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The Wolf of Wall Street – Martin Scorsese

Interessato alla filosofia del cinema?

Pili G., (2019), Anche Kant amava Arancia Meccanica – La filosofia di Stanley Kubrick, Pistoia: Petite Plasiance


The Wolf of Wall Street (2013) è probabilmente uno dei massimi capolavori degli ultimi decenni e senza dubbio un film che è destinato ad entrare nella storia del cinema. Scorsese ci aveva regalato dei giganteschi flop solamente se pensiamo ad Aviator (2004) e c’erano i fondati timori di una sua continua parabola discendente. Non solo.

Scorsese è qualcosa di più di un regista qualunque. E’ il regista di un film straordinario, immortale e perfetto come Taxi Driver (1976), ovvero uno dei film che rendono il cinema un’arte degna dei massimi capolavori della musica e della pittura occidentale. Quindi, anche film come The Departed (2006) o come Shutter Island (2010) vengono ridimensionati di fronte al fatto che non si possono paragonare alla grandezza dell’uomo solo, nella grande città, che vive all’inferno, il suo, quello di tutti e che alla fine decide che “qualcuno la deve pagare”. Travis è l’uomo in croce, vittima del destino e che dal destino tenta di sfuggire. E infatti “qualcuno la paga” davvero. E’ il racconto di una parte degli Stati Uniti ed è una storia di tutta l’umanità: la lotta non per la sopravvivenza ma per una vita ripulita, degna di qualche scopo.

Altro capolavoro di Scorsese, sfortunatamente molto meno conosciuto, ma in sintonia con una certa parte della poetica pienamente esplicitata in Taxi Driver è Fuori orario (1985), film geniale di una notte assurda da parte di un uomo che si prende (metaforicamente) tutte le colpe del mondo. Ma ci sono i capolavori degli anni ’90, come Quei Bravi Ragazzi (1990) o, soprattutto, Casinò (1995). Ma poi come dimenticare un film come Mean Streets (1973)? Non tutti i film sono stati capolavori di qualità comparabile a questi, ma comunque si distinguono ampiamente al di là della media. Ultimamente sembrava essere ormai come Woody Allen, grande regista di altri tempi, nelle mani di un triste ma veloce regresso verso il nulla.

Scorsese non è un regista tra gli altri. Egli è uno degli spiriti elevati della cinematografia americana, una delle più straordinarie dell’Occidente. Non si può, dunque, valutare un pur decente Gangs of New York (2003) negli stessi termini: se il film fosse stato girato, per esempio, da un McTiernan, onesto regista di film di azione, lo avremmo pure apprezzato per essere almeno un po’ al di sopra della (sua) media. Ma da Scorsese, come da un Kubrick , vogliamo il capolavoro. E se non lo produce, c’è qualcosa da recriminare. Non è come quelle genialità che vengono su per caso, che fanno un capolavoro e poi spariscono, per non riconfermarsi mai più. L’esempio che mi è sempre venuto più congeniale è sicuramente I soliti sospetti (1995), di Brian Singer, opera eccellente mai più confermata, grande ma accidentale. Scorsese è un genio completo, a tutto tondo. E allora bisogna essere severi, guardando le cose dal punto di vista superiore dell’arte più elevata.

La prima visione di The Wolf of Wall Street può non rendere giustizia al film, alla sua pura grandezza. Si è presi dal divertimento che trasmette, ma anche dalla logica un po’ trita dell’ascesa e caduta di un personaggio corrotto, e si lascia in secondo piano il significato e le sue varie implicazioni (si pensi a quanto hanno in comune Jonathan Belfort e Henry Hill, personaggio centrale de Goodfellas Quei Bravi Ragazzi). Soprattutto, non si coglie la straordinaria ed implacabile ferocia che il film mette in scena. Dopo la grande crisi del 2007, il film non mostra il lato drammatico dell’alta finanza (come nei sempre abbastanza discutibili film di Oliver Stone). Semplicemente la scioglie nella soda caustica. Non c’è niente di drammatico perché non c’è proprio niente tout court.

Il protagonista, Jonathan Belfort, è un ragazzino viziato, prono ad ogni sorta di corruzione fisica e mentale. Ma non nella luciferina luce di un Marchese de Sade, che dischiude l’arduo piacere della solenne corruzione, la saggezza del male, pur sempre pagata a caro prezzo e pur sempre saggezza. Non c’è niente del de Sade in Jonathan Belfort. Non c’è sicuramente nessuna saggezza. E’ un ragazzino che ha tutto troppo facilmente e troppo in fretta. E una persona del genere semplicemente può lanciare delle aragoste dalla barca che è più “figa di quella del cattivo di James Bond” (riferendosi molto probabilmente a Thunderball Operazione Tuono, in cui effettivamente il cattivo aveva un panfilo che si divideva in due all’occorrenza ed era simile a quella di Belfort). E che James Bond abbia nell’immaginario di Belfort qualcosa da dire, una sorta di angelo consigliere dello standard di esistenza, è provato dal fatto che ci sono almeno due richiami espliciti ai Bond movies importanti: egli si sposa con la musica di Goldfinger, protagonista che, come dice la canzone, “he has the Mida’s touch… his heart is cold”. Come Bond, anche Belfort è un ragazzino, come Bond anche Belfort vive sopra le righe. Ma ancora Bond vuole credere in qualcosa, a differenza di un Belfort. Prima o poi anche Bond vuole diventare adulto. Belfort non ci tiene affatto.

Il personaggio di Belfort non può essere approfondito perché non c’è proprio niente da approfondire dietro. E questo è uno degli assunti fondamentali del film, che è un film “sul nulla”. Però non è un “nulla” qualunque. E’ la storia di un “lupo” di Wall Street. Quindi, per un americano, e per tutti (quindi), verrebbe da pensare “che figata!” Nessuno aveva fatto un film del genere, ovvero prendendo sul serio i valori della gente che compone Wall Street. Come spiega molto bene l’unica persona che ha insegnato qualcosa a Belfort, Mark Hanna:

Belfort: “Signor Hanna, lei è capace di drogarsi durante il giorno e fare il suo lavoro allo stesso tempo?”

Hanna: “E come cazzo lo fai, se no, questo lavoro? Cocaina e troie, amico mio!”

(…)

“Regola numero uno. Spostare i soldi dalle tasche del tuo cliente e metterle nelle tue”.

“Certo! Ma se ne fai entrare un po’ nelle tasche del tuo cliente è vantaggioso per tutti. Giusto?”

“No. Regola numero uno a Wall Street. Nessuno… ok se si Warren Baffett allora forse sì… nessuno sa se la borsa va su o giù o di lato o in circolo… meno che mai i broker. Ok? E’ tutto un fugasy… Lo sai cosa vuol dire fugasy?”

“Si, che è falso… fugasy”

“Fugasy, fugasy… qualcosa di volante… polvere di stelle. Non esiste, non tocca terra, non ha importanza, non è sulla tavola degli elementi. Non è reale! Seguimi! Noi non creiamo un cazzo, non costruiamo niente. Quindi, se sei un cliente, che ha comprato l’azione a otto, e adesso vale sedici, lui ora è uno stronzo felice. Vuole vendere, liquidare, prendere il suo malloppo e correre a casa. Ma tu non glielo lasci fare! Se no la cosa diventa reale! Allora che fai? Hai un’altra idea brillante, un’idea speciale, un’altra situazione, un’altra azione per reinvestire i profitti e altri soldi. E lui lo farà ogni santa volta. Perché diventano dei drogati. (…) Lui crede di essere ricco, e lo è, ma sui pezzi di carta. Ma io e te, i broker, portiamo a casa denaro contante!”

Dopodiché, il saggio maestro di Jonathan spiega che si può avere successo solo masturbandosi continuamente (almeno due volte al giorno) e tirando di cocaina (sempre). Questa saggezza basilare è quella sufficiente per Belfort. Effettivamente, infatti, basta questo. E uno stuolo di “troie”. “Alla Stratton [l’agenzia di broker di Belfort] avevamo tre tipi di puttane. Quelle blue chip, quelle numero uno, tipo modelle. Costavano tra i 400 e i 500 e ti dovevi mettere il preservativo, a meno che non gli allungavi una cospicua mancia, cosa che io [Belfort] facevo sempre. Poi c’erano le Nasdaq, carine ma non eccelse: costavano tra i 200 e i 300 dollari. E infine c’erano le penny stock. Scorfane. Costavano sui 100 e anche meno. E se non ti mettevi il preservativo, il giorno dopo dovevi farti la penicillina, pregando che l’uccello non ti cascasse a pezzi. Non che non ce le scopassimo lo stesso…” Da notare il lessico, decostruito come quello di un adolescente refrattario all’istruzione basilare, che impiega alcuni termini tecnici del mondo della finanza perché gli unici (quei pochi) che gli interessano. Uno dei tratti straordinari del film, infatti, è proprio la ricerca lessicale, vicina al mondo della strada, ma di un certo tipo, la cui resa dev’essere stata un’operazione di studio, tutt’altro che banale. Riguardo, invece, alla droga: “Si! In una giornata consumo droga sufficiente a sedare Manhattan, Long Island e Queens”. E infatti poi ci mostrerà le varie “fasi” della sua giornata, in cui sostanzialmente tutto è scandito dal tipo diverso di droga da assumere.

Da queste citazioni riusciamo a ricostruire gran parte della fisionomia di Belfort. In primo luogo, egli non è cattivo. Non è neanche buono. E’ entrambe le cose ma solo per caso. Quindi non è niente. E’ una persona ordinaria, che vuole divertirsi perché la vita è totalmente insignificante per lui. E siccome la vita è insignificante, secondo lui, anche lui automaticamente diventa insignificante. Lui non è uno che nasce povero e diventa ricco. Non è uno che compie una parabola, come gli spiega l’agente dell’FBI. Non c’è un modo per scusarlo della sua inaccettabile insignificanza morale. Egli è vuoto, molto più vuoto di ogni pallone aerostatico. E’ inutile e sa di esserlo, ma non è suo compito pensarci. Il suo scopo non è costruire, creare, cambiare il mondo o la sua vita. Il suo scopo è quello di fare soldi, seguendo le regole di Wall Street. Non necessariamente tutto alla luce del sole, ma questo è un problema relativo. Lo scopo è fare soldi. Per fare cose? Pagarsi la droga, pagarsi le infinite “troie” (come visto, fondamentali per il suo lavoro), pagarsi i confort. Tutto considerato, non ci sarebbe bisogno di tutti quei soldi, ma i soldi diventano lo scopo in quanto tale. Numeri che fluttuano, come i centimetri per quelli che credono che davvero la qualità degli attributi si misuri con il righello. Non è quello il punto, ma fa piacere pensarlo perché si vede, è un dato che gli altri ti possono riconoscere e su cui si può ancora divergere, ma i limiti sono più rigidi, i margini più stretti. E ti fa sentire potente. Rilascio automatico di endorfine solo all’idea.

Ma Belfort ha un’altra caratteristica, nata in parte dalla necessità. E’ un capo, un vero capo e ha a che fare con la stessa gente che avrebbe potuto comporre le schiere dei legionari romani, spinti verso l’ignoto e verso la morte solo perché il sogno del denaro (e non della gloria) è sufficiente a motivare qualsiasi disperato. Non che Belfort voglia cambiare il mondo o migliorare la vita dei suoi dipendenti e certamente non li vuole condurre alla difesa del limes. Non potrebbe essere un problema più lontano dal suo modo di vedere le cose, ma sa che gli uomini vanno tenuti e vanno motivati. Non solo gli procura le prostitute (incredibile la scena che vede le prostitute lanciarsi a suono della marcia patriottica Stars and Stripes Forever – “Stelle e Strisce per sempre”… la dice lunga agli americani) e gli concede spettacoli ricreativi (come quello che vede una gara di lancio di nani (sic!) verso un tirassegno apposito). E’ la fiera medioevale, è il baccanale romano, la perdita dell’inconscio dei romantici, il tutto centrifugato a base di dollari e cocaina, giusto gli ultimi attributi che ci volevano, arrivi innovativi nella fiera. Questi sono gli strumenti per tenere buona la plebe, fargli fare ciò che serve. Ma divertimenti e soldi non bastano ancora. Bisogna pur sempre fornire un motivo per vivere, altrimenti si finisce per stancarsi di questa vita. Anche gli imperatori sapevano il valore dell’Idea, che si esplicitava nella parola “impero romano”, a cui tutti i cittadini riconoscevano un valore intrinseco. Belfort è un grande oratore e le scene più impressionanti, rispetto al significato che il film trasmette, sono proprio quelle dei discorsi di Belfort:

Bene. Voglio che facciate mente locale. Vedete queste scatole nere? Si chiamano telefoni e vi metto da parte un piccolo segreto a proposito dei telefoni: non sanno funzionare da soli. Ok? Senza di voi sono soltanto attrezzi di plastica. Come un M16 senza un Marine dietro pronto a premere il grilletto. E nel caso del telefono, tocca a voi, a ognuno di voi, miei agguerritissimi strattoniani, miei killer… i miei killer che non accetteranno mai un no come risposta. I miei fottuti guerrieri, che non riagganceranno il telefono fino a quando il cliente o compra o, per Dio, schiatta! [Urla di esclamazione] E vi dico un’altra cosa. Non c’è alcuna nobiltà nella povertà. Io sono stato un uomo ricco e sono stato un uomo povero… e scelgo la ricchezza tutta la vita, cazzo! Almeno, da ricco, quando devo affrontare i miei problemi, lo faccio con un abito da 2000 dollari con un orologio da 40.000 dollari! [Lancia l’orologio e alcuni dipendenti si azzuffano per prenderlo – momento girato al rallenti che amplifica l’assurdo gesto] E se qualcuno di voi crede che io sia un superficiale, un materialista, vada a lavorare in un cazzo di McDonald perché è quello il suo posto.

Questo discorso è straordinario perché mischia il gergo militare (un M16 senza Marine… voi siete dei killer – che per un cinefilo subito si unisce al ricordo dei “killer” di Full Metal Jacket) con quello dell’uomo comune. Anche qui una centrifuga tra vari tipi di lessici, diversi ma non del tutto, in modo che simulando l’uomo troglodita (letteralmente) mostra l’essenza del problema. Anche un deficiente lo capirebbe e siccome questi sono tutti deficienti, egli sa cosa dire e come dirlo. Belfort fornisce una visione del mondo: il povero è un misero perché la miseria è l’assenza di denaro. E’ il denaro, il fugasy nelle tasche dei broker, che diventa reale a discriminare il “vincitore” dal “fallito”. Egli è un vero motivatore. Egli davvero fornisce a ciascuno dei suoi “killer” non solo uno scopo preciso, un vantaggio personale, ma anche un sogno, ovvero: uno scopo ulteriore. Perché questo è un punto che potrebbe sfuggire: egli sta dicendo quale è la vita “buona”, l’obiettivo che bisogna raggiungere perché è “dignitoso”. La ricchezza, naturalmente. Un generale del XXI secolo, dunque, arringa il suo esercito come un allenatore sprona la sua squadra: la vittoria per avere donnine e denaro, con cui si compra la cocaina e le automobili che servono per altro a tirar su le donnine. Ma se anche gli eserciti fanno la storia a braccetto con la miseria, almeno c’è l’illusione di star rischiando la vita in nome di qualcosa di grande, fosse almeno quello di creare la storia (di fatto, non sarà più la stessa). Ma in questo gli “strattoniani” si differenziano. Loro non “vogliono creare niente”. Nulla per loro è reale, nel bene e nel male. Loro non vogliono essere cattivi, semplicemente le regole del gioco rendono impossibile essere buoni, problema che comunque non rientra nei loro interessi.

