici, i quali assolvono il compito professionale di ricordare ai loro concittadini ciò che questi desiderano dimenticare.

Eric J. Hobsbawm[2]

 

… sempre che ci sia dato “ricordare”…

Il silenzio è la prima parola che viene in mente pensando alle fonti della storia della Sardegna nel medioevo e non solo. Silenzio delle fonti scritte, silenzio delle tradizioni orali, per quel possono mantenersi nel tempo. E, per quanto riguarda la storia della malaria, silenzio anche degli stessi storici di professione e dilettanti.

Le fonti a disposizione sono rare, quasi assenti, per quel che riguarda il medioevo vero e proprio, e iniziano a crescere ed estendersi solo nell’ottocento, per ragioni diverse e non sempre coerenti: dall’interesse dei dotti ai ragionieri del nuovo stato italiano nasce o per obbligo o per gusto erudito quella che senza dubbio è una storia, non di semplice e agreste povertà, ma di miseria.

La storia della Sardegna è una storia di miseria, e la storia del medioevo sardo è un coacervo diverso di storie diverse, interrotte solo con l’arrivo della nuova era della tecnologia a buon mercato. Ma, in questo senso, la storia del medioevo in Sardegna è distinta da quella moderna solo per la ferrovia, scadente e poco usata, e per pochi ammennicoli superficiali. E’ la storia di “ieri”. Tutto quello che è cambiato, è mutato solo di recente e non dovunque nello stesso modo. Solo le ultimissime generazioni, prive di passato un po’ ovunque, sono accomunate al resto d’Italia in questo loro oblio della storia.

Questo immobilismo della Sardegna, estremo e fatale, è la ragion per cui un grande storico della Sardegna si proclama fiducioso nella sua ricostruzione della storia sarda a partire da informazioni successive al periodo medioevale vero e proprio[3]. E in questa sua fiducia, noi riponiamo la nostra, sentendoci abbastanza legittimati e tranquilli per diverse ragioni.

Intanto, possiamo subito notare come la malaria sia una malattia complessa, determinata da tre fattori concorrenziali e distinti (plasmodio, zanzara Anopheles, uomo) tale che essa sia diffusa in tutto il bacino mediterraneo, in vario modo, e non solo. Così, le considerazioni generali delle caratteristiche della malaria permangono non solo in ogni dove, ma anche in ogni “quando”.

In secondo luogo, nello studio della storia, in particolare di una malattia, non si può prescindere dalle particolari condizioni geografiche e socioambientali tali che si abbia un contesto ben determinato studiabile di per sé. In questo senso, l’analisi della malattia non può prescindere dallo studio geografico e sociale della Sardegna stessa, in questo caso. Questa operazione, seppure difficile, non è impossibile ed è ciò che ci riproponiamo di fare.

Sfortunatamente, questo indirizzo “multidisciplinare” allo studio della malattia è cosa recente come attestano sia Frank Snowden che Eugenia Tognotti:

Tradizionalmente, la storia della medicina è stata una disciplina di élite e spesso scritta in gran parte dai medici stessi, che hanno privilegiato le grandi scoperte che hanno portato – in una progressione lineare e trionfalistica – dalle tenebre e dall’oscurantismo scientifico alla “verità” prestando scarsa attenzione al rapporto di queste scoperte con la vita quotidiana della gente[4]

ma anche

Ancora pochi decenni fa, in Italia, la storia della medicina veniva scritta quasi esclusivamente da medici, era destinata prevalentemente a un pubblico di medici, e raccontava le grandi scoperte ma anche le piccole glorie paesane dei medici. Per contro, gli storici, quelli che descrivevano i grandi eventi del mondo, ignoravano che le malattie e la medicina avessero potuto avere qualche influenza sui destini dei popoli e delle nazioni.[5]

Purtroppo, dunque, non sempre la conoscenza si attiva per tempo, e i pensatori preferiscono attardarsi sui massimi sistemi che sulle lacrime della gente. E così anche nella storia, gli storici prima di tutto preferiscono interessarsi ai “grandi fatti”, degni di nota e capaci di eleggerli alla sfera dei grandi: se non nell’azione, almeno nella scrittura debbono trovar la loro giusta via per la gloria[6]. La vita degni uomini, nel mentre, fluisce via, molto più velocemente di quel che, forse, meriterebbe. Il tempo, come un grande mare, inghiotte dentro di sé la vita di carne di uomini poveri. Così, per ragioni culturali di tradizione occidentale, per ragioni contingenti e per ragioni metafisiche, finisce che la storia della malaria, in particolare, sia quasi del tutto una grande “ipotesi di lavoro” per gli stessi storici.

Inoltre, se dopo l’anno mille inizia una discesa demografica rilevante nel resto del mondo occidentale, che, per i sardi è, in generale, il continente[7] europeo, mai chiaramente inteso; se dal XII secolo v’è una certa ripresa economica e sociale, addirittura sconfinante sul piano culturale; se l’onda lunga dell’evoluzione del ciclo maltusiano si incrocia con lo sviluppo socioeconomico dell’Italia peninsulare, a sud e, soprattutto, nel centro nord; di certo in Sardegna tutti questi eventi, probabilmente sono ignorati tanto dai piccoli uomini malarici, ma probabilmente anche dai “potenti”. La Sardegna ha un lunghissimo medioevo, una continuità che ha dello straziante perché tra il mondo antico e quello ottocentesco è ben difficile capire dove siano gli eventi di rottura, piuttosto che quelli di continuità.

Non si può considerare la storia della Sardegna, in tutto, legata alla storia del resto del medioevo italiano, e troviamo, in ciò, piuttosto triste notare che anche grandi storici di rilievo ne parlino accomunandola alla storia italiana, come se con l’unità d’Italia, anche quell’isola calda e paludosa si fosse geograficamente unita creando una nuova pangea italiana. Una pangea storica che non ha traccia nella realtà dei fatti.[8]

In fine, se c’è stato un cambiamento, è stato solo nelle istituzioni ad alto livello, ovvero i dominatori di turno. E l’avvicendarsi di questi dominatori, da Cartagine ai piemontesi, non è stato sostanzialmente avvertito mai dalla piccola e debole popolazione sarda, se non nel momento in cui questa ha goduto di una molto relativa libertà.

Insomma, la storia della Sardegna è la storia di una piccola colonia, sempre trattata come tale e sempre considerata come misera terra, ricca solo per pochi sfruttatori.

In tutto questo, la malaria si colloca come causa e come effetto della debolezza economica, isolatezza politica e marginalità culturale.[9] La miseria è causa della malaria e la malaria è causa della miseria. Un terribile circolo vizioso rimasto intatto sino a ieri (ancora nel 1947 esistevano casi di malaria in Sardegna per quanto, ormai, paragonabili al triste ricordo che un vecchio poteva avere di un suo male patito in gioventù).[10]

Ciò che ci proponiamo è, quindi, di disegnare uno scenario della Sardegna malarica medioevale. Un tracciato che non può certo essere paragonato ad una chiara e grigia, rigida autostrada, ma ad un percorso a tappe, forse un po’ oscuro e sempre sull’orlo del dubbio. D’altra parte, se è vero che alcuni fatti sono retrodatabili, è anche vero che la storia si fa su fonti molto manchevoli, rapsodiche e ben poco attendibili sul piano scientifico e, dunque, ciò che ci preme riesumare dall’onblio è quel “possibile-probabile” al quale la storia deve mirare nelle sue ricostruzioni e, in questo caso più che mai, bisogna essere molto prudenti nel dire “fu così che”.

Criteri di esistenza della malaria

 Sarebbe inutile cercare testimonianze dirette sul modo in cui veniva vissuta l’esperienza della malattia in un mondo che trasmetteva solo oralmente quasi tutta la sua cultura. “le voci dei malati sono un coro quasi sempre muto, muto due volte: davanti al medico, in un soffrire senza parole, e davanti allo storico, con parole rintracciabili soltanto nel discorso altrui [11]

Tognotti E.

Analisi geografica

Basta aprire un atlante per rendersi conto del perché la Sardegna, pur essendo abitata da una popolazione assai modesta di numero, assai modesta per ricchezza e assai modesta per cervelli, sia stata, di volta in volta oggetto di contesa da parte di potenze più forti di lei:[12] la pianura del Campidano è estesa per quasi cento chilometri, da Oristano a Cagliari e tutta la zona attorno a Sassari è fertile e bagnata da diversi fiumi. Di ciò si erano resi conto un po’ tutti.

Ma la Sardegna non è solo pianure ed è in gran parte una terra collinare e, a tratti, montuosa. Monti frastagliati e impervi, bucati da antri e frastagliati da grotticelle non estese ma capaci di essere nascondigli per uomini e animali, costituiscono un buon quarto dell’intera Sardegna. Pianura, collina, monti: un panorama che comprende tutte le possibilità per rendere una terra magnifica, degna dell’attività agricola e dell’allevamento.

Il clima è quello proprio dell’area mediterranea:

mitigate dal mare, le temperature hanno medie abbastanza contenute, sia estive sia invernali; la media annua si aggira in quasi tutta la regione tra 14 °C e 18 °C . Le temperature estive più elevate (medie sui 30 °C) si registrano in alcune conche interne (con massimi anche superiori a 40 °C), mentre nelle fasce costiere si aggirano sui 24 °C; le medie invernali sono di 9-10 °C sulle coste, ma scendono fino a 0 °C sulle sommità del Gennargentu.[13]

La piovosità non è certamente eccessiva e i piovaschi rilevanti si concentrano tra dicembre e gennaio, del tutto assenti nel periodo estivo, d’altra parte, come attesta lo stesso carattere torrenziale dei fiumi, nel resto dell’anno l’andamento è molto irregolare. Le precipitazioni complessivamente non sono scarsissime: passano dai 500-600 mm annui nelle aree pianeggianti, ai 700-800 mm sui primi rialzi collinari dell’entroterra; al di sopra dei 900 metri di quota si superano in genere i 1.000 mm di precipitazioni, che alle alte quote assumono anche forma nevosa. Nel piano superiore del Gennargentu, cioè al di sopra dei 1.500 metri d’altezza, il manto nevoso dura alcuni mesi.[14]

I fiumi sono numerosi ma tutti di piccola dimensione. Essi sono sostanzialmente a regime torrenziale e solo alcuni sono abbastanza grossi: il Tirso è il più lungo, il Flumendosa è quello che ha maggiore portata, ma sono rilevanti anche il Coghinas e il Cixerri.

Altra caratteristica importante nella composizione di un paesaggio è la descrizione delle rocce e della fauna e della flora. Oltre ai rilievi “macroscopici” e alle forme generali, sebbene di basse altezze, quelle stesse che rendono la Sardegna un’isola tendenzialmente esposta ai venti, in particolare di maestrale e di scirocco, e povera di attracchi naturali, è fondamentale aver presente la natura di un territorio per capire in che “tre-dimensioni” dovevano muoversi gli abitanti privi di efficaci energie alternative a quella direttamente loro. “[P]iù della metà della superficie territoriale dell’isola è costituita da graniti, schisti e rocce vulcaniche recenti, per lo più di scarsa fertilità…”[15]

Schisti, calcari, dolomie Cambrico occupano il 3% della superficie; schisti del silurico il 20%; graniti e porfidi il 31%, dolomie e calcari del Mesozoico il 4%; trachiti, tufi rachitici, ecc. il 13%; calcari e marne del Miocene il 10%; basalti il 6%; alluvioni antiche il 9%; alluvioni recenti il 3%; altre informazioni l’1%.[16]

In questa dimensione, è importante notare che le uniche zone propriamente fertili sono quelle delle pianure alluvionali del Campidano e le zone della Gallura e del Logudoro.

La flora e la fauna sono le stesse del resto del mediterraneo, salvo per alcune particolarità: esistono infatti due tendenze, sia nella fauna che nella flora, una è quella autoctona, l’altra è quella che tende ad “importare” specie più diffuse anche nel resto del continente.

Il territorio, come s’è visto, è sostanzialmente aspro e composto da molte zone difficilmente assoggettabili al controllo umano, così la macchia mediterranea è copiosa e le zone boschive sono abbastanza rade, due costanti nel panorama sardo.

La stessa fauna è di dimensioni proporzionate alla grandezza degli abitanti, inoltre essa ha quella stessa tendenza della flora: esistono degli animali tipicamente sardi, sia nel senso che si sono selezionati naturalmente, sia nel senso che sono stati selezionati artificialmente. D’altra parte, gli uomini sardi, nelle loro infinite sventure, non hanno avuto problemi né coi lupi, né con gli orsi, né con le vipere giacché la terra sarda non li ha mai ospitati.

Insomma, la Sardegna da una parte sembra una terra molto ospitale, ricca di pianure bagnate dall’acqua. E tuttavia proprio in quella parte apparentemente più ospitale si celano grandi pericoli.

 

Analisi storica: la Sardegna medioevale

La storia della Sardegna si interrompe per qualche secolo. O meglio, la storia secondo le fonti scritte. Dopo che l’impero bizantino, troppo occupato a proteggere gli altri suoi possedimenti, lasciò a sé stessa la Sardegna, l’isola godette per un certo tempo di una relativa indipendenza.

Neppure sotto il governo romano, l’isola non venne mai controllata pienamente da per tutto. Basti pensare che ancora al tempo di Augusto la Sardegna era provincia direttamente controllata dall’imperatore, vale a dire che in essa erano presenti contingenti cospicui di soldati, mantenuti per ragioni di ordine pubblico e militare. Gli stessi potenti romani non osavano addentrarsi all’interno degli aspri pendii del Gennargentu. Lì, una popolazione inafferrabile conduceva la sua vita da millenni, probabilmente con costumi sociali molto diversi da quelli “civili” dell’impero. D’altra parte a Roma, come in tutti gli altri dominatori passati sotto il cielo sardo e sopra la terra dell’isola, l’unica cosa che importava era il controllo del “granaio”.

Così i romani fecero costruire una strada che collegava il sud col nord: quella strada su cui, ancor oggi, passano le automobili, carri senza animali. La strada collegava le due zone agricole fondamentali e, queste, erano tutto ciò che importava ai romani della Sardegna.

Se Roma aveva favorito, come sempre, un certo sviluppo urbano, centro del potere e controllo del territorio circostante, per varie ragioni in Sardegna non ci fu mai un particolare sviluppo delle città. E ciò è ancor oggi testimoniato dal fatto che solo il periodo nuragico vanta numerosi ritrovamenti e clamorose costruzioni, mentre si rimarrebbe molto delusi, se si volesse cercare una “Pienza” in Sardegna.

La questione demografica è sempre stata evidente. L’isola è sempre stata sottopopolata e, ancor oggi, seppure l’isola è di poco più piccola della Sicilia, è molto meno popolata di quella. Una stima possibile alla fine dell’età antica è quella di 300.000 persone: “La popolazione dell’isola, che superava probabilmente i 300.000 abitanti alla caduta dell’impero romano, regredì nell’alto medioevo. Dopo la cacciata di Mugahid si aggirava forse sulle 250.000 anime”.[17] Mentre durante tutto il medioevo: “All’inizio del secolo XIV la densità della popolazione rurale raggiungeva appena, nell’insieme dell’isola, una famiglia (cioè circa 4 persone) per Km2 della Piccardia, con le 14,1 della regione parigina (1323), con le 6,8 per Km2 della regione montagnosa di Rouerge”.[18] La bassa concentrazione demografica si spiega bene con un altissimo tasso di mortalità, dovuto sia alle malattie, in particolare alla malaria, sia alla denutrizione che alla scadentissima qualità di vita generale, in cui la popolazione viveva. Dati simili non possono che condurci al parallelo, neanche troppo azzardato, secondo cui la Sardegna aveva tassi di incremento demografico e tassi di natalità in tutto simili a quelli degli attuali stati in via di sviluppo.

L’altissimo tasso di mortalità non era poi bilanciato da un alto tasso di natalità: la crescita era quasi pari a zero. Questo basso tasso di natalità si spiega sia nella stessa qualità di vita, sia nel fatto che le istituzioni sarde non prevedevano in alcun modo la protezione per i trovatelli,[19] sia perché l’età dei matrimoni era piuttosto avanzata.[20]

Ma la quantità di persone aumenta con l’aumentare della capacità economica di un territorio: più energia materiale si concretizza nell’aumento delle singole persone. Ma il potere economico sardo era assai misero. L’economia sarda nel medioevo era di tre generi: quella per il fabbisogno interno, agricola e pastorale, e quella per l’esterno.

Non bisogna farsi ingannare: l’economia era fondamentalmente chiusa e ciò che era destinato all’esterno era il risultato dell’agricoltura estensiva operata nelle grandi pianure. In questo senso, non deve stupire che la popolazione sarda abbia sempre avuto il problema a reperire cereali. Infatti, il costo bassissimo della manodopera[21] implicava anche un basso costo del prodotto finale e, così, i mercanti genovesi e pisani approfittavano dei prezzi irrisori per comprare più o meno tutto il grano disponibile: il prezzo del grano arrivava a costare anche dodici volte di meno di quello reperibile, per esempio, in Toscana, dove il costo della manodopera era più alto. Oltre al basso prezzo del cereale, v’è da aggiungere che gran parte del grano andava “dissipato” attraverso il fisco e così, nelle mani dei contadini, rimaneva ben poco.

D’altra parte, neanche la pastorizia era un’attività particolarmente redditizia in quanto si basava sostanzialmente sull’allevamento di ovini di bassa qualità, ovvero poco resistenti alle intemperie, capaci di produrre poca lana e di scarsa qualità anch’essa, incapace di reggere il confronto con le lane più pregiate. Non ci fu, nemmeno in questo senso, la volontà da parte della classe dirigente di migliorare il sistema, con la sostituzione delle pecore con altre di qualità più pregiata, com’era avvenuto nel sud Italia con le pecore merinos: “Non si riscontra nessuno sforzo serio, né da parte dei catalani, né da parte dei genovesi e dei pisani, per favorire quest’attività di base con l’introduzione di una razza economicamente più redditizia”.[22] L’unico prodotto in grado di rivaleggiare abbastanza bene in altri mercati era il pecorino e anche altri formaggi.[23]

I tentativi di popolamento e sfruttamento di altre terre doveva passare da questa realtà socio-economica abbastanza scoraggiante. I vari insediamenti furono tentati come nel resto del continente, mediante l’incentivo da parte delle istituzioni attraverso la soppressione delle richieste fiscali o attraverso la cessione del terreno demaniale ai contadini. Tuttavia v’è stata anche una forma del tutto “locale” di colonizzazione dell’incolto: la domestias e la scolca. La domestias è un insediamento “cellulare”: un unico nucleo familiare su una porzione molto limitata di terra. La scolca era invece una riunione di più nuclei abitativi che avevano in comune l’usufrutto di qualcosa (aratro, buoi, ecc..). I sistemi della domestias e della scolca indicano sia la penuria demografica, giacché non si hanno fenomeni di comunitarismo più ampio, come il sistema dei campi aperti; sia la penuria dei materiali e della tecnologia, che impone maggiore lentezza e dissipazione della forza lavoro nel sistema produttivo. Questi tentativi non erano destinati ad avere effetti duraturi, nella misura in cui il territorio era abbastanza ingrato, difficile da sfruttare e, per un suo buon utilizzo, sarebbe stata necessaria la cooperazione di forze maggiori e meglio organizzate, cosa che un così limitato “attacco random” alla terra certamente non consentiva.

Una soluzione al problema demografico sardo fu, talvolta, tentato dai governi ma sempre risultò fallimentare perché se la popolazione sarda si era in una certa misura adattata geneticamente alla malaria,[24] non così era per tutti gli altri:

Per molti osservatori piemontesi del XVIII secolo, il grande colpevole della desolazione delle campagne sarde è il paludismo, sia perché esso ha infranto incessantemente la crescita demografica, sia perché è all’origine del fallimento della maggior parte dei progetti di popolamento da parte di coloni giunti dai paesi dal clima più mite; la Sardegna è stata infatti nel corso dei secoli, uno dei paesi più colpiti del mediterraneo.[25]

Nel 1746 su 204 villaggi visitati dal viceré de Viry, due terzi si distinguono per l’aria insalubre o molto insalubre dovuta alla loro posizione in zone “soggette alle intemperie”, “impestate” o “paludose”. Già in tempi della conquista aragonese, i cronisti attribuivano all’aria infetta della Sardegna la responsabilità della morte di molti nobili cavalieri e di moltissime altre parsone. In effetti i catalani dovettero ben presto deporre ogni velleità di colonizzazione rurale “per la grande paura che incutono le malattie della Sardegna” ( 1328 ). Infine, in una petizione del parlamento sardo del 1484, l’“aria infestata” rimane sempre il grande nemico dell’occupante.[26]

E così, per tutto il medioevo, la popolazione, da un punto di vista puramente economico e di forze sociali, era costantemente sottoposta a sforzi sovrumani da un lato per sostentarsi e, da un altro lato, per riuscire a soddisfare le richieste fiscali. Bassissimo incremento demografico per una popolazione già poco numerosa, un’economia di sussistenza, inabilitata da un’organizzazione improntata allo sfruttamento sistematico del possibile surplus: se quest’ultimo viene sottratto interamente, va da sé che non si pongono le condizioni per un accumulazione del capitale che possa favorire un incremento sensibile dei beni indispensabili per la crescita demografica, sociale e umana.

D’altra parte, anche la vita politica era in mano di pochi e, quei pochi, tendevano a mantenere lo stato di cose. Di mano in mano, la Sardegna è scivolata in uno stato di perenne immobilità politica determinata anche dal fatto che le forze sociali, già troppo preoccupate di altre faccende, non premevano sulla classe dirigente che, di per sé, tendeva a controllare e gestire il proprio dominio.

E tutto ciò arriva anche a spiegare l’estrema esiguità delle fonti scritte, di documenti ufficiali e di riferimenti di altri intorno alla Sardegna. E tutto ciò che s’è notato, detto o scritto era di carattere denigratorio, basti pensare a Dante, il quale paragona la lingua dei sardi ad una forma malfatta, simile al linguaggio dei pappagalli. La Sardegna era abbandonata a se stessa.

 

Descrizione generale della malaria

La malaria è una malattia dovuta ad un protozoo: il plasmodio. Il plasmodio è trasmesso all’uomo dalla zanzara anopheles. La zanzara fa da tramite tra il plasmodio e l’uomo e così diffonde la malattia.

Il plasmodio, una volta presente nell’organismo umano, si rintana nell’endotelio, cioè la porzione del vaso sanguigno che è a contatto col flusso del sangue, e lì incuba per due settimane al massimo, dopo di che si libera ed entra nel circolo sanguigno, attraverso i globuli rossi. A questo punto il protozoo ritorna nell’endotelio e, preferibilmente, nell’intestino e nella milza.

Il protozoo, una volta entrato nel circolo sanguigno, ovvero annidato nei globuli rossi, arriva a rompere gli stessi, determinando nel soggetto malarico una condizione di anemia costante, ovvero, ogni qual volta arriva, nel ciclo, il momento in cui il plasmodio si libera, muoiono i globuli rossi.

La febbre, sintomo per eccellenza della malaria, è il risultato della presenza del protozoo nel sangue. Questo, come s’è visto, va a “ondate” cioè nei periodi di incubazione, il soggetto malarico, riacquista una certa parvenza di “salute” per poi ricadere nello stato febbrile non appena il protozoo si ripresenta nel sangue.

In quanto il protozoo tende ad annidarsi nell’endotelio del fegato, poi della milza e dell’intestino, può favorire la nascita di tumori agli organi suddetti. Inoltre, grazie alla spossatezza che la febbre causa, la malaria, indebolendo le difese immunitarie del soggetto malarico, favorisce l’insinuarsi di ulteriori infezioni, specie in condizioni di malnutrizione e condizioni di vita genericamente scadenti.

Uno scenario del medioevo sardo: la malaria in Sardegna

« Qual dolor fora, se delli spedali

 di Valdichiana tra ‘l luglio e ‘l settembre

 e di Maremma e di Sardigna i mali

 fossero in una fossa tutti insembre,

 tal era quivi, e tal puzzo n’usciva

 qual suol venir delle marcite membre »

Dante Inferno, XXIX, 46-51.

Abbiamo tutte le carte per capire come la malattia doveva essere un male decisivo per la popolazione sarda. La Sardegna offriva un clima perfetto per la proliferazione della zanzara anopheles. Le zanzare amano gli acquitrini e le zone paludose e la Sardegna, composta da rocce impermeabili, ne era ricca. Ma non solo alle rocce, ma lo stesso corso dei fiumi, di piccole dimensioni e spesso a bassissimo regime, concedeva la possibilità di zone stagnanti. Ma, cosa più grave e pericolosa, era proprio la zona potenzialmente fertile e ricca ad essere la più soggetta alla piaga: “se si pone mente al fatto che i terreni agrari migliori – la “polpa” dell’agricoltura regionale – erano dislocati proprio nelle aree più malariche, cioè nelle pianure alluvionali, una coincidenza già rilevata da Stratone nel I secolo a.C. (“Per aestatem insula morbosa est, atque ibi potissime ubi feracissima est”)”.

Dal punto di vista delle zanzare, non si poteva chiedere di meglio: da un lato un habitat perfetto per la loro sopravvivenza e moltiplicazione, da un altro, una quantità indefinita di esseri umani da poter sfruttare. Se la storia fosse scritta dalle zanzare, sarebbe diversa dalla nostra.

D’altra parte, per combattere una malattia come la malaria bisognava avere delle armi materiali e culturali che la popolazione non poteva avere: prima di tutto era necessario sapere che la malaria venisse portata da un insetto e non dalla “cattiva aria”. Da questo particolare risulta evidente che né la popolazione più rozza né la popolazione più ricca,[27] accomunate almeno in questo dallo stesso problema, aveva la benché minima coscienza della natura della questione: esso veniva vagamente attribuito alla cattiva qualità dell’aria o non si riusciva a distinguere da altre malattie.

Questa descrizione, fatta da un medico, Francesco Gemelli, risale all’avanzata età moderna: “La intemperie della Sardegna nasce dalle notevoli esalazioni delle saline, delle paludi, de’ fiumi stagnanti, e della terra, le quali dalla viva azione del sole innalzate nell’atmosfera impregnanla per modo che perdendo l’aere di sua elasticità, diviene malsano a respirare, e unitamente a que’ vapori grassi e maligni, genera nel corpo febbri malariche putride, e perigliose, e talora mortali”.[28] Insomma la malaria sarebbe proprio generata da una serie di qualità intrinseche alla “morfologia” di un territorio, piuttosto che ad un animale. Se questa è l’opinione di un medico, evidentemente ancora meno chiara, oppure la stessa, doveva essere l’opinione della gente.

Della malattia, tutto ciò che si poteva sapere erano gli effetti, come ci testimonia la “saggezza” popolare: “Sa febbre terzana non est toccu de campana” (la febbre terzana non è un tocco di campana) e “Sa febbre attunzale o est longa o est mortale” (la febbre autunnale o lunga o è mortale). [29] Se andiamo a vedere proprio ciò che abbiamo più vicino, ci rendiamo subito conto di come la conoscenza delle cause della malattia dovevano essere del tutto oscure: il nome “malaria” è semplicemente la descrizione di una condizione “geografica” o comunque relativa ad un luogo, del tutto lontana tanto dall’identificazione del male con un “animale” quanto dal gettare un’indiretta possibilità di prevenzione o cura.

Risulta evidente che le cause erano del tutto sconosciute e non c’erano i mezzi per trovarle. Se questa la situazione morfologica era favorevole alla proliferazione delle zanzare e la conoscenza delle cause della malattia erano del tutto ignorate, le condizioni alimentari e igieniche della popolazione erano senz’altro un’ipoteca sulla possibilità di evitare e sopravvivere al flagello. A partire dalle abitazioni per finire agli impianti fognari,[30] tutto era manchevole: “Le casupole di mattoni di paglia e fango impastati, sono senza aria e senza luce, non pavimentate e quindi umidissime. Il pozzo, se c’è, è nella corte, e quivi pure la latrina, quando esiste. Cogli uomini convivono in più o meno intima promiscuità ogni sorta di animali domestici. Nella corte si sogliono anche accumulare i rifiuti domestici. Non fognature di sorta”.[31] Le abitazioni[32] erano costruite in “ladini” ovvero mattoni crudi, di fango e paglia, che consentivano, com’è manifesto, una grande concentrazione di umidità:

Le case degli abitanti delle campagne la maggior parte delle volte non sono altro che povere casupole, senza fondamenta né piani, costruite in terra cruda in pianura ed in collina, e in pietra a secco in montagna; porte, tegole, mobilio, anche se rudimentale, rappresentano già una ricchezza. Queste abitazioni insalubri sono anche estremamente fragili, appena inabitate, cadono rapidamente in rovina.[33] [34]

Villaggi privi di fognature, di smaltimenti di rifiuti, troppo piccoli e troppo distanti dal potere politico per consentire un’organizzazione istituzionale, le condizioni igieniche generali erano miserabili:

In tutti i vicoli strati di escrementi; gruppi di maialini neri razzolano qua e là insieme a bambini nudi dentro alle case e in mezzo allo sterco. Le case sono semplicemente cubi di pietra nelle quali c’è solo un’unica stanza con un’unica apertura che funge da porta, finestra e comignolo[35]

e, se questa descrizione è di un solo paese: “la situazione, per quanto riguardava le condizioni igieniche ed edilizie dei piccoli centri contadini, variava assai poco da una provincia all’altra. Così come era omogenea la situazione delle abitazioni”.[36] Da questa condizione piuttosto problematica non si salvavano nemmeno i comuni più grossi: “A parte Sassari, Tempio Pausania, Ozieri, che ne erano provvisti –sia pure limitatamente a qualche via -, tutti i comuni erano privi di fogne e di scoli per le acque piovane. (…) Nella provincia di Cagliari soltanto il capoluogo e altri 4 dei 257 comuni erano provvisti di fogne”.[37]

E seppure, ancora, potrebbero darsi delle istruzioni e regolamentazioni che determinassero almeno dei comportamenti preventivi più attenti all’igiene generale, neppure queste erano presenti. Insomma, era del tutto assente una qualche normativa per la gestione dei rifiuti piuttosto che delle sepolture:

Come i loro pari in tutte le campagne d’Europa, i contadini sardi non si preoccupavano assolutamente del pericolo di contagio rappresentato dall’“aria corrotta” dai cadaveri in decomposizione, ammucchiati nelle cripte delle chiese parrocchiali, e dalle montagne di rifiuti accumulati nei cortili delle case o nelle strade “non altrimenti che in Madrid”.[38]

Con una certa amarezza si può guardare alle condizioni di lavoro dei contadini e dei pastori, soggetti a rischio per la fatica che dovevano sopportare:

Altro fattore che contribuisce in questa provincia alla persistenza della infezione malarica è la mancanza o deficienza di colonizzazione agricola e di ricoveri in campagna per i lavoratori delle terre. La maggior parte degli agricoltori percorrono le zone infette di malaria nelle ore più pericolose, all’alba nel recarsi al lavoro e sul tramonto rientrando ai centri abitati, di modo che sono sempre esposti a cogliere le febbri. Egualmente soggetti sono gli agricoltori che si adattano a dormire in campagna o all’aperto o sotto improvvisate capanne di frasche, ovvero in casolari privi di qualsiasi protezione. Infatti la popolazione agricola paga il massimo tributo alla malaria.[39]

 Questa descrizione ci è data da uno studio sulla malaria in Sardegna alla seconda decade del novecento. Da ciò risulta palese come non ci sia dubbio sulle miserevoli condizioni degli agricoltori in generale e, se ciò avveniva durante il XX secolo, si può solo immaginare ciò che doveva accadere nel medioevo vero e proprio.

Insomma, le condizioni igieniche, tanto delle abitazioni, dei comuni in generale che del lavoro erano disastrose. E se il protozoo della malaria ha vita più difficile in organismo sano, così non doveva essere quello del sardo “medio” del medioevo. Continuamente esposto a malattie di ogni genere, ad una vita fatta di fatica e di ottuso lavoro, l’alimentazione non sopperiva alla dissipazione di energia fisica:

 sottraendo le sementi, rimangono, nella migliore delle ipotesi, soltanto 400-500 grammi di pane al giorno per persona, cifra che riflette la realtà del consumo popolare nei secoli XVI-XVIII (e pensiamo che ciò valga anche per i secoli precedenti) certamente meglio degli 8 staterelli (400 litri) proposti da un editto prammatico del 1598, come minimo annuo pro-capite, sementi comprese. Mancando il grano in quantità sufficiente, i contadini sardi si nutrivano di frutti selvatici, uva non ancora matura e vino troppo “nuovo”, olio di lentisco, selvaggina semicruda, ferula che provocava “disturbi sanguigni” analoghi a quelli delle bestie, pane di ghiande mescolate con argilla gialla “per dargli consistenza”, o, peggio ancora, consumava il loro capitale in animali e sementi.[40]

L’economia sarda privava i contadini di un consistente apporto di pane, in questo modo, la dieta doveva essere varia. I prodotti erano scarsi e di rado si mangiava carne, generalmente conservata per le occasioni particolari:[41]

 Nella prima metà degli anni ottanta [dell’ottocento] gli alimenti fondamentali dei contadini erano pane (di farina di frumento, d’orzo, o misto) minestra di paste, condita con lardo o poco olio d’oliva, legumi (fagioli, rape, ceci), erbaggi crudi o cotti, cipolle, in alcune zone pesce salato e, molto di rado, carne: “Sono usate quelle di bue, di pecora, di capra, di maiale o di pollame. Nella provincia di Cagliari è raro l’uso della carne di bue, per lo più nelle solennità o in caso di malattia”.[42]

D’altra parte, il popolo sardo non ha mai potuto godere pienamente dei frutti del mare in quanto altre potenze inibivano la presenza, non solo di imbarcazioni ma pure di insediamenti costieri stabili. In questo concorsero non solo le dirette potenze che si susseguirono nel controllo della Sardegna, ma furono devastanti anche le azioni della pirateria da parte dei berberi. In questo modo, anche l’eventuale sfruttamento delle risorse del mare era molto limitato e, nonostante l’apparente paradosso, i sardi non furono mai grandissimi marinai.[43]

Condizioni alimentari simili a quelle che oggi potremmo trovare nei paesi in via di sviluppo, terribili condizioni igieniche delle abitazioni e dei comuni, assenti regolamenti per la gestione dei rifiuti e lontano potere politico, economia di sussistenza, assenza di una conoscenza specifica in materia resero la malaria un male inevitabile. Ed è questa, forse, la presa di coscienza più terribile: non avendo alcun rimedio, incapaci di discernere sia le cause che la vera e propria malattia, il popolo sardo era completamente disarmato di fronte al male dell’aria.

Quindi bisogna concludere che i sardi non abbiano mai avuto a relazionarsi con qualcosa, con qualcosa del territorio-ambiente non-umano perché non avevano la benché minima coscienza di quel che aveva di fronte a sé. Dal punto di vista cosciente e culturale è senz’altro vero. Ma non è vero dal punto di vista, inconsapevole per la coscienza, il livello della specie: “a causa dell’endemicità, i Sardi col tempo svilupparono una sorta di difesa immunitaria ma a scapito della forza e della prestanza fisica, restando esposti ad altre malattie e ridotti di 3,3, cm, nella statura rispetto al periodo premalarico nuragico (165,2 cm, II Millennio a C, contro 161,9 cm del XIX secolo)”.[44]

Ma questo era una magra consolazione: perché di queste caratteristiche genetiche, oltre ad essere di per loro insufficienti a evitare i problemi reali della malattia, non si è capaci di consapevolezza. Il popolo sardo era a tal punto disarmato che la popolazione cercava di evitare di prendere coscienza del grande male che lo circondava.

Il “pregiudizio” si costruisce in due modi: o partire da un’associazione di idee o a partire da una certa interpretazione manchevole delle cause, il collante, in entrambi i casi, lo fornirà l’abitudine. Ma il “buon senso” popolare si costruisce su intuizioni che effettivamente hanno un che di vero, ma rimangono sospese nella verità incerta della credenza, dell’“è così” senza “perché”. Ma nel caso della malaria che cosa si poteva associare? La febbre veniva quasi da sola, i mali incurabili non erano visibili, ciò che rimaneva era solo un corpo morto, da piangere e seppellire. Non c’erano fatti da associare perché ogni volta la malaria compariva senza senso e senza giustificazione. Né, in quest’ottica, potevano esserci nemmeno interpretazioni, seppure errate. Senza eventi, non ci possono essere cause retrospettive. E allora rimane un grande buco angoscioso, un vuoto incolmabile, un faccia a faccia con la morte e con Dio.

Gli uomini non tollerano per troppo tempo la vista di ciò che gli produce un grandissimo orrore, un malessere intimo che li fa fuggire e gridare da una paura incontrollabile e terribile e, contemporaneamente, estremamente vera e concreta, capace di insinuare un male roditore nel profondo del cuore. Da ciò rifuggono e così si spiegano le parole dello scrittore-viaggiatore Lawrence:

Agli abitanti non piace ammettere la presenza della malaria. Ce n’è un pochino, dicono, un pochino soltanto. Appena si arriva agli alberi non ce n’è più. Così dicono. Per chilometri e chilometri il paesaggio è una brughiera e colli, senza alberi. Ma aspettate che ci siano gli alberi. Ah, i boschi e le foreste del Gennargentu, i boschi e le foreste, su in alto: la non c’è malaria![45]

Un uomo malarico

Un senso di generale ed indefinibile oppressione accompagnato da una dolorosa sensazione di borborigmo nel basso ventre è il foriero del male: quindi dolore di capo insopportabile, difficoltà nel respiro reso penoso dal senso di aria infuocata che sembra scorrere pel canale della respirazione e tosto un’ardente febbre, e in pochi giorni il delirio. [46]

Carbonazzi G. A.

Cerchiamo ora di compiere l’ultimo passo nella presa di coscienza di quello che doveva essere stato il problema della malaria nel medioevo sardo: un punto di vista umano. Poniamo di essere un uomo, magari un agricoltore nel medioevo per esempio del Campidano.

La sua vita, incentrata nel lavoro e nella fatica più cieca, era un sole brillante ed alto sino al cambio di luna, quando ormai la stanchezza lo sopraffaceva. A quel punto doveva arrivare un insetto. A sua insaputa l’uomo, stremato dalla sforzo del giorno, dormiva nel suo tugurio. Veniva punto. Egli, il giorno dopo, veniva a sapere che un altro tizio del suo comune di pochi abitanti, era morto di malaria. Qualche gesto scaramantico, una preghiera e il funerale ecco quel che gli toccava fare.

Inizia, dopo un paio di settimane, a sentire una stanchezza pesante, un calore opprimente, ma al principio non da peso al principio del male, giudicandolo affrettatamente come una abitudine al troppo lavoro. Se la prende con il mondo e con i potenti o con qualche altra entità che Dio solo sa dov’è e quando.

Ad un tratto, un fremito più forte, lo butta direttamente giù dalla fatica ed è tanto se riesce ad arrivare a casa. Il caldo del giorno si unisce al caldo della febbre e il suo cuore caldo si scalda per la paura. A questo punto lo invade l’angoscia dell’ignoto. Chiama qualcuno e qualcuno lo viene ad assistere. Magari gli da qualcosa da mangiare e, forse, gli fa anche un salasso, utile per sentito dire. Le donne del paese probabilmente si mettono a piangere e invocano il potere del cielo per venirgli a dare una mano.

Ma la malaria non ascolta gli dei, i protozoi sono ignoranti di Dio, non studiano teologia. Così il l’uomo incomincia a intuire. Ma troppo stanco per capire si alza, esce fuori di casa per andare al torrentello per prendere una sorsata d’acqua incrostata di fango.

La malaria, dev’essere stato il sole cattivo, o qualcosa del genere. L’uomo si guarda attorno e vede nella penombra della sua miserabile abitazione, solo il nero dell’ombra, ora solamente un cieco vuoto. Tra uno spasmo l’altro, sente le grida e le lacrime, per lui che è ancora lì, testimone del male cieco, che impregna l’aria vitale come l’acqua i vestiti dopo un lavaggio in una giornata umida.

Senz’altro cerca cause del suo malessere, non le trova. Una parola, una giustificazione, un riscatto per una morte prossima, quell’unico possibile sollievo per una vita che sta andando via.

Cerca conforti trova urla e sguardi impauriti. Il conforto, in un mondo dove la solitudine degli uomini trionfava su ogni possibile dizione, era solo una buona parola di un prete o di una donna che non tutti avevano la fortuna  di avere.

Alla morte un funerale, più che altro simbolico, di fatto un po’ di terra sopra. Adesso, liberato sì dalla febbre per sempre, sarebbe ritornato egli stesso sotto forma di aria in quella stessa calura che portava tante piccole cose con sé, le zanzare, e ne toglieva di più grandi, la vita.

Il caso della malaria in Sardegna

 I paesi malsani diventano sani per una moltitudine di uomini che a un tratto gli occupi, i quali con la coltura sanificano la terra, e con gli fuochi purgano l’aria, a che la natura non potrebbe mai provvedere.

Niccolò Machiavelli

 

Se c’è una cosa certa nella storia della malaria in Sardegna è che nessuno sapeva né voleva risolvere la delicata questione. Un problema infatti è semplicemente una realtà di fatto. Una realtà di fatto è definita dall’insieme di proprietà che le competono. Tali proprietà sono le qualificazioni stesse della realtà di fatto che, dunque, se conosciuta, si mostra per quella che è. A questo punto si danno due strade: o il problema sconfina le possibilità degli uomini oppure è risolvibile. Non ci rimane che capire sino a che punto la malaria fosse un problema irrisolvibile.

Prima di tutto, la realtà sarda si presenta come materialmente molto povera. L’economia di sussistenza non produceva di più del necessario e quel “di più” finiva nelle mani di altri. E ciò concorreva all’atterrimento della volontà degli uomini aggiogati all’inutilità di ogni sforzo per migliorare la loro situazione. Le forze sociali ed economiche erano poche e molto sparse.

Ad una certa realtà economica compete una certa organizzazione e a ciò servono le classi dirigenti. Ma in quanto queste soprassiedono ai frutti dell’economia, spesso si disinteressano dei problemi della popolazione, nella misura in cui la popolazione è priva di ogni possibile potere. In questo senso, non c’è niente di peggio che una classe politica che si occupa esclusivamente degli affari propri, e uno strato popolare che si mantiene sempre uguale nello sforzo della vita quotidiana. Due mondi separati, due mondi isolati.

In tutto questo, qualsiasi problema si presenti in mezzo, tra la classe politica e quella popolare diventa semplicemente “invisibile” tanto agli uni che agli altri: il ceto dirigente, impegnato esclusivamente a perpetuare la propria condizione di privilegio, si attiene ai suoi limitati compiti di mantenimento dell’ordine costituito; il resto della popolazione si dedica ai suoi lavori senza poter avere né le forze materiali né conoscitive per affrontare una qualunque altra questione ulteriore a quella del lavoro quotidiano.

E in questa sottile linea d’ombra si staglia la malaria: ignoranza da parte delle istituzioni, ignoranza da parte della popolazione. Ignoranza e silenzio. Ed in questa interpretazione potremmo ricollegarci al principio: le fonti non esistono perché, in un certo senso, il problema non “esisteva”. Rimaneva nel limbo dell’oscuro, come quelle pratiche nei comuni che nessuno conosce perché nessuno dice di avere la competenza per farlo.

Una terra abbandonata a se stessa, una popolazione abbandonata a se stessa e il tutto perché l’ignoranza fa fruttare. La popolazione non ha nemmeno saputo relazionarsi con l’ambiente perché non era in grado neppure di capire con chi avesse a che fare, si è lasciata andare ad una sorta di sconforto, come una presa di coscienza dell’inevitabile.

Tra il caldo e il poco vento umido di scirocco ancora rimane qualche toponimo per la memoria di tanti che sono passati sotto il sole: Paulilatino[47], Paule e Pirri[48], Pauli Arbarei…

A questo punto è difficile stabilire se sarebbe stata possibile una condizione diversa da quella che era. Sicuramente la rivoluzione è passata attraverso la chimica e il DDT, bello o brutto che sia. Nel passato le condizioni materiali erano quelle che erano, gli interessi della politica erano quelli che erano e il destino della Sardegna è stato quello che è stato.


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[1] Satta S., Giorno del giudizio, Ilisso, Nuoro, 1999.

[2] Hobsbawn, Eric J., Il secolo breve. 1914-1991, Bur,  Milano, 1994, P. 128.

[3] Questo immobilismo nell’epoca moderna ci autorizza a proporre una storia “a ritroso” (Marc Bloch), che si serva di una documentazione assai posteriore al periodo in questione: inchieste di ispirazione fisiocratica, dizionari topografici, trattati di agronomia e anche leggende e costumi della tradizione popolare. Il ricorso a un procedimento del genere ci permette di avere un punto di osservazione in un’epoca già lontana dalla nostra, in pieno “medioevo” sardo. Day J., Storia d’Italia X..

[4] Snowden F., Section of the History of Medicine School of Medicine Yale University. Da Tognotti E., Per una storia della malaria in Italia, -il caso della Sardegna-, FrancoAngeli,. P. 9.

[5] Ivi. P. 15.

[6] Come avrebbe sottoscritto il grande Sallustio.

[7] Ancora oggi si usa dire “andare in continente” per indicare una “fuoriuscita” dalla Sardegna.

[8] E’ chiaro che nei “grandi paradigmi generali” non si possa parlare di tutto. Sarebbe fuori luogo e, di fatto, impossibile. Ma è anche pregiudizievole, per chi sia del tutto digiuno di storia della Sardegna, trattare la storia delle isole, in particolare quella sarda, come se fosse unita ai destini del sud Italia piuttosto che delle repubbliche marinare. Così, sarebbe molto più onesto da parte di tali scrittori di storia, che facessero attenzione a sottolineare maggiormente la distinzione tra Sardegna e penisola italiana. Se la storia della Sardegna è stata la storia di una colonia ora degli scuri punici, poi dei “legalisti” civilizzatori romani, anche degli orientalizzanti bizantinini, successivamente degli arroccati pisani e dei taccagni mercanti viaggiatori genovesi, per passare ai grandi e possenti parassiti spagnoli infine dei piemontesi disboscatori; non sarebbe però giusto dimenticare o tacere questa realtà che, per quanto disdicevole a chi voglia fare dell’Italia un’unica nazione, non sembra essere un’operazione lecita a chi voglia parlare di storia. Tale “dimenticanza” è sia nel pur ottimo libro di Montanari “Storia Medioevale”, sia nel manuale “Il Medioevo” di Piccinni: in entrambi, ogni accenno è fatto per sottolineare una certa continuità tra storia sarda e quella del sud Italia.

[9] Cosa che si è perpetuata sino agli anni cinquanta almeno. Le eccezioni sono rare e confermano la regola: Gramsci, per altro, ha avuto una storia biografica che con la Sardegna non ha avuto molto a che fare.

[10] Per una storia della malaria in Italia –il caso della Sardegna- Tognotti E., P. 110. Si veda il grafico esplicativo.

[11] Ivi.

[12] Ancora oggi c’è la base della NATO più grande d’Europa e ospita sottomarini nucleari statunitensi.

[13] Dall’enciclopedia “Encarta”.

[14] I dati sono presi da “Encarta 2006”.

[15] Tognotti E. Ivi. P. 29.

[16] Tognotti E. Ivi. P. 29.

[17] Il cammino dei Sardi. -Storia, economia, letteratura ed arte di Sardegna-. Volume II, Editrice Sardegna. Sanna, N., P. 183.

[18] Day J. Ivi.

[19] « Non si tratta soltanto di figli naturali o adulterini, ma anche di figli legittimi, abbandonati da genitori troppo poveri per allevarli » Day J. Ivi. P. 17.

[20] Vedi Day. J. Ivi. Pp. 16-17 sgg..

[21] « La situazione di inferiorità della Sardegna nei confronti dei suoi trading partners continentali si manifesta ugualmente nel basso costo della manodopera, servile o libera. Negli statuti di Castelgenovese ( oggi Castelsardo ) concessi verso il 1336, un bracciante agricolo percepisce un salario di 3 soldi al mese, l’equivalente di circa 0,30 grammi d’argento al giorno, più una razione di grano. (…) Nel contado di Firenze, invece, i braccianti guadagnano l’equivalente di 2,76 grammi d’argento nel 1329, 2,12 grammi nel 1344 e 4,44 grammi nel 1353. In breve, un bracciante in Toscana guadagna dalle 6 alle 8 volte di più di un suo pari sardo nel periodo che precede la peste, e fino a 12 volte di più dopo l’ecatombe »

Day J. Ivi. P. 42.

[22] Day J. Ivi. P. 47.

[23] Unico prodotto ad essere tutt’oggi conosciuto e stimato dal senso comune. Non solo la verità è eterna, anche sembrano esserlo ancor di più i pregiudizi.

[24] Infra sotto.

[25] Day J. Ivi. P. 14.

[26] Day J. Ivi. P. 15.

[27] « Nel Medioevo, vittima illustre della malaria ( mal ayre ) fu Martino il Giovane, re di Sicilia ed erede della Corona d’Aragona, venuto in Sardegna per combattere contro il Regno di Arborèa. Morì a Cagliari nel giro di dieci giorni il 25 luglio 1405, malgrado le cure di quattro medici ». Dizionario Storico Sardo. Casula. Voce “Malaria”.

[28] Da “Encarta” approfondimento sulla Malaria.

[29] Entrambe citazioni da Tognotti E. Ivi, P. 105.

[30] « E tra i problemi aperti c’erano, oltre al pessimo stato del patrimonio abitativo, alla mancanza di rete fognaria e di acquedotti, tutte le  azioni da portare in essere per l’osservanza dei regolamenti di igieni in materia di alimentazione, sepolture e di cimiteri, di scuole e di abitazioni, di processi di lavorazione che creavano condizioni di insalubrità “nel vicinato”. Condizioni che consentivano il perdurare di numerose malattie –malaria, tracoma, tifo addominale- e la riaccensione epidemica del colera (…) » Tognotti E., Ivi. P 94.

[31] Tognotti E., Ivi. P 95.

[32] Posso portare la mia stessa testimonianza giacché la mia casa tutt’oggi è costituita da mattoni crudi, fatti di fango e paglia. Tuttavia, la mia casa è una costruzione più “moderna” nel senso che è stata elaborata per consentire il peso di un piano superiore, speculare a quello inferiore. Tale abitazione è costruita sul modello “campidanese”.

[33] Day J., Ivi. Pp. 12-13.

[34] D’altra parte ancora Salvatore Satta ricorda di case di questo genere: « La casa era a un solo piano, e da un lato posava direttamente su un macigno, che è il modo più economico di fare le fondamenta. (…). La facciata era coperta di muschio, in definitiva era poco più che una catapecchia… » Satta S., Ivi. 85.

[35] Descrizione da citazione di un viaggiatore tedesco naturalista Ernest Haeckel. Da Tognotti E., Ivi. P. 96.

[36] Tognotti E., Ivi. P. 96.

[37] Tognotti E., Ivi. P. 96.

[38] Day J., Ivi., P. 13.

[39] La malaria in Sardegna nell’anno 1914. P.. 13. Cagliari, Tipo-lit. Meloni e Vitelli 1915. Biblioteca comunale Oristano.

[40] Day, J. Ivi. P. 12.

[41] A tal punto che ancora ci sono persone che ricordano di come il proprio genitore ci tenesse a ricordare di come da bambino mangiasse carne una sola volta a settimana e che il compito di “fare le parti” a tavola spettasse al capo famiglia.

[42] Tognotti E., Ivi. P. 99.

[43] Ciò vale almeno dalla conquista romana in poi.

[44] Dizionario storico Sardo. Ivi. Voce “malaria”.

[45] Tognotti E. Citazione. Nota 76.

[46] Tognotti E. Citazione. P. 107.

[47] Pauli in sardo significa “palude”.

[48] Oggi il paese, sorto proprio sulla palude, è “Pirri”.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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