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Scuolafilosofica Posts

A Savage War of Peace – Algeria 1954-1962. Alistair Horne

 

A Savage War of Peace narra le vicende della guerra di Algeria, combattuta tra la Francia e tra i diversi gruppi di liberazione nazionale, tra cui FLN (Fronte di Liberazione Nazionale). Si tratta di una delle guerre più ignorate dall’Europa Occidentale, perché la sua cattiva coscienza viene semplicemente messa a nudo.

(1) E’ stata una guerra durata di fatto più di otto anni, in un territorio da sempre mira del controllo delle potenze dell’Europa (dall’impero romano in poi) per ragioni che oggi diremmo “geopolitiche”, ruggente parola di moda che si applica sempre volentieri, come il silicone Saratoga, utilissimo per appiccicare qualsiasi cosa. (2) La guerra in Algeria è iniziata quasi subito dopo la seconda guerra mondiale: egli europei pacifici, gente saggia. (3) I francesi non hanno risparmiato nessun mezzo a loro disponibile pur di ottenere la vittoria (mancata), compresa la tortura, l’uso dell’air power, il napalm e le catastrofiche rappresaglie più o meno spontanee sulla popolazione civile chiamate in modi irripetibili, tra cui ratonnade e varianti che anche un lettore digiuno della lingua della diplomazia estinta come me sa benissimo comprendere nel suo pieno senso derogatorio. (4) I risultati della guerra sono stati catastrofici per la Francia, che ha rischiato il colpo di stato militare, la guerra civile e che ha visto il termine della quarta repubblica.

La peste – Albert Camus

Un libro di intensità simile? La pelle di Curzio Malaparte!

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Questo genere d’evidenza o di timore, in ogni caso, manteneva nei nostri concittadini il senso dell’esilio e della separazione. Al riguardo, il narratore sa perfettamente quanto sia increscioso non poter qui nulla riferire che sia veramente spettacolare, come a esempio di qualche edificante eroe o di qualche straordinario gesto, simili a quelli che si trovano nei vecchi racconti. Gli è che nulla è meno spettacolare d’un flagello e, per la loro stessa durata, le grandi sciagure sono monotone. Nel ricordo di coloro che le hanno vissute, le terribili giornate della peste non figurano come grandi fiamme interminabili e crudeli, ma piuttosto come un ininterrotto calpestio che tutto schiacciava al suo passaggio.

Albert Camus

La peste è un romanzo di Albert Camus, edito nel 1947. Si tratta di un libro intelligente, ovvero la cui costruzione è frutto di un’idea molto semplice ma da cui tutto si dipana: come sarebbe il mondo di una città di medie dimensioni se, all’improvviso, arrivasse il flagello più terribile che l’umanità abbia conosciuto per secoli? Già solo per questa semplice intuizione, il libro meriterebbe una sua storia e sicuramente una sua lettura. Esso può essere accostato facilmente ad un’opera di fantascienza, in cui tutto si gioca ideando un mondo alternativo ben poco diverso dal nostro, magari alterando, appunto, un semplice dettaglio. Il “dettaglio” qui è la peste.

La storia è ambientata ad Orano, città dell’Algeria francese. Non si potrebbe avere una ambientazione più ideale per l’inscenamento di una grande tragedia. Infatti, la tragedia nasce quando il tessuto ordinario della vita quotidiana viene stravolto, ovvero quando non c’è uno sfondo eroico, grandioso a sostenere il dramma ma la semplice vita attesa che si svolge esattamente come solitamente avviene. Il risultato non è, allora, la rivoluzione o il cambiamento subitaneo di Orano. Al principio nessuno ci crede, poi qualcuno ne inizia a parlare con circospezione, dopo un po’ si ammette e non si ammette il problema e infine le autorità timidamente reagiscono. Ma poi la tragedia non si può più negare e tutti agiscono come possono alla morte che entra nelle case, in un modo atroce ed orribile. Alla fine ben pochi sopravvivranno al flagello ma non tutti moriranno.

Il ragionamento umano e le sue differenze con il ragionamento formale

Siamo sicuri di sapere come ragioniamo? Non come dovremmo ragionare, non come crediamo di ragionare, ma come ragioniamo effettivamente. Per almeno un secolo e mezzo, cioè dalla metà del XIX secolo siamo dominati dal paradigma della logica formale, che già si riallacciava al modello della geometria euclidea: pochi assiomi, pochissime definizioni, poche regole di inferenza e molti teoremi, la cui garanzia risiede nella trasparenza dei pochi assiomi, delle poche definizioni e delle poche regole di inferenza. L’idea era fondare l’intera matematica, qualsiasi cosa essa sia, su poche nozioni teoricamente trasparenti o inoppugnabili, la cui combinazione doveva essere garantita dai principi della logica. Da qui il celebre detto di Russell e Wittgenstein che nella logica non ci devono essere salti perché è il regno della banalità.

Il passo successivo è stato riuscire ad implementare tale linguaggio formale di natura combinatoria nei computer, che altro non sono se particolari sistemi formali (macchine di Turing universali). Alla fine, siamo arrivati a domandarci se queste macchine pensino, visto che seguono le nostre stesse regole quando ragioniamo. Non intendo addentrarmi in quest’ultimo problema, che va affrontato con altre risorse filosofiche (per esempio, Pili (2012), cap. 8 o per esempio il video qui), prendendo sul serio le teorie dell’intelligenza artificiale e del funzionalismo della filosofia della mente analitica. Invece vorrei dedicare questo articolo all’altro problema che, per altro, è raramente considerato, ovvero il ragionamento umano per come si presenta.

[Segnalazione][Youtube] Joseph Conrad – Temi e riflessioni di un autore tra due secoli

E’ disponibile il video della ricostruzione di un mio “intervento” tenuto a Cagliari qualche settimana fa su Joseph Conrad. Come sanno i lettori, Conrad è una mia passione ed è sempre stato oggetto dell’attenzione particolare da parte di SF. Colgo questa occasione per ringraziare Eugenio Dessì e Danilo Mallò che mi hanno gentilmente invitato a presentare il mio punto di vista su questo autore per me così importante.

Auguro a tutti una buona visione.


La dignità come proprietà morale formale e sostanziale del soggetto morale

La dignità è una parola che viene usata ordinariamente per indicare il riconoscimento del diritto di esistere, ovvero non esattamente il diritto in sé quanto la sua attribuzione a qualcuno. Eppure, definire la dignità è un problema non ordinario proprio perché sembra che la parola sia un valore elementare e inalienabile dell’individuo umano. Eppure molto del dibattito pubblico incentrato su questo termine risulta piuttosto insoddisfacente. Non è mio interesse qui fare una analisi storica del concetto, ma vorrei proporre alcune distinzioni e chiarificazioni su questo termine per poi proporre una posizione in linea con l’approccio morale neo-kantiano che ho proposto in altro loco.

La dignità è una parola ambigua perché identifica due generi diversi di proprietà. Anche senza ancora definire la parola, si può distinguere un uso de re da un uso de dicto della dignità. In un caso, la dignità è attribuita da qualcuno a qualcun altro o a qualcos’altro (uso de dicto). Nell’altro caso, la parola viene invece considerata nell’oggetto (de re), ovvero il fondamento ultimo della sua ragion morale. Alcune parole ammettono una distinzione de re e de dicto che, però, non si distinguono così tanto nettamente: posso attribuire una credenza a Giulio Cesare (uso de dicto della parola “credenza”) che è anche proprio in Giulio Cesare (uso de re della parola). Per rendere invece evidente il caso di divergenza dei due tipi di uso, ad esempio quando attribuisco una credenza ad un organismo molto semplice (“un virus crede di farla franca rispetto al sistema immunitario”…) sto usando la parola “credenza” in senso de dicto ma non de re (un organismo unicellulare non ha credenze). Nel caso della parola “dignità” le cose stanno diversamente. Infatti, posso attribuire dignità anche ad altri esseri o oggetti nei quali non si può dire che la parola assuma lo stesso significato che nel caso in cui essa venga applicata (per esempio) a se stessi. Posso attribuire una certa dignità ad un cane ma la mia dignità è qualcosa di connaturato a me stesso ed è presente anche se nessuno me la riconoscesse.

