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Lo scandalo “Datagate”. Ovvero: “Tanto rumore per nulla”.

Dopo circa tre anni [l’articolo è stato scritto nel 2012 N.d.R.], assistiamo al secondo “psicodramma” che vede per protagonisti i Servizi di intelligence (soprattutto degli Stati Uniti) e i palazzi del potere di mezzo mondo. Dopo lo scandalo “WikiLeaks”, che ha visto come “mattatore” assoluto sul palcoscenico Julian Assange – e come vittima sacrificale il soldato Manning, “gola profonda” dello scandalo e, per il momento, unico condannato (35 anni di carcere) – un altro dipendente del governo americano, sempre nel nome dei più nobili diritti alla libertà di informazione e alla trasparenza, ha deciso di vuotare il sacco (ma fino a che punto?) e di lanciare il sasso nello stagno diffondendo informazioni classificate ad alcuni organi di stampa e quasi certamente – cosa più preoccupante per l’amministrazione USA – ad altri Servizi di intelligence di Paesi non proprio “amici”. Come tutti i sassi lanciati in uno stagno provocano, lì per lì, un allarme generale tra anfibi, rettili e uccelli che abitano l’ecosistema, per poi tornare in breve tempo alla “stagnazione” tipica dell’ambiente palustre, così, in proporzione più ampia, le rivelazioni dell’analista informatico della NSA (National Security Agency, l’agenzia di intelligence statunitense che si occupa di SIGINT e ELINT – Signal e Electronic Intelligence), Edward Snowden, hanno provocato un’altra tempesta in un bicchier d’acqua, tanto eclatante quanto, alla resa dei conti, inconsistente, con reazioni che hanno oscillato tra i toni melodrammatici del Presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, a quelli battaglieri, tipici della grandeur francese, dell’inquilino dell’Eliseo, François Hollande, passando attraverso una oramai tristemente tipica via di mezzo (che forse vorrebbe ispirarsi alle teorie di Guicciardini, me ne è solo una brutta copia, o meglio, un’errata interpretazione) delle autorità italiane, e il più coerente e decoroso silenzio di quelle britanniche.

Da alcuni anni assistiamo ad una sovraesposizione mediatica dei Servizi di intelligence, con i riflettori dei media – ma anche cinema, “fiction” ecc. – che sempre più frequentemente si accendono su un’attività che invece, per sua natura, dovrebbe svolgersi nell’ombra. In merito a quanto questi ultimi scandali siano causa o effetto di questa spettacolarizzazione dell’attività di intelligence, al momento sospendiamo il giudizio, così come sulla valutazione della sincerità o ipocrisia delle reazioni dei governi coinvolti nella vicenda, nonché sull’ambiguità che emerge prepotente nei rapporti tra “vittime e carnefice” nei retroscena dello psicodramma in questione.

Tracciamo allora un sia pur breve excursus delle tappe fondamentali di questa vicenda, per poi passare ad alcune considerazioni sui problemi e le criticità che da essa emergono.

Va detto innanzitutto che il recente scandalo noto come “Datagate” è solo l’ultimo di una serie di scandali che si sono abbattuti sull’amministrazione Obama dall’inizio del secondo mandato (tralasciamo quindi lo scandalo “WikiLeaks”, iniziato alla fine del 2009), tanto che questo secondo mandato sembra contrassegnato, almeno in questa fase iniziale, da una vera e propria “iattura”:

  • alcuni ispettori del fisco sembrano accanirsi su alcune ONG (organizzazioni non governative) legate al “Tea Party” che, dietro la facciata di associazioni filantropiche senza fini di lucro, scaricano fiscalmente le donazioni dei sostenitori, diventando così veri e propri strumenti di finanziamento dei conservatori;
  • l’attentato terroristico dell’11 settembre 2012 contro il Consolato USA a Bengasi non è solo costato la vita ad un diplomatico e a tre funzionari americani, ma anche la carriera ad alcuni importanti esponenti dell’amministrazione e degli apparati di sicurezza statunitensi: primo tra tutti, il direttore della CIA, Generale David Petraeus, “silurato” con il pretesto di una relazione clandestina con la sua biografa, ma in realtà per non aver dato il giusto risalto al ruolo di al-Qaeda nella pianificazione ed esecuzione del suddetto attentato (come sostenuto dai Repubblicani); il Segretario di Stato Hillary Clinton si è salvata “per il rotto della cuffia”, e il Gen. Petraeus ha pagato per tutti;
  • viene diffusa la notizia che l’intelligence americana tiene sotto controllo i telefoni dell’importante agenzia di stampa “Associated Press”, per carpire le informazioni che i giornalisti ottengono dalle loro “fonti” (che per deontologia professionale dovrebbero rimanere riservate) riguardo l’attività terroristica di al-Qaeda nello Yemen.

Alla luce di quanto detto, il terreno politico (e l’opinione pubblica) sembra sufficientemente fertile per accogliere il seme di un nuovo e più eclatante scandalo.

Partiamo dal protagonista.

Edward Snowden, ventinovenne analista della NSA, “genio” del computer pur non avendo completato le scuole superiori (secondo alcune fonti le avrebbe completate privatamente), dopo un’esperienza fallimentare nelle Special Forces nel 2003 (si frattura entrambe le gambe durante un’esercitazione) viene congedato, ma un anno dopo, in virtù della sua competenza nel settore informatico, viene “arruolato” dalla CIA; passa quindi alla NSA, facendo la spola con società che collaborano con la suddetta agenzia nel settore dello spionaggio informatico. Le sue responsabilità aumentano, come il suo stipendio, e, a 29 anni, si ritrova a guadagnare 200.000 dollari all’anno. Lavora alle Hawaii e convive con la sua bella fidanzata in una confortevole villa sul mare, vicino Honolulu. Cosa volere di più, a 30 anni non ancora compiuti?

Ma Snowden è uno spirito inquieto e, il 1° maggio di quest’anno, chiede ai suoi superiori un permesso di un paio di settimane per curarsi una recrudescenza di epilessia, che lo aveva afflitto in passato; alla sua ragazza racconta un’altra bugia e, il 20 maggio, parte per Hong Kong, portandosi appresso il computer con una quantità di file pieni di informazioni classificate. Giunto a destinazione, contatta il Guardian e il Washington Post e comincia a “cantare”.

Il 5 giugno, il Guardian pubblica le prime rivelazioni di Snowden (nome in codice, Verax – “colui che dice la verità”, in latino). La NSA, attraverso una serie di programmi (il più importante dei quali si chiama PRISM), e con la complicità di “big-data” (i giganti del settore informatico, come Google, Microsoft, Facebook, Yahoo!, Skype, Youtube, Apple – eccetto Twitter) e di Verizon (il più grande gestore di telefonia degli Stati Uniti) controlla e registra milioni di telefonate, e-mail e connessioni a siti internet di cittadini americani, da e per l’estero: un vero e proprio “Grande Fratello” – nell’accezione orwelliana del termine – di fronte al quale il diritto alla privacy sembra ridursi ad un mero pretesto per speculazioni astratte da parte di filosofi e giuristi che hanno tempo da perdere.

L’amministrazione Obama cerca di correre ai ripari, affermando che si tratta di una misura ineludibile nella lotta contro il terrorismo internazionale, e che grazie ad essa sarebbero stati «sventati almeno tre attacchi»; ma questo non le evita le ironie dei Repubblicani, i quali affermano che il secondo mandato di Obama «è il quarto mandato di Bush», e le pesanti critiche del New York Times che scrive: «Obama ha perso ogni credibilità».

Il tutto, mentre è ancora in corso la visita ufficiale del Presidente cinese Xi Jinping negli Stati Uniti, durante la quale, manco a farlo apposta, Obama ha “garbatamente” rimproverato il suo ospite per i frequenti “attacchi informatici” operati dai cinesi contro siti governativi e militari americani.

Snowden – che nel frattempo, il 9 maggio, è uscito allo scoperto rivelando la sua vera identità – non si lascia sfuggire l’occasione per rincarare la dose e affermare, sempre dalle colonne del Guardian, che la Cina è uno dei bersagli preferiti dello spionaggio cibernetico americano, e che buona parte delle 61.000 operazioni di “hackeraggio” messe in atto dall’intelligence statunitense contro i siti cinesi riguardano obiettivi civili. Facile immaginare, a questo punto, l’imbarazzo del Presidente Obama, colto con le mani nel sacco proprio mentre stava bacchettando quelle del suo omologo cinese, da una parte, e, dall’altra, la soddisfazione di Xi Jinping che ha potuto “guardare dall’alto in basso” chi pretendeva di dargli lezioni di bon ton spionistico-telematico.

Intanto il governo americano, se da un lato cerca di limitare i danni di immagine – e, in prospettiva, diplomatici – affermando che, grazie al sistema di intercettazione della NSA, sono stati sventati 50 attentati in 20 Paesi, anche europei (ma non in Italia, come dichiarato dai portavoce dei nostri Servizi), dall’altro passa al contrattacco contro la persona di Snowden, accusandolo di alto tradimento e facendo filtrare la voce di una sua collaborazione con i Servizi di intelligence di Pechino. Snowden naturalmente smentisce ogni addebito, mentre incassa il sostegno del governo dell’Ecuador, che gli offre asilo politico – si ricorda che proprio nell’Ambasciata dell’Ecuador a Londra si è rifugiato il protagonista dello scandalo “WikiLeaks”, Julian Assange, strenuo sostenitore (anche materialmente, avendogli messo a disposizione il suo avvocato) di Edward Snowden. Gli USA, inoltre, chiedono ufficialmente alle autorità cinesi l’estradizione di Snowden.

La Cina, come è prevedibile, respinge la richiesta americana.

Il 23 giugno, con la benedizione del governo di Pechino, Snowden, accompagnato da Sarah Harrison, avvocato di WikiLeaks, si imbarca su un volo Aeroflot e, dopo qualche ora, sbarca all’aeroporto Sheremetevo di Mosca. Qui, una macchina dell’Ambasciata ecuadoregna, scortata da due auto dei Servizi russi, preleva sottobordo Snowden, appena sbarcato dall’aereo, per portarlo all’hotel “Capsule”, nell’area transiti dell’aeroporto, dove l’ambasciatore dell’Ecuador formalizza l’offerta di asilo.

A questo punto, la reazione di Washington si fa rabbiosa; non solo perché i suoi Servizi di intelligence, che stavano braccando Snowden, sono stati beffati una seconda volta (la prima con la “diserzione”) da quest’ultimo – non senza il determinante supporto dei Servizi di Cina e Russia – ma anche, e soprattutto, perché con l’”affare Snowden” gli Stati Uniti devono registrare una preoccupante convergenza di interessi da parte dei due Paesi sopra citati – Paesi con i quali, per motivi diversi di cui in questa sede non entreremo nel merito, soprattutto negli ultimi tempi i rapporti si erano sensibilmente deteriorati (per non parlare del riavvicinamento tra Mosca e Pechino, da sempre diffidenti, per non dire ostili, nei confronti l’una dell’altra – con buona pace del Patto di Shangai). Tra l’altro, l’”affare Snowden” costringe gli USA a scoprire il fianco su una serie di questioni che tradizionalmente invece costituivano il loro punto di forza nei contenziosi con questi Paesi: prima tra tutte, la difesa dei diritti umani, con i governi di Mosca e Pechino che possono finalmente presentarsi come difensori di un “povero idealista perseguitato dai cattivi americani”, con il relativo corollario del diritto alla privacy, in merito al quale Putin può far passare il suo SORM (il sistema di intercettazione russo, utilizzato soprattutto in funzione anti-dissidenti) come un contraltare dell’americano PRISM, e le autorità di Pechino, dopo le rivelazioni di Snowden sui milioni di sms cinesi intercettati dalla NSA, possono togliersi la soddisfazione di affermare esplicitamente: «Gli Stati Uniti si fingono vittime, ma sono i più grandi fuorilegge dei nostri tempi».

A questo va aggiunto che i governi di Russia e Cina hanno approfittato dell’occasione per ricompattare l’opinione pubblica di ciascun Paese intorno ai rispettivi regimi: i popoli russo e cinese accolgono sempre con favore qualunque iniziativa dei rispettivi governi contro gli “storici” nemici americani.

Certo, vedere Putin – ex-colonnello del KGB in Germania Orientale durante l’epoca sovietica, e successivamente direttore dell’FSB nella Russia di Boris Eltsin – e il governo cinese – che tuttora mantiene in piena attività i famigerati “campi di rieducazione” per i dissidenti – presentarsi come paladini dei diritti umani è un po’ come immaginarsi Jack lo Squartatore che vuole spacciarsi per difensore dei diritti delle donne; ma tant’è: in politica è un fenomeno molto più frequente di quanto si immagini, a tutte le latitudini!

La richiesta di estradizione avanzata dagli USA presso il governo russo viene accolta con un ironico atteggiamento di sufficienza, così come le furiose minacce da parte di Washington, ai limiti dell’isteria, di terribili ripercussioni di un eventuale rifiuto sui futuri rapporti tra i due Paesi. La reazione di Putin è improntata ad un olimpico (e provocatorio) distacco, tipico di chi sa di avere il coltello dalla parte del manico: «Purtroppo Snowden, essendo passeggero in transito, non si trova ufficialmente sul suolo russo».

Ciò che più preoccupa le autorità statunitensi è che il governo russo possa barattare l’asilo politico a Snowden in cambio di preziose informazioni segrete; preoccupazione più che fondata, dal momento che gli agenti dei Servizi russi non lo hanno lasciato un attimo da quando è sbarcato a Mosca.

A questo segue un “balletto” di voci, conferme, smentite di un’imminente partenza di Snowden alla volta di Quito (capitale dell’Ecuador), passando per La Habana (il cui governo, va sottolineato, ha sempre tenuto un profilo bassissimo nel corso dell’intera vicenda, senza mai compromettersi o sbilanciarsi, per non pregiudicare le delicate manovre di riavvicinamento con gli Stati Uniti), che sfociano addirittura in un incidente diplomatico quando, il 3 luglio, al “Falcon” che riporta in patria il Presidente boliviano Evo Morales, in visita a Mosca, viene impedito l’ingresso nello spazio aereo di Francia, Italia, Spagna e Portogallo, per il sospetto che a bordo ci sia Snowden, costringendo il velivolo ad uno scalo d’emergenza a Vienna.

Mentre Mosca indugia, con evidente compiacimento, sull’opportunità di estradare o meno Snowden, tenendo Washington sui carboni ardenti, l’ex-analista della NSA “cala un asso” (uno dei tanti che sembra avere): attraverso il Guardian e il tedesco Der Spiegel fa sapere che la NSA tiene costantemente sotto controllo molte sedi diplomatiche, di Paesi europei e non solo, a Washington e a New York (presso le Nazioni Unite), non solo intercettandone le comunicazioni, ma anche facendo ricorso a dispositivi di intercettazione ambientale, come microfoni nascosti e un dispositivo per leggere le comunicazioni criptate via fax. Sarebbero 38 i “bersagli” delle attenzioni della NSA, tra cui le ambasciate di Italia, Francia e Grecia, oltre agli uffici di rappresentanza dell’Unione Europea, per quanto riguarda l’Europa, e poi Giappone, Messico, India, Turchia, Corea del Sud ecc.

Ma non è tutto! Le intercettazioni delle comunicazioni non riguardano solo le sedi diplomatiche, ma il territorio dei Paesi stessi. Secondo quanto riportato da Der Spiegel, l’intelligence americana ha diviso i Paesi alleati in tre categorie:

  • prima: gli Stati Uniti;
  • seconda: Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda, ovvero i Paesi anglosassoni, alleati storici degli USA, e per questo esclusi dalle intercettazioni delle comunicazioni – da sottolineare che questi Paesi costituiscono i cardini dell’oramai famoso sistema globale di intercettazione “Echelon”;
  • terza: tutti gli altri Paesi europei, che possono essere sistematicamente spiati.

Tra i Paesi di quest’ultima categoria, spicca la Germania, con una media di 500 milioni di telefonate e comunicazioni via internet intercettate dall’intelligence americana ogni mese – in particolare Francoforte, sede della Banca Centrale Europea e della Bundesbank. Segue la Francia, con una media di 60 milioni di intercettazioni al mese. Per quanto riguarda l’Italia, nella seconda decade di dicembre 2012 si è registrata una media record di 4 milioni di intercettazioni al giorno, con un picco di 8 milioni di telefonate intercettate il 7 gennaio 2013.

A questo punto, di fronte all’imbarazzo montante da entrambe le parti – (presunti) “spioni” e (presunti) spiati – si registra un’oscillazione nell’interpretazione dei fatti e nelle relative prese di posizione da parte dei politici, che va dalla cauta dichiarazione di un normale scambio di informazioni tra Servizi “amici” (sul significato che questa parola assume nel mondo dell’intelligence torneremo più avanti) nel settore del terrorismo internazionale in nome della sicurezza preventiva – soprattutto dopo l’11 settembre 2001 – e nel rispetto della privacy dei cittadini europei, alle manifestazioni di (palesemente falsa) indignazione da parte dei portavoce di alcuni governi europei, in particolare francesi ma anche tedeschi, che raggiungono l’apice con le melodrammatiche dichiarazioni del Presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz: «Sono scioccato…mi sento trattato come un nemico. È sconvolgente che gli Stati Uniti possano prendere contro il loro alleato più stretto misure compatibili con quelle messe in pratica dal KGB nell’Unione Sovietica ai tempi della “guerra fredda”…Lo chiedo al governo americano: siamo dei nemici?». Sarebbe opportuno ricordare al Presidente Schulz che il primo obiettivo del KGB, durante la “guerra fredda”, erano proprio i partiti comunisti dei Paesi dell’Europa occidentale  (per non parlare di quelli dei Paesi “satelliti”), non semplicemente alleati, ma “fratelli” (nell’accezione che il termine può avere in politica), in nome della comune adesione all’ideologia marxista.

Il tutto, passando attraverso il trait d’union costituito dalle dichiarazioni dei partiti di opposizione, in Germania ma anche in Italia, che paventano l’ipotesi di una “complicità” dei Servizi europei, e relativi governi, nel “lasciarsi spiare”.

Ma, una volta iniziata la commedia, gli attori devono continuare a recitare la parte fino in fondo, sia pure controvoglia: alle virulente affermazioni del Presidente Hollande (che approfitta anche di questa occasione per riguadagnare il terreno perduto dalla grandeur francese in ambito internazionale)  fanno da contraltare quelle, un po’ più misurate, di Stefen Seibert, portavoce di Angela Merkel. Il cardine della disputa è il trattato di libero scambio tra Europa e USA, la cui stipula è imminente, che rischierebbe di saltare (il condizionale è d’obbligo) a causa della “perfidia” degli Stati Uniti a fronte della “lealtà” e della “sincerità” degli europei. Commovente, vero?

Dalla “fermezza” di queste prese di posizione si distaccano da una parte il governo britannico, dall’altra quello italiano:

  • il governo britannico oppone all’intera vicenda un dignitoso e coerente silenzio, in virtù dell’oramai storica alleanza con l’ex-colonia d’oltre Oceano;
  • il governo italiano adotta la oramai consueta “via mediana”, evitando prese di posizione nette e sbilanciamenti di ogni sorta, confidando ciecamente nelle risposte “sicuramente soddisfacenti” che gli USA sapranno fornire agli interrogativi degli europei.

In questa altalena di dichiarazioni e prese di posizione, il 1° luglio Vladimir Putin può compiacersi nel “girare il coltello nella piaga”, oramai sanguinante, di Barak Obama, affermando ironicamente, a seguito della richiesta ufficiale di Snowden di asilo politico alla Russia: «Certo che può restare. Ma solo se promette di non creare più problemi ai nostri partner americani». Dichiarazione tanto più irritante per l’amministrazione americana, quanto più si considera che, dal suo arrivo a Mosca, Snowden è costantemente sotto l’ala “protettiva” dei Servizi di intelligence russi. Il 12 luglio poi Putin rincara la dose dichiarando che «Bisogna salvare quel giovane dalla sicura condanna a morte negli USA»; è evidente che non gli pare vero di presentarsi come paladino dei rifugiati politici.

In questo scenario, Snowden si diverte a “snocciolare”, con studiato tempismo, ulteriori dettagli sulle attività investigative della NSA a danno delle sedi diplomatiche estere in territorio americano; in particolare, per quanto ci riguarda, il nome in codice dell’Ambasciata italiana presso le Nazioni Unite è “Cicuta”, mentre quello della nostra Ambasciata a Washington è “Bruneau” o “Hemlock” (“cicuta”, in inglese).

Intanto la Francia continua a fare la voce grossa minacciando di far naufragare il negoziato sul libero scambio tra USA e UE, ma guardandosi bene dal mettere in pratica la suddetta minaccia, tant’è che l’8 luglio (data di apertura dei negoziati), ufficialmente dietro pressioni della Germania, la Francia sarà presente: in effetti, far saltare un accordo che, sulla carta, prevede due milioni di nuovi posti di lavoro, solo perché un agente della NSA, a suo dire in preda a scrupoli di coscienza, ha deciso di svelare il “segreto” che gli USA spiano i propri alleati – che, come ben sanno gli addetti ai lavori, è il “segreto di Pulcinella” – è una responsabilità difficile da assumersi – oltre che poco credibile!

Col passare del tempo, anche alla luce dell’impossibilità di trasferire Snowden incolume dalla Russia all’America Latina (dove vari Paesi sono disposti ad accoglierlo), si fa sempre più concreta l’ipotesi dell’asilo politico concesso dalla Russia. La reazione della Casa Bianca è immediata e rabbiosa: Obama minaccia gravissime ripercussioni nei rapporti tra i due Paesi, tra cui il boicottaggio del G-20 dei primi di settembre a San Pietroburgo.

Alla fine, “tanto tuonò che piovve!”: all’alba del 2 agosto, la Russia concede ufficialmente un asilo politico provvisorio (un anno) a Snowden; quest’ultimo lascia finalmente, dopo 39 giorni, l’area transiti dell’aeroporto Sheremetyevo – ammesso che ci abbia passato anche un solo giorno: è molto più realistico che fin dall’inizio sia stato “custodito” dai Servizi russi in un luogo segreto, probabilmente alla periferia di Mosca – con l’impegno di non uscire dai confini del Paese. Obama, a questo punto, annulla il summit con Putin previsto per la fine di agosto, prima del G-20; ma questo atteggiamento aggressivo e intransigente appare addirittura controproducente se è vero, come affermano fonti attendibili, che, nel corso di un colloquio telefonico segreto tra i due Presidenti, Putin avrebbe detto a Obama che «La Russia è stata costretta in un angolo dall’aggressività americana, che ha impedito in ogni modo il trasferimento di Snowden in un altro Paese». Al di là di ogni considerazione, non ci vuole un cremlinologo per sapere che Putin non è certo uomo da lasciarsi spaventare da chi fa la voce grossa, anche (e, soprattutto, a maggior ragione) se questa viene da Washington. Il Presidente russo ha incassato addirittura il consenso di noti dissidenti e oppositori: a ulteriore conferma che il “vecchio nemico esterno” catalizza sempre il consenso intorno al regime all’interno.

Verso la metà di agosto, Obama cerca di ricucire il rapporto di fiducia con gli americani – peraltro, mai seriamente compromesso, almeno in merito allo “scandalo” Datagate, che è stato tale solo per gli europei: gli americani sono molto più disposti a rinunciare alla loro privacy, se gli si racconta che è nell’interesse della sicurezza nazionale – e convoca un vertice con i giganti della Silicon Valley per mettere a punto nuove misure di intercettazione dei dati, all’insegna della “trasparenza”. Praticamente, una contraddizione in termini!

Nel frattempo, Snowden “spara le ultime cartucce” (almeno quelle attraverso la stampa: dei suoi colloqui con gli agenti dei Servizi russi, che lo hanno preso in consegna dal suo arrivo a Mosca, non è dato sapere), anche stavolta mirate a compromettere i rapporti tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Secondo un documento pubblicato da Der Spiegel, l’UE sarebbe in cima alle “attenzioni” dei Servizi di intelligence americani: in particolare Germania e Francia, seguite a breve distanza da Italia e Spagna. Secondo il documento, i Servizi USA hanno attribuito a ciascun Paese un punteggio da 1 a 5, in ordine decrescente di “interesse”: al primo posto ci sono, come è prevedibile, Paesi come Cina, Russia, Iran, Pakistan, Corea del Nord, Afghanistan. In Europa, Francia e Germania sono a quota 3 (come il Giappone, in Asia); seguono a un punto di distacco Italia e Spagna. Il Vaticano, con un punteggio di 5, sembra non suscitare alcun interesse per l’intelligence USA.

Il 17 settembre, a seguito dell’ennesima “rivelazione” di Snowden, ha suscitato un moderato scalpore la netta presa di posizione della Presidenta del Brasile, Dilma Rousseff, che, per protesta contro le intercettazioni attuate dalla NSA a danno delle sue comunicazioni e, soprattutto, della compagnia petrolifera statale Petrobras, ha annullato la visita ufficiale negli Stati Uniti prevista per il 23 ottobre.

I campionati mondiali di atletica leggera a Mosca e, soprattutto, l’aggravarsi del conflitto in Siria, con gli attacchi con aggressivi chimici – la cui paternità è ancora da stabilire! – hanno finalmente steso un velo di silenzio sullo scandalo Datagate. Per quanto riguarda il vertice del G-20 a San Pietroburgo, sappiamo bene come è andata a finire: la gravità e l’urgenza della crisi siriana hanno avuto, giustamente, il sopravvento sulle ripicche. Ma è lecito supporre che i toni della vicenda si sarebbero andati comunque abbassando, nell’interesse di tutte le parti in causa.

La vicenda di cui abbiamo tratteggiato sommariamente i contorni appare paradigmatica di alcuni rapporti che intercorrono tra intelligence e politica; una sorta di “caso clinico” da cui emergono problemi e criticità in questa delicata zona grigia, tra il dire, il non dire e il lasciar intendere: questioni strettamente inerenti al caso in esame, ma che possono dare adito anche a considerazioni di carattere più generale. Essendo argomenti che meriterebbero, ciascuno, un’ampia trattazione specifica, anche in questo caso ci si limiterà a definirne i caratteri essenziali, riservandosi di entrare eventualmente nel merito in un secondo momento.

Partiamo allora da alcuni temi a cui si è accennato in apertura di questo lavoro.

Da alcuni anni a questa parte si assiste ad una progressiva “spettacolarizzazione” del mondo dell’intelligence; tralasciando la tradizionale narrativa di genere spionistico, ci si riferisce in particolar modo al cinema e alla televisione. La storia parte da lontano, con film e serie televisive che, pur dovendo sottostare alle leggi imposte dall’audience e dalle tecniche narrative dell’universo audio-visivo, riescono a mantenere una certa fedeltà con la realtà che vogliono narrare (poche), fino a ai prodotti spy-fanta-action, in cui lo spionaggio si riduce a mero pretesto per enfatizzare effetti speciali, nel migliore dei casi, o a una volgare orgia di violenza e sesso gratuiti, nel peggiore (molte). Sia pure con modalità più sfumate ed ironiche, quest’ultimo filone può essere fatto risalire alla saga di 007, il cui successo è direttamente proporzionale soltanto alla inverosimiglianza delle vicende narrate, al punto da spingere un uomo che di intelligence se ne intendeva, come il Presidente Emerito Francesco Cossiga, ad osservare causticamente che, nel mondo reale, un agente che si fosse comportato come James Bond sarebbe stato arrestato anche da un semplice vigile urbano.

Alcuni sevizi di intelligence hanno addirittura utilizzato film e, più di recente, fiction televisive, per costruire il proprio mito, spesso andando ben al di là delle loro effettive capacità operative; ci si riferisce in particolare ai Servizi degli Stati Uniti (CIA, e a seguire FBI e NSA) e di Israele (soprattutto MOSSAD), che con i loro “eroi” hanno monopolizzato per anni la produzione cinematografica. Negli ultimi anni anche la Francia si sta distinguendo, con una cospicua produzione di film che celebrano le glorie, vere o presunte, della DGSE.

Non me ne vogliano gli aficionados di questo genere di pellicole; loro non hanno alcuna colpa. Il problema è che questa esasperata spettacolarizzazione dell’intelligence tende inevitabilmente a catalizzare l’attenzione e l’interesse – non supportati dalle necessarie competenze – dell’opinione pubblica su un mondo che, per sua natura e missione, deve rimanere celato nell’ombra (altro che “tecniche di comunicazione” e “G-men”!). Se a questo si aggiunge anche l’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa (stampa, televisione, internet ecc.), sempre a caccia di scoop, “la frittata è fatta”, perché questo può indurre alcuni operatori dei Servizi, per i motivi più disparati (dai rancori personali alla sete di denaro e via dicendo) a rivolgersi ai media per utilizzarli come cassa di risonanza per le proprie rivendicazioni, o come veri e propri strumenti di ricatto nei confronti dei Servizi di appartenenza – il tutto, naturalmente, sempre nel nome delle più nobili cause.

Questo rapporto di reciproco (e “morboso”) interesse tra Servizi di intelligence e media può anche rappresentare lo sfondo (ma non la causa) del recente allarme anti-terrorismo del luglio scorso, lanciato dai Servizi USA in merito al pericolo di un imminente attacco terroristico da parte di al-Qaeda contro sedi diplomatiche americane in varie regioni del mondo. Chiunque abbia frequentato gli ambienti dell’intelligence sa bene che, se l’allarme è vero, l’ultima cosa da fare è divulgare la notizia, sempre in virtù di quell’ombra che deve avvolgere le attività dei Servizi – oltre che per non creare il panico nella popolazione, che sarebbe già un obiettivo conseguito dai terroristi (a meno che l’obiettivo dei Servizi, e dei relativi governi, non sia proprio quello di creare il panico; ma non entriamo nel merito). Per quanto riguarda quest’ultimo allarme – che, come era prevedibile, è risultato infondato – la vera ragione va probabilmente cercata proprio nelle pieghe dello scandalo Datagate, soprattutto quando le autorità americane hanno lasciato filtrare la voce che i Servizi avevano ottenuto l’informazione proprio attraverso le tanto vituperate intercettazioni – come a volersi costruire un alibi e una giustificazione dell’operato della NSA di fronte alla protesta montante.

Una brevissima parentesi a proposito di un problema che a più riprese è emerso negli ultimi anni, e nei confronti del quale i Servizi di intelligence americani sembra continuino a “fare orecchie da mercante”. All’indomani dell’attentato dell’11 settembre, qualcuno aveva giustamente osservato che la mancata prevenzione non era ascrivibile ad una mancanza di informazioni (l’intelligence americana era in possesso di migliaia di intercettazioni telefoniche e telematiche che riconducevano alla pianificazione dell’attentato in questione), bensì ad un deficit di analisi. Questo ha portato a considerare l’eccessiva enfasi che l’intelligence contemporanea pone sullo spionaggio tecnologico, elettronico e delle telecomunicazioni (SIGINT e ELINT), a danno del più classico, “economico” e, alla resa dei conti, efficace “spionaggio umano” (HUMINT). Tra l’altro, SIGINT e ELINT, oltre ad essere estremamente costose, presentano anche un punto debole particolarmente grave in un mondo dove la segretezza è un dogma: infatti, tutto ciò che si trova su un supporto informatico, con maggiore o minore difficoltà, può essere violato. Se ne sono resi conto anche a Mosca, visto che all’inizio dell’anno l’FSB ha acquistato un migliaio di faldoni per raccogliere e ordinare materiale cartaceo e, un paio di mesi fa, l’FSO (il Servizio di intelligence interna) ha ordinato venti macchine da scrivere elettriche di fabbricazione tedesca. Il MOSSAD lo aveva già capito quando, più di dieci anni fa, aveva provveduto a “ripulire” tutti i suoi computer dal materiale riservato, e a trasferirlo sulla vecchia, ma meno accessibile, carta.

Veniamo adesso ad un elemento essenziale emerso nel corso dello scandalo Datagate: l’ipocrita ostentazione di ingenuità e di innocenza da parte delle autorità dei Paesi “bersaglio” delle intercettazioni (non di tutti, e con differente intensità). Gli esponenti dei governi europei e dell’Unione Europea che si sono strappati le vesti gridando allo scandalo – volendo passare come povere vittime di un’imperdonabile macchinazione ordita dagli americani ai loro danni, e invocando il rispetto dei rapporti di “amicizia” tra i loro Paesi (e i relativi Servizi)  e gli Stati Uniti – si sono esposti al ludibrio di chiunque abbia un briciolo di dimestichezza con le relazioni internazionali. Se, in politica, il concetto di “amicizia” ha un senso solo come strumento propagandistico e come “norma di linguaggio” da utilizzare nelle dichiarazioni ufficiali di fronte ai giornalisti (anche se poi, negli incontri a porte chiuse, ci si è sbranati a vicenda), nel mondo dei Servizi di intelligence è addirittura un controsenso: chiunque sia “spiabile”, deve essere spiato (se non lo si fa, è perché non si è tecnicamente in grado di farlo). Non esistono “matrimoni d’amore” tra Servizi segreti, ma solo di “interesse”, o più spesso temporanee “relazioni clandestine”, finchè si ritiene che ci siano obiettivi comuni da conseguire, e poi, “nemici come prima”. Chi è amico oggi, non è detto che lo sia domani; pertanto, informazioni compromettenti raccolte sul suo conto, che al momento possono apparire inutili, in un prossimo futuro potrebbero diventare determinanti e addirittura vitali, in un eventuale capovolgimento di fronte – la storia e la cronaca sono piene di casi simili: poco prima della Prima Guerra del Golfo, ad un giornalista scandalizzato che gli faceva notare che Saddam Hussein era «un figlio di puttana», il responsabile della CIA per il Medio Oriente rispose, citando le parole che il Presidente Roosevelt pronunciò a proposito del dittatore nicaraguense Somoza: «Sì, ma è il nostro figlio di puttana»; tutti sappiamo che fine ha fatto Saddam Hussein a seguito dell’attacco americano in occasione della Seconda Guerra del Golfo.

A puro titolo di esempio, basti citare l’”incrollabile” amicizia tra Stati Uniti e Israele, che non ha impedito le periodiche espulsioni come “persone non grate” di agenti israeliani che operavano sotto copertura in territorio statunitense. Volendosi sbilanciare, chi scrive nutre anche seri dubbi sul fatto che, come risulterebbe da un documento fornito da Snowden (visto in precedenza), gli Stati Uniti si astengano del tutto dal controllare i loro “fraterni amici” anglosassoni, e dubbi ancora maggiori sul fatto che questa “cortesia” sia reciproca, conoscendo l’efficienza e la “disinvoltura” dell’MI6 britannico.

L’atteggiamento di stupore che tanti governanti europei (ma non solo) hanno ostentato (spesso, va osservato, recitando anche male la parte) di fronte alle “rivelazioni” di Snowden sulle “indebite” intercettazioni, da parte della NSA, delle comunicazioni dei Paesi “amici”, ricorda più “Alice nel paese delle meraviglie” che il “Principe” di Machiavelli – a cui un uomo politico, nel senso proprio del termine, dovrebbe ispirarsi.

In merito al grigiore e ai bizantinismi tipici delle nostre dichiarazioni in ambito internazionale (ma anche nazionale), questa volta però sorge un dubbio: ci troviamo di fronte alla tradizionale sudditanza che dal dopo-guerra contraddistingue i rapporti tra l’Italia e l’alleato americano, oppure la prudenza che trasuda dalle nostre dichiarazioni ufficiali è frutto di un ponderato calcolo politico? Infatti:

  • se siamo “vittime” dello spionaggio americano, non conviene pubblicizzarlo troppo: non ci faremmo una bella figura;
  • se siamo “collusi”, ovvero vittime consapevoli e soprattutto consenzienti, a fortiori: l’opinione pubblica potrebbe non capire i rapporti di collaborazione che legano i nostri Servizi segreti a quelli americani, e ancor meno l’eventuale decisione dei nostri Servizi di “lasciarsi spiare”, senza che gli spioni lo sappiano, nell’ottica di ottenere un non meglio precisato tornaconto, o più banalmente per evitare grane con il potente alleato.

Dal momento che, come ben sanno gli addetti ai lavori (esponenti politici e agenti dei Servizi) – e come ha efficacemente dichiarato un autorevole esponente dei Servizi britannici alla Bbc – «Nel mondo dello spionaggio tutti spiano tutti», dov’è la “notizia”? Dov’è lo “scandalo”?

E allora, volendo fare gli ingenui, sorge una domanda: in merito allo scandalo Datagate, “i meravigliati della grotta” ci sono, o ci fanno?

Ci fanno, naturalmente, anche se spesso in maniera alquanto goffa. Sebbene gli standard di selezione della classe politica dopo la fine della “guerra fredda”, in quasi tutti i Paesi, si siano notevolmente abbassati, non appare credibile che dei capi di governo possano davvero credere a quello che dicono quando, maldestramente, si scandalizzano per le rivelazioni di Snowden.

Se una “notizia” c’è – dolorosa ma non scandalosa – nella vicenda Datagate, questa consiste nel fatto che, a fronte delle ristrettezze economiche che attanagliano molti Paesi dell’Unione Europea, questi hanno dovuto “appaltare” una parte importante della propria attività di intelligence (in particolare SIGINT e ELINT) all’alleato americano. Gli USA spendono ogni anno per l’intelligence 75 miliardi di dollari, di cui 15 solo per la NSA; cifre inimmaginabili per i Paesi europei, e inarrivabili per i rispettivi bilanci. A seguito di questa triste situazione, dal momento che in politica nessuno fa niente per niente, il do ut des si è concretizzato in un tacito accordo in virtù del quale gli Stati Uniti si sentono autorizzati a spiare gli alleati europei e questi, facendo di necessità virtù, si lasciano spiare, facendo finta di non accorgersene – salvo poi cadere dalle nuvole e strapparsi i capelli quando qualche “scheggia impazzita” scoperchia la pentola.

A fronte di tutto questo, non si può non rilevare l’imbarazzo – questo sì autentico e sincero – dell’amministrazione americana che, impegnata come sempre nel dare lezioni di correttezza e di trasparenza al mondo intero, è stata colta con “le mani nella marmellata” proprio mentre stava impartendo l’ennesima lezione al Presidente cinese. Del resto non è neanche la prima volta: alcuni anni fa, a seguito della commessa ad una importante industria aeronautica americana, da parte del governo cinese, di un aereo per il servizio di stato, i sevizi di intelligence di Pechino riscontrarono, nel corso del prevedibile controllo del velivolo, la presenza di numerosissimi dispositivi di intercettazione ambientale installati dai Servizi americani. I cinesi, dando prova di autentico savoir faire, non fecero neanche finta di scandalizzarsi, limitandosi a compiacersi di aver messo in ridicolo il comportamento maldestro e l’ingenuità dei Servizi di intelligence americani, tanto celebrati dal cinema holliwoodiano.

Va obiettivamente riconosciuto che, in questo ambiente, “chi è senza peccato scagli la prima pietra”; ma, proprio perché – sempre per restare in ambito biblico – prima di guardare la pagliuzza che buca l’occhio degli altri bisogna guardare la trave che buca il proprio, sarebbe bene evitare atteggiamenti di virginale innocenza quando la nostra coscienza è sporca tanto quanto quella degli altri – e a volte anche di più! E questo non tanto in ottemperanza ai precetti di onestà e coerenza, che in questo mestiere hanno un valore relativo, quanto piuttosto perché, in questo ambiente, nessuno è innocente, e chi vuole farsi passare per tale fa solo la figura dello sprovveduto.

Come abbiamo visto, questo accade su entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico: l’incompetenza non è prerogativa di qualcuno ma oggigiorno sembra essere, ahimè, “globalizzata”, come tanti altri fenomeni della nostra società. Esemplare, a questo proposito, è l’atteggiamento della Francia che, come già ricordato, da qualche anno sta cercando di recuperare il terreno perduto in ambito internazionale provando a riconquistare, in alcuni casi addirittura manu militari, il suo ex-impero coloniale (vedasi l’interventismo in Africa occidentale, ma anche l’atteggiamento nell’area siriano-libanese). Si sa: in politica, spesso, si fa il bene perché non si è nelle condizioni oggettive per poter fare il male; come recita una bellissima canzone di Fabrizio De Andrè: «Si sa che la gente dà buoni consigli, sentendosi come Gesù nel tempio. Si sa che la gente dà buoni consigli, se non può più dare cattivo esempio». Il problema è che la Francia ha la sfrontatezza (ma in questo è in buona compagnia) di dare buoni consigli continuando a dare cattivo esempio: ricordiamo tutti quando, nel 2003, si è eretta a baluardo del diritto internazionale contro l’invasione da parte degli Stati Uniti dell’Iraq, mentre negli stessi giorni i paracadutisti della Legione Straniera aprivano il fuoco sulla folla all’aeroporto di Abidjan, in Costa d’Avorio; oppure quando i Sevizi francesi hanno affondato, in spregio a qualunque normativa del suddetto diritto internazionale, la nave Rainbow Warrior dell’organizzazione ambientalista Green Peace, nell’Oceano Pacifico; per non parlare degli abusi commessi durante la guerra in Algeria e del sistematico ricorso alla tortura. A questo proposito va sottolineato che i francesi hanno sempre fatto ricorso con una certa disinvoltura allo strumento della tortura, per estorcere informazioni; come ben sapevano gli inglesi quando, durante la II Guerra Mondiale, nei sotterranei del Comando francese clandestino a Londra i prigionieri tedeschi venivano sistematicamente torturati dagli uomini del Generale De Gaulle, provocando le rimostranze dello stesso Winston Churchill. Per carità, anche in questo scabroso ambito vale il precetto evangelico «chi è senza peccato…». In tutti i Paesi (o quasi) si fa ricorso alla tortura; la discriminante è data dai motivi e dalla frequenza: se nella maggior parte dei Paesi polizia e Servizi di intelligence ricorrono solo eccezionalmente alla tortura, in caso di grave pericolo per la sicurezza dello stato (come si suol dire, “è uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo”), in alcuni Paesi essa è la normale procedura di interrogatorio, anche in relazione a reati comuni. Peraltro, anche questo settore non è scevro dai consueti “esercizi di retorica e di stile” dietro i quali, da alcuni anni, si nasconde l’ipocrisia delle “norme di linguaggio” legate ad argomenti, per così dire, “imbarazzanti”: senza entrare nel merito di termini come peacekeeping, peace enforcing, intervento militare umanitario, missione militare di pace (praticamente un ossimoro, o una contraddizione in termini), con i quali, nella retorica contemporanea, si pretende di sostituire la parola “guerra”, in merito all’argomento in questione si assiste ad acrobazie linguistiche come interrogatorio tattico, o, come dicono i Servizi di intelligence israeliani, “interrogatorio in condizioni disagiate”; il tutto per nascondere il più crudo – e realistico – termine “tortura”.

Per venire a fatti più recenti – e più inerenti all’argomento che stiamo trattando – mentre il Presidente Hollande “tuona” contro i sistemi di intercettazione utilizzati dagli americani, tace sul sistema di intercettazione francese, molto simile a quello made in USA, ma utilizzato dalla DGSE in totale assenza di qualsiasi normativa giuridica.

In merito alla recente “levata di scudi” da parte della Presidenta brasiliana, Dilma Rousseff, è difficile darle torto quando afferma che le intercettazioni a danno della società Petrobras non sono giustificabili con la “lotta al terrorismo internazionale”, ma sono riconducibili allo spionaggio strategico-industriale per avvantaggiare le imprese statunitensi. A parte la replica di un funzionario della Casa Bianca che ha giustamente osservato: «…le spie fanno il loro mestiere, in tutto il mondo…i rapporti tra le nazioni sono un’altra cosa» (nota a margine: chissà se gli americani sono altrettanto “democratici” quando scoprono che sono loro ad essere spiati?!), noi italiani abbiamo ancora vivo (o dovremmo avere!) il ricordo di una società privata americana (“Kroll”) che operava per conto dei Servizi segreti di Brasilia nel settore delle intercettazioni telefoniche, che solo pochi anni fa aveva preso di mira Marco Tronchetti Provera, all’epoca Presidente di Telecom Italia, perché stava tentando di conquistare il mercato della telefonia in Brasile a danno della società brasiliana Brasil Telecom (sorvoliamo, in questa sede, sull’affaire “Telecom-SISMI”, in cui era coinvolto lo stesso Tronchetti Provera).

È patetico sentire certe prediche venire dall’alto di certi pulpiti!

Qualche brevissima considerazione sul presunto “idealismo” di queste “talpe” – come il soldato Manning dello scandalo WikiLeaks e l’analista Snowden del Datagate – che, periodicamente, suscitano imbarazzo nei palazzi del potere e dell’intelligence “a stelle e strisce”. Innanzitutto desta qualche perplessità il “ravvedimento” di un uomo che lavora nell’intelligence, che improvvisamente si rende conto di svolgere un lavoro che è ai limiti (e qualche volta li supera) della legalità: non lo sapeva prima di arruolarsi?

Poi, anche per quanto uno si sforzi di fare “l’anima bella”, è francamente difficile immaginare una persona, armata solo del suo idealismo e della sua coscienza pulita, che riesca a beffare alcuni dei Servizi più potenti del mondo, senza beneficiare del supporto di qualche altro Servizio interessato all’impresa.

E qui arriviamo al punto più importante. Che credibilità può avere un individuo che, in nome della trasparenza e dei diritti civili, abbandona il Servizio di intelligence per il quale lavora, per andare a collaborare con i Servizi di un Paese avversario? È come se un mafioso, in preda a una crisi di coscienza, abbandonasse “Cosa Nostra” per arruolarsi nella ‘Ndrangheta: sarebbe come passare dalla padella alla brace! E allora i casi sono due: o è un perfetto idiota, oppure è uno che si è fatto molto bene i conti. Ognuno, naturalmente, è libero di pensarla come vuole, ma, come suggeriva Andreotti: «A pensare male si fa peccato, ma ci si azzecca sempre».

Una breve parentesi sul soldato Manning, condannato a 35 anni di carcere solo pochi giorni fa, la cui vicenda potrebbe avere delle ripercussioni sul caso Snowden. Dopo le abili manovre della difesa, che ha puntato sulla sua difficile infanzia, Manning è riuscito ad evitare l’ergastolo e a cavarsela con 35 anni – che, con la buona condotta, si riducono a 7-8. All’indomani della condanna, Manning ha dichiarato di voler cambiare sesso, per poter finalmente esprimere la donna che è in lui. Naturalmente, il primo pensiero va ad una possibile, ulteriore manovra della difesa, volta a rincarare la dose sul fronte dell’infermità mentale, puntando questa volta su una non ben definita identità sessuale; il tutto nell’ottica di un ulteriore sconto di pena. Ma – sempre nel rispetto del “precetto” andreottiano – è possibile formulare una seconda ipotesi (che, tra l’altro, non esclude la prima): qualche “agenzia governativa” potrebbe aver suggerito (leggi “imposto”) a Manning di inscenare questa crisi di identità sessuale in modo da perdere ogni attendibilità agli occhi dell’opinione pubblica; in altri termini, una sorta di “macchina della delegittimazione” della “talpa”, che in questo modo viene completamente screditata. La cosa converrebbe a Manning, che in questo modo passerebbe nelle patrie galere solo pochissimo tempo, in cambio della sua totale perdita di credibilità.

Si potrebbe, giustamente, osservare che le informazioni fornite da Manning ad Assange non erano farina del suo sacco, ma note informative del Dipartimento di Stato, sulle quali, quindi, la sua mancanza di credibilità non avrebbe alcuna influenza. È vero, ma bisogna tener presente che nell’immaginario collettivo delle masse – che, in quanto tali, non sono proprio un monumento eretto alla razionalità – il fatto che una persona sia completamente screditata la fa apparire inaffidabile anche quando enuncia il teorema di Pitagora. Inoltre, la manovra potrebbe agire anche come deterrente nei confronti di altri agenti che, eventualmente, dovessero prendere in considerazione l’ipotesi di rendere di dominio pubblico informazioni riservate.

Non sappiamo quali sorprese riservi il futuro a Snowden; ma se malauguratamente un domani dovesse finire nelle “grinfie” dei suoi ex-colleghi, quindi processato, e se dopo l’inevitabile condanna dovesse dichiarare di voler diventare negro (un po’ il contrario di quanto fece a suo tempo Michael Jackson), o affermasse di essere la reincarnazione di Greta Garbo, allora avremmo la conferma che la “macchina della delegittimazione” è in piena attività e, nella fattispecie, rivolta contro di lui.

A fronte di questa eventualità, o quanto meno per arginarne i danni, non è da escludere che Snowden – che, sebbene abbia solo 29 anni, ha dimostrato di non essere uno sprovveduto – si sia premunito attraverso una “assicurazione sulla vita”, ovvero un tacito accordo con i suoi ex-datori di lavoro in virtù del quale egli si asterrebbe dal rivelare segreti vitali per il suo Paese (qualora ne fosse in possesso), in cambio dell’incolumità fisica e “morale”; è implicito che, se Snowden dovesse incorrere in un “incidente”, qualcuno provvederebbe a divulgare informazioni classificate veramente scottanti per la Casa Bianca. Ma su questo argomento è difficilissimo avere una conferma oggettiva; al momento non resta che limitarsi al campo delle ipotesi.

Al termine di questa breve disamina del singolo caso riguardante lo scandalo Datagate, emergono alcune questioni che coinvolgono l’attività di intelligence nella sua interezza.

Le modalità operative di un Servizio di intelligence non sono e non possono essere le stesse di una qualunque istituzione statale. Non si può valutare un’attività eminentemente politica come quella dell’intelligence limitandosi ai parametri del diritto: il diritto ha a che fare con la giustizia; la politica con il potere e, quindi, con la sopravvivenza dello stato, di fronte alla quale qualunque altro valore, sia pure nobilissimo e necessario alla costituzione di una società civile, deve passare in secondo piano.

La tanto vituperata ragion di stato, per quanto discutibile dal punto di vista morale e giuridico, appare, in ultima analisi, come il parametro definitivo dell’azione politica e, a maggior ragione, del suo “braccio armato”, ovvero i Servizi di intelligence. Se tutto si potesse fare alla luce del sole e nel rispetto della legge, non ci sarebbe bisogno dei Servizi segreti, ma basterebbero i normali organi di polizia (che molto spesso, per inciso, devono comportarsi come i Servizi segreti). Non è un caso che, nella stessa normativa vigente, oltre al segreto di stato, siano previste le cosiddette “garanzie funzionali”, volte a sancire proprio l’ineludibilità e la legittimità (da non confondere con la legalità) del ricorso, da parte degli operatori dell’intelligence, a comportamenti che vadano anche al di là dei limiti imposti dalla legge, qualora le necessità operative precludessero qualunque possibilità di adottare metodi esclusivamente “legali”.

Non si tratta di stare “al di sopra” (o al di sotto) della legge, ma semmai, occasionalmente, “al di fuori” di essa. Certo, in quest’ottica, non fosse altro che per coerenza semantica, gli agenti dei Servizi possono apparire come dei “fuorilegge”; ma, paradossalmente, se si vuole difendere la legge, talvolta bisogna  “calpestarla”. Questo non può essere un principio del diritto, naturalmente, ma della politica, da cui non dipende solo la salvaguardia dello “stato di diritto”, ma la salvezza stessa dello stato.

Come affermava il mitico “Misha” (alias Markus Wolf, il leggendario “uomo senza volto”, direttore dell’HVA, il dipartimento di intelligence esterna della STASI – all’epoca della Germania Orientale – e vice-direttore dell’intera struttura, citato come modello dagli stessi Servizi occidentali che per decenni lo hanno combattuto), i Servizi segreti esistono, agiscono nell’unico modo in cui possono agire e, piaccia o non piaccia, gli stati non possono farne a meno.

Viene in mente allora la lezione del più grande filosofo della politica, Niccolò Machiavelli, al quale erroneamente si attribuisce il detto: «Il fine giustifica i mezzi». Questo è uno dei più grandi equivoci della storia del pensiero: Machiavelli non solo non ha mai detto né scritto questa frase, ma non l’ha mai neanche pensata. Per Machiavelli il fine non giustifica i mezzi: il fine necessita di determinati mezzi, che visti con gli occhi della morale continuano ad essere ingiusti; e nondimeno, se si vuole agire nell’agone politico, sono imprescindibili. Per il Segretario fiorentino, la morale e la politica sono due entità incommensurabili, tra le quali bisogna scegliere: se si agisce secondo l’una, bisogna necessariamente rinunciare all’altra. Voler agire in politica secondo le regole della morale equivarrebbe a pretendere di giocare a rugby secondo le regole del calcio: se si viene placcati non si può andare a piangere dall’arbitro invocando l’espulsione dell’avversario, perché quello che nel calcio è un fallo da espulsione, nel rugby è una normale tecnica di gioco.

Bisogna dunque rinunciare a qualunque scrupolo e abbandonarsi al più bieco cinismo, nello svolgimento del «secondo mestiere più antico del mondo – e con la stessa dignità del primo»? Non necessariamente, se si adotta un parametro diverso. Del resto, è un adagio nato proprio nel mondo dei Servizi segreti (in particolare, dell’intelligence britannica) quello secondo il quale «lo spionaggio è un lavoro sporco, che deve essere fatto da gentiluomini».

Come insegna il grande sociologo e politologo tedesco dell’inizio del ‘900, Max Weber, nell’azione politica bisogna sostituire all’etica della convinzione – secondo la quale bisogna agire in base a principi morali assoluti, a prescindere dalle conseguenze che questo comporta – l’etica della responsabilità, ovvero l’etica che valuta un’azione in base alle sue conseguenze; e questo proprio per salvaguardare quei principi morali la cui applicazione incondizionata comporterebbe, paradossalmente, la loro negazione.

Ma a questo punto stiamo parlando di “massimi sistemi”, e il discorso potrebbe condurci molto lontano. Non è questa la sede.

Alla luce di quanto detto, lo scandalo Datagate appare veramente come “una tempesta in un bicchier d’acqua”. Se, come sosteneva Otto von Bismarck, «la politica è l’arte del possibile», allora i Servizi di intelligence ne sono l’espressione più compiuta!


Stefano Bernini

Stefano Bernini collabora con la Pontificia Facoltà Teologica San Bonaventura, come docente nel Master di 2° livello in “Peace Building Management” con insegnamento: Analisi Strategica. Tiene conferenze e svolge attività didattica presso Centri di ricerca nel settore politico-strategico e collabora con varie testate telematiche su argomenti di carattere politico-militare. E’ autore di Filosofia della guerra, pubblicato nella rivista Sintesi Dialettica con cui ha collaborato in varie occasioni.

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