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Russell, tra l’atomismo logico e i Principia Matematica

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Consigliamo –Le ricerche filosofiche e il secondo Wittgenstein


Opere

Opera Data
Saggi sui fondamenti della geometria. 1897
Esposizione critica del pensiero di Leibniz 1900
Principi della matematica 1903
Sulla denotazione 1905
Principia Matematica 1910-13
Elementi di Etica 1910 1910
I problemi della filosofia 1912
La nostra conoscenza del mondo 1914
Filosofia dell’atomismo logico 1918-19
Introduzione alla filosofia matematica 1919
Teoria e pratica del bolscevismo 1920
L’analisi della mente 1921
Perché non sono cristiano 1927
Matrimonio e morale 1927
L’analisi della materia 1927
Teoria e organizzazione 1932
Educazione e ordine sociale 1932
Storia delle idee del XIX 1934
Il potere 1938
Ricerca su significato e verità 1940
Storia della filosofia occidentale 1945
La conoscenza umana 1948
Logica e conoscenza 1956
Il mio sviluppo filosofico 1959
Autobiografia 1967
Teoria della conoscenza ( abbandonato ) 1983

Schema di ragionamento

Ipotesi R(russell)1: il linguaggio è composto da proposizioni.

Specifica a: le proposizioni sono di due generi: elementari e complesse.

Ipotesi R2: le proposizioni elementari sono composte da nomi e predicati.

Specifica a: i nomi sono simboli semplici che denotano uno e un solo oggetto.

Specifica b: i predicati sono dei verbi e sono delle funzioni proposizionali della forma f(x), dove la “f” sta per il predicato mentre la “x” per uno dei nomi che possono soddisfare o meno il predicato.

Specifica c: solo delle proposizioni si può predicare che esse siano vere o false, ovvero solo le proposizioni ammettono dei criteri di verità.

Spiegazione I: i nomi denotano un solo oggetto e per questo non sono né veri né falsi. Ci si può legittimamente chiedere se un nome sia solo un suono oppure sia effettivamente un simbolo che sta nel linguaggio al posto dell’oggetto, ma non ci si può chiedere se esso sia vero o falso.

Ipotesi R3: le proposizioni elementari denotano fatti.

Specifica a: la denotazione è ciò a cui rimanda una certa espressione linguistica.

Specifica b: un nome denota un oggetto, un predicato denota una qualità, una proprietà di oggetti oppure relazioni.

Spiegazione I: oggetti, proprietà, relazioni sono, secondo Russell, tre generi di “entità” distinte irriducibili le une con le altre. Sono da tenere separate le tre componenti e confondere relazioni con proprietà o provare a riscrivere o interpretare le proprietà con le relazioni o viceversa implicherebbe senza dubbio fallacie ( questa è l’opinione di Russell ).

!Spiegazione II: abbiamo già trovato degli “atomi” logici del discorso di Russell: oggetti, proprietà, relazioni sono entità non ulteriormente riducibili da considerare come “semplici”. Logicamente sorgono delle difficoltà non nel considerare “oggetti”, “proprietà” e “relazioni” come semplici ma nel considerare la definizioni di “oggetti” come semplici.

!!Spiegazione III: è evidente come nel linguaggio delle proposizioni elementari i nomi e i predicati si comportino in modo essenzialmente diverso e di come nomi e predicati non sono ulteriormente scomponibili all’interno della proposizione elementare. Ma se prendiamo il predicato o il nome a prescindere dalla proposizione elementare allora sorgono dei problemi nel stabilire ciò che è semplice da ciò che è complesso. Prendiamo, per esempio, il nome di una città: “Milano”. “Milano” è chiaramente un nome e si comporta come tale nel linguaggio: in ogni proposizione sensata ( che esprima un fatto ) “Milano” occorre come nome e non come predicato. Considerare però “Milano” come un oggetto semplice è chiaramente una proposta un po’ azzardata: Milano è composta da un milione e mezzo di persone, da moltissime automobili e da non so quanti palazzi. Dall’oggetto “Milano” si tirano fuori molte cose. Russell sostiene che ciò sia vero, ma che, in ogni caso, Milano sia da considerare come “semplice” nel linguaggio, non che non sia a sua volta passibile di ulteriori analisi: analisi non va confusa con definizione rigorosa e, in questo senso, un’analisi può essere anche molto dettagliata. Egli propone di considerare Milano come un “semplice” nel linguaggio.

Specifica c: una proposizione elementare o è vera o è falsa, non si danno altre possibilità. Se una proposizione elementare esprime uno e un solo fatto allora essa sarà vera se il fatto sussisterà, sarà falsa se il fatto non c’è. Di qualsiasi proposizione elementare o è vera la sua affermazione e falsa la sua negazione oppure è falsa la sua affermazione e vera la sua negazione. Chiedersi se una proposizione ha un significato, per Russell, equivale a chiedersi se essa sia vera o falsa. Per comprendere una proposizione bisogna conoscere i significati delle parole: comprendere una proposizione non significa, però, sapere se essa sia vera o falsa.

            Ex.: “Il computer è sul tavolo” è una proposizione elementare in quanto è costituita a) da un nome “computer”, b) da un predicato “esser-sul tavolo”. Il nome “computer” denota un oggetto ben preciso, il predicato denota una proprietà di quell’oggetto. Supponendo che si conosca quale computer sia