Press "Enter" to skip to content

Le figlie di Shakespeare aspettano. Margoni F..

La prima regia di Francesco Margoni sembra un film nato per suscitare forti e contrastanti sensazioni. La trama de Le figlie di Shakespeare aspettano è assai scarna e può essere enunciata in poche parole: quattro ragazze vanno in montagna per finire inguaiate per via dei problemi sentimentali che una di loro ha con il proprio fidanzato; sole nel bosco dovranno trovare la strada per tornare a casa.

Le intuizioni di uno spettatore digiuno di un certo genere cinematografico, che si richiama direttamente (i dialoghi, l’elemento estraniante di un albero ripreso in rosso, le varie immagini di Cordelia ripresa seduta in una sedia comparsa nel nulla, la maglietta insozzata di sangue senza causa apparente) o indirettamente (la stessa trama, l’uso di una scelta di regia quasi “intrusiva”, laddove l’immagine segue quasi ossessivamente per lungo tempo sempre lo stesso soggetto, un montaggio assai scarno) al surrealismo italiano o spagnolo (Ferreri, Bunuel su tutti): le assonanze del film di Margoni con quelle dei surrealisti si spinge sul piano astratto e non necessariamente fattuale, e mantiene dei tratti originali (come l’amore o l’apprezzamento per la femminilità). Ad ogni modo, la domanda, per così dire, filosofica in un film così asciutto di contenuti da sfidare, appunto, ogni possibile filosofia, potrebbe essere quella che da molti fu ritenuta basilare: perché c’è l’essere e non il nulla? Ma nel caso dei contenuti e della forma del film di Margoni, la filosofia, racchiusa in elementi simbolici da vedere tutti nella negazione di ogni possibile elemento sostanziale (l’assenza di una trama definita e “compatta”, l’assenza di un senso dei dialoghi in relazione ad un contenuto che si dispiega nel tempo, l’assenza di “personaggi” ma solo di “marionette”), potrebbe più compiutamente essere ribaltata come in “perché c’è il nulla e non l’essere?” Il film Le figlie di Shakespeare aspettano, nonostante le apparenze, è frutto di un simbolismo piuttosto asciutto, ma, ciò non dimeno, potente (la montagna come simbolo di isolamento – positivo o negativo in base alle reazioni e relazioni dei personaggi -; il bosco come simbolo di un’uguaglianza ideale di principio, dove ciascun elemento è indiscernibile da tutti gli altri e, così, rende impossibile distinguerlo e distinguersi, rendendo il tragitto una continua ricerca della “via”; la presenza di una strada che si fa man mano che si cammina, senza nessuna programmazione e progettazione preliminare). Tuttavia, molta dell’arte simbolica si sostanzia sui rimandi a cui i simboli vogliono giungere, afferrando il concetto attraverso un rimando ipertestuale. Nel caso dell’opera di Margoni, invece, ogni simbolo non rimanda a una sostanza altrimenti inattingibile, ma solo ad un livello superiore di vuotezza, quasi a mostrare che il simbolismo non è niente di più di una forma sofisticata di nichilismo, nichilismo esteticamente (ma, forse, anche moralmente) inteso.

Un tema interessante è quello dell’antiborghesità di principio del cinema di Margoni. La forma dell’antiborghesità si rivela nella forma di un cinema privo di elementi che possono aiutare la visione del film da parte di un pubblico che non disponga già di una preinterpretazione della “storia” in modo analogo a quella dello sceneggiatore-regista. Nella sostanza ciò si traduce nell’assenza di elementi borghese-centrici, come la vita di una famiglia, come la storia di un amore o come le motivazioni classicamente “medie” dei singoli uomini. D’altra parte, l’assenza di una trama è già un elemento prodigiosamente anticonvenzionale e, di certo, non comune a gran parte del cinema di massa contemporaneo e non contemporaneo.