Il film è iperdenso di contenuti, difficili da esaurire tutti. Come altri film di Scorsese, non a caso proprio quelli sulla malavita (Quei Bravi Ragazzi e Casinò), è una parabola in cui si ascende per discendere. Alla fine Belfort perde tutto, amici, moglie (prima e seconda) e figli. Ma non la sua unica capacità: quella di saper vendere. Le tre scene magistrali su Belfort, in cui davvero è serio e non si “scioglie”, è quando impartisce lezioni di marketing spicciolo, al principio, a metà e alla fine. Perché questo egli aveva, il suo grande talento: saper vendere sogni, idee… parole vuote. Ma in questo era bravo, il migliore. Ma non è solo questo.

Il film è la parabola su Wall Street e sul denaro, che davvero fonda una buona parte del credo degli Stati Uniti d’America. Loro al denaro ci credono fino in fondo. E non lo nascondono mai. Il denaro per il denaro. La cifra astratta di un’esistenza spesa su ogni cosa che può essere comprata. Fino a quando c’è abbastanza denaro. E infatti tutto nel mondo di Belfort è comprabile. Prima di tutto le persone. Solo dopo un po’ le cose.

Scorsese incede ovunque con lo sguardo implacabile di chi mette alla prova l’assurdo. Perché uno come Belfort ha un unico problema: essere preso sul serio. Egli, proprio per quella nullità che è, non è un cattivo come il “genio del male”, un Hitler della situazione. E’ esattamente il contrario! Hitler e il genio del male vogliono essere presi sul serio. Ci tengono. Vogliono che si accetti la loro (traviata) intelligenza. Il problema di Belfort è lo stesso paradosso che Hannah Arendt scoprì in Eichmann: è stato uno dei peggior uomini del suo tempo per puro caso, quindi non se ne può fare un esempio per tutti proprio perché fin troppi sono esattamente come lui. Diventa imbarazzante, si scopre che è la vita umana ordinaria ad essere semplicemente anche così, se le circostanze lo richiedono. Si scopre che i vicini di casa sono anche loro così, che i colleghi, forse anche alcuni amici sono così. E allora diventa imbarazzante. Come si fa a mostrare sino a che punto gli esseri umani sono umani ma nel modo sbagliato, automatico che non ci piace? Può avere senso bruciare un Hitler in pubblica piazza per farne un pubblico esempio. Ma Eichmann no. E Belfort, in questo, non è lontano dalla banalità del male. E non è un caso: tanto Eichmann che Belfort non sono personaggi inventati dalla fantasia di Arendt e Scorsese, purtroppo.

Infatti, Belfort è un ragazzino che dice le parolacce perché ancora qualcuno vuole o deve correggerlo. It is just fun! Ma tutto viene all’aria quando il ragazzo viene preso sul serio, lo si interroga su quello che vuole, su quello che crede e gli si chiede consiglio, come se dovesse decidere davvero su qualcosa di reale. E allora lì il ragazzino crolla. E crolla tutto il suo mondo, fatto di una sfida che può vincere solo se non è chiamato ad affrontarla. E’ il denaro che ritorna nelle tasche degli investitori, è il mondo che ritorna reale. Questo non si può vendere altrettanto facilmente.

L’amarezza del film è contrapposta alla straordinaria potenza formale, per altro incentrata in una sorta di scientismo inoculato dentro la cinepresa, che non vuole riprendere qualcosa di assurdo perché falso ma di assurdo perché assolutamente vero. Si tratta di uno dei film in cui si possono contare più scene indimenticabili di sempre. Non posso riportarle tutte, ma almeno qualcuna va citata. Al principio, per introdurre il personaggio, Scorsese fa spiegare a Belfort la sua visione delle cose. Lui guida nel frattempo che la moglie (bellissima ovviamente) elargisce una fellatio all’interno della Ferrari. La Ferrari è prima rossa e poi cambia: diventa bianca “come quella di Miami Vice”. E’ un’idea geniale in cui si mostra come il protagonista sia una persona che prende i desideri in prestito da serie televisive neanche particolarmente sofisticate. Ma it is so fun! I want to be like him, with his wife and his Ferrari! Tutta una visione del mondo passata attraverso due parole e una macchina che cambia colore. Questo è il punto!

Ma la mia preferita, di gran lunga straordinaria per potenza e perspicacia, dura solo pochissimi secondi. Dopo che Belfort “scopre” un metodo universale di vendita assicurata, impartisce una lezione all’interno del magazzino-ufficio ai suoi “killer”. Il montaggio mostra come il locale vasto e spoglio si riempia e poi si passa ad un altro locale, nella stessa angolatura di ripresa, pieno di scrivanie e persone. I fotogrammi sono sincronizzati con la musica allegra e gioviale, per mostrare da dove si partiva per dove si arrivava. Per un appassionato di cinema, o di chi ha provato a farlo, è la purezza dell’idea trasposta nell’immagine. Fa capire tutto, non c’è bisogno di altro.

Indimenticabile è la scena (impressionante) nel terzo minuto che inizia con un’immagine che, secondo me, nessuno ha capito di che si trattasse al principio e poi si scopre che è il retro di un sedere rialzato di una modella in cui, Belfort sniffa la cocaina all’interno di non si sa quale pertugio. Infine, la scena che Scorsese si dev’essere divertito di più a girare visti i suoi scopi. Dopo che Belfort deve raggiungere un telefono “sicuro”, cade preso da paralisi e convulsioni per via dell’effetto di una droga potentissima ma ad effetto ritardato. Deve tornare a casa perché deve impedire che il suo socio e amico si comprometta al telefono. Striscia, rotola da una scalinata (geniale quando, dopo attimi di tesa riflessione, pensa “I can roll, I can roll!”) e si infila malamente in macchina. Arriva a casa salva l’amico, che in un momento di delirio ingurgita un pezzo di prosciutto cotto e a momenti si strozza, soltanto grazie alla cocaina, che gli ridà le “forze”. Il montaggio feroce cucisce la sniffata insieme al cartone animato di Braccio di Ferro, nel mentre che mangia gli spinaci (chissà se le giovani generazioni native digitali apprezzeranno questo richiamo ai cartoni vintage). La scena è insostenibile. Per diversi minuti, la telecamera è ferma per riprendere Belfort che si trascina malamente verso la vettura, sbavando e contorcendosi in modo immondo. Nessuno lo aiuta. E’ solo. Rantola, si rivolta, si sporca. Scorsese lo guarda. Fermo. Lo contempla senza alcuna pietà o partecipazione, chiedendosi sino a che punto un personaggio del genere, un Belfort, può essere reale. Purtroppo lo è molto, evidentemente. Da qui l’acido puro che Scorsese butta su Wall Street.

Un sintomo di un capolavoro è l’effetto. Esistono film che esaltano ma poi non si rivedono per anni. Qualcuno mai più. In fondo, ci aveva preso ma non ci aveva dato nulla che volessimo approfondire. Ci sono altri film, che sappiamo geniali, ma che sono difficili da vedere perché molto impegnativi. Infine, ci sono film che, non sappiamo al principio dire perché, visto che non ci sembra che ci abbiano detto niente (divertente, ma insomma… un po’ pesante inutilmente). Ma lentamente, di nascosto, lo rivediamo una volta (si, alla fine è divertente). Un Di Caprio che avrebbe assolutamente dovuto vincere l’oscar. Ma un attore non basta. Forse non era un capolavoro. Ma poi casualmente lo rivediamo per la terza volta (e incominciamo a fare la lista delle scene, talmente tante che è impossibile riportarle). Ma quanti film di Leone hanno tante scene geniali ma non sono ancora un capolavoro? E’ la nostra coscienza di scafati amanti del cinema che parla, restia a incamerare qualcosa di nuovo perché, infondo, nel cinema ci crediamo assai. Ma poi lo rivediamo una quarta (che montaggio!) e poi una quinta volta (ah, che colonna sonora straordinaria!) e poi un’altra volta ancora (silenzio, parla Scorsese). E allora, nel silenzio in cui parla solo Scorsese per mezzo del grande Di Caprio, incominciamo a capire. Questo è un capolavoro. Un capolavoro che parla di una persona insignificante che purtroppo è parte del nostro mondo, infatti composto e dominato da gente assolutamente insignificante.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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