Epitteto – Vita e Opere


Vita

Epitteto nacque attorno al 50-60 dopo Cristo. Molto probabilmente fu schiavo dalla nascita a servizio del liberto Epafrodito. La tradizione diverge nel riportare l’esperienza dello schiavo: c’è chi sostiene che ebbe un trattamento giusto, chi, per contrario, che n’ebbe uno irriguardoso. Tuttavia, si è certi che Epafrodito stimasse Epitteto per le sue indiscusse qualità morali. Probabilmente, perché Epitteto non era un uomo avezzo alle furberie proprie di quegli uomini che sogliono arrangiarsi come possono: egli stesso porta ad esempio il caso del servo negligente e furfante e del padrone truffato che, però, non è giustificato a tribolarsi per ciò. Nel 68 viene liberato e incomincia a professare la sua dottrina a Roma ed ha un certo seguito. La sua scuola è aperta anche alle donne, come nel caso degli epicurei e, d’altra parte, non si trova traccia di disuguaglianza tra i sessi nei discorsi di Epitteto che, invece, sembra invocare una parità filosofica più ampia e più giusta. E’ costretto ad emigrare dalla capitale del mondo per via dell’editto di Domiziano, una legge poco conosciuta e non sufficientemente documentata nei libri di storia dei licei, che vietava la libertà di parola filosofica in Roma. Epitteto, non essendo in suo potere rimediare alla legge ma essendo nelle sue possibilità continuare l’insegnamento altrove, preferisce dirigersi in altro luogo per professare liberamente la sua filosofia. Egli arriva sino a Nicopoli, città dell’Epiro, e lì vi rimane fino alla morte, avvenuta tra il 135 e il 145 dopo Cristo.

Il libro della giungla – Rudyard Kipling

 

E’ arrivato nudo, di notte, solo e affamato; eppure non aveva paura! Guarda, ha già spinto da parte uno dei miei piccoli. E quel macellaio storpio l’avrebbe ucciso e sarebbe fuggito nella valle del Waingunga, lasciando che i contadini, per vendicarsi, facessero strage di tutta la nostra cucciolata! Se voglio tenerlo? Sicuro! Sta’ tranquillo, piccolo ranocchio. Arriverà il giorno in cui tu, Mowgli – perché così ti voglio chiamare “Mowgli il Ranocchio” – darai la caccia a Shere Khan come lui ha dato la caccia a te.

Raksha – Rudyard Kipling

Il libro della giungla (1894) è un libro del premio Nobel per la letteratura, Rudyard Kipling (il cui nome “Rudyard” gli era stato conferito perché i genitori si erano fidanzati sulle rive del lago Rudyard), autore di libri come KimCapitani coraggiosi. Kipling era nato in India ma non vi rimase tutta la vita. Figlio di inglesi, fu un esponente sia in vita sia nei testi della “vita imperiale vittoriana”, di cui fu uno dei massimi cantori – esempio per tutti è la raccolta di poesie Il fardello dell’uomo bianco, il cui titolo oggi fa venire la pelle d’oca a quasi tutta l’Europa, monito di quello che si vuole dimenticare della nostra “storia europea”. Il libro della giungla sicuramente non sfugge in modo significativo alla visione del mondo di Kipling.

Aspetti evolutivi del pensiero ecologico

Gentili lettori:

Desidero segnalare l’uscita del mio ultimo lavoro sul ragionamento morale ed ecologico dei bambini, scritto a quattro mani insieme al Prof. Luca Surian (Università di Trento). La pubblicazione è disponibile qui oppure sul sito della rivista. Di seguito, invece, riporto la copertura giornalistica offerta da Brainfactor. Buona lettura.

Riscaldamento globale, inquinamento acustico e atmosferico, scarsità d’acqua, perdita di biodiversità, sono solo alcuni tra i molti problemi ambientali che minacciano lo sviluppo ecosostenibile del nostro pianeta. Molti di questi problemi dipendono da decisioni e comportamenti umani. Forse, allora, nel tentativo di generare un’inversione di rotta, e, ad esempio, pianificare interventi educativi per le nuove generazioni o favorire un cambiamento culturale rispetto ai temi dell’ambiente, può essere utile capire come le persone ragionano e come il loro ragionamento si sviluppa nei primi anni di vita.

Boxe e Filosofia – Riflessioni in libertà sullo spirito di uno sport


  1. Un piccolo preambolo

Per quanto possa apparire incredibile, dal basso della mia notoria indisciplina psicofisica, ho praticato diversi sport. In ordine: calcio (1 anno), calcetto (3 anni), canoa (15 anni), canottaggio (4 mesi) e ho girato 4 palestre per almeno 4 anni di esercizi, riuscendo una volta svenire e con risultati più o meno inutili. Sono tutti sport sicuramente interessanti e la mia affidabile canoa mi ha portato in tanti posti meravigliosi della Sardegna (da Pula a Carloforte, dall’Isola di san Macario al faro di Capo Ferrato). Ho tracciato tragitti, esplorato da solo e in tandem posti meravigliosi come il pan di Zucchero e porto Flavia. Ho ormai un equipaggiamento degno di un vero esploratore e una competenza in materia di canoe piuttosto avanzata.

Ma ho sempre avuto un piccolo desiderio. Ho sempre voluto provare uno sport di combattimento. Per questo ho fatto una lezione di prova di Aikido con il bravissimo Stefano Sabatini. Ma non era qualcosa fatto per me. Sono probabilmente troppo occidentale, per quanto nell’arte della guerra il mio amore per Sun Tzu non è sovrastato neppure da quello pur generoso per un Clausewitz o Liddell Hart, gli altri due autori su cui mi sono formato. Da tempo volevo fare Boxe. Quasi cinque mesi fa ho iniziato e spero che la mia vita mi conceda di continuare a lungo.

Mito, Simbolismo e Scienza

Joseph Campbell sostiene in Mito e Modernità [1] che nei miti risiede quel tipo di saggezza che ha permesso agli uomini di sopravvivere nel corso dei millenni e che perfino nel nostro vivere quotidiano si palesa il legame con le diverse tradizioni del passato. Scopriamo residui del mito nelle nostre azioni, nei nostri sentimenti, nei labirinti della psiche ed echi antichi nei moderni miti del progresso scientifico.

Nel Gioco Immortale di David Shenk si racconta un aneddoto dell’antica India dove gli scacchi sono un simbolo per conoscere verità nascoste. [2] Una regina aveva designato il suo unico figlio come erede al trono, ma il giovane era stato assassinato. I consiglieri del regno, cercando un modo adatto per comunicare alla sovrana la tragica notizia, si erano rivolti a un filosofo. Dopo tre giorni di silenzio e meditazione, il filosofo aveva incaricato un falegname di scolpire 32 figurine in legno di colore bianco e nero e di tagliare una pelle conciata a forma di quadrato dove venivano incisi 64 quadrati più piccoli. Sistemate le figurine sulla scacchiera, si era rivolto ad un suo discepolo dicendogli: “Questa è una guerra senza spargimento di sangue”. Dopo avergli spiegato le regole del gioco, avevano cominciato a giocare. Presto si era sparsa nel regno la voce di una misteriosa invenzione e la regina aveva convocato il filosofo per una spiegazione. Era rimasta ad osservare il filosofo mentre giocava col suo discepolo e quando uno dei contendenti aveva finalmente dato lo scaccomatto all’avversario, la regina, comprendendo il messaggio nascosto nella rappresentazione simbolica, si era rivolta al filosofo dicendo: “Mio figlio è morto”. Il filosofo aveva annuito e la regina si era allora rivolta alla guardia reale del palazzo dicendogli : “Lascia che il popolo entri a consolarmi.” Storie simili sono centinaia, forse migliaia. Quando le veniamo a conoscere non importa tanto sapere se siano storicamente accertate, quanto il messaggio simbolico che esse esprimono.