Ogni elemento del film di Margoni sembra sfidare le intuizioni comuni, che vogliono una visione “borghese” dell’atto cinematografico. L’assenza di un complesso organico rende la disorganicità un elemento programmatico, quasi che nello spogliare l’elemento artistico di ogni parvenza, di ogni ammiccamento, bello o brutto, si ritrovi una sorta di sobria purezza, sulla quale si può parlare a lungo, ma solo a condizione che la si sia colta per via puramente intuitiva ed empatica. Sul piano formale, dunque, la costruzione del film segue l’evolversi di “non eventi”, grazie ai quali è ancora possibile ancorare la propria immaginazione, sebbene sia probabile che non tutti siano così incuriositi dal sapere “come finirà”, giacché, dopo un’ora di riprese il gioco del “manichino nelle vesti di un signore” si è ormai radicato e rivelato anche alla mente meno propensa a tale genere di visione. Sul piano sostanziale, ancora una volta, è un film che lascia aperta la questione del nulla rispetto all’essere, sia esso inteso come elemento artistico, morale o semplicemente umano: i personaggi sembrano delle marionette nelle mani di un destino che le riporta casualmente nella “via” precedentemente perduta, via che, d’altronde, le aveva condotte ad una simbolica “perdizione errabonda”, nella quale finiscono per ritrovarsi nuovamente perché nulla nel film lascia presagire un cambiamento interiore nella psicologia dei personaggi, laddove nessun personaggio sembra essere caratterizzato da qualche psicologia particolare, ma sembra possedere solo delle disposizioni comportamentali piuttosto astratte (caso emblematico quello di Cordelia). Nessuna ragione per agire, anche quando viene spiegato il motivo per cui le ragazze si ritrovano isolate sulla montagna: inverosimile quanto futile il motivo per poter credere che ci sia un psicologismo realista anche solo di sfuggita. Dunque, anche nella caratterizzazione dei personaggi si assiste allo svuotamento sistematico, mostrando, forse, come in ultima analisi nessuno è veramente padrone del proprio destino perché non esiste nessun destino. La recitazione delle quattro attrici è variamente uniforme, con qualche apice e con qualche incertezza, perdonabile giacché non doveva essere facile riuscire nella decostruzione della propria psicologia fino ad un annullamento quasi trascendentale. Interessante e da segnalare la recitazione dell’unico attore.

Due parole, per il montaggio. Il taglio del regista si ritrova anche in sede di montaggio, laddove lunghi piani sequenza lasciano allo spettatore la sensazione di lunghe dilatazioni temporali fino alla perdita di ogni intuizione temporale in senso kantiano: il trascorrere degli istanti temporali si perde per una percezione più globale e meno dettagliata dell’elemento che scorre. L’assenza di macro e microeventi nella trama, la scelta di lunghi piani sequenza riesce nell’operazione di decostruzione del tempo interno al film, giacché si finisce per pensare che non esista il tempo in uno spazio d’azione così vuoto. Non solo il montaggio è ridotto all’osso, cioè all’alternarsi di piani sequenza (salvo eccezioni, come la scena “surreale” di Cordelia, o delle ragazze che guardano all’orizzonte), ma sembra essere solo il frutto di un’intenzione ancora una volta appiattente sul piano della percezione del film, così da rendere allo spettatore la piena asciuttezza di un’idea sostanziale, nei modi precedentemente definiti.

Le figlie di Shakespeare aspettano è indubbiamente un film ostico, cerebrale e antintellettuale allo stesso tempo; ancor di più: massimamente antiintellettuale e proprio per questo da situare in un cinema per “intellettuali cinematografici”, un paradosso apparente che accomuna il cinema di Margoni a quello di altri intellettuali antiintellettuali (Pasolini, Fellini, i già citati Ferreri e Bunuel) adatto, cioè, ad un pubblico estremamente scelto, capace di accettare le scelte ardite di un regista che ha voluto sfidare la vacuità fino alle estreme conseguenze. Un film coraggioso, coerente: una sfida vinta sul piano intellettuale da Francesco Margoni.

Margoni Francesco

Le figlie di Shakespeare aspettano

Italia 2011

Minuti: 86′.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

Be First to Comment

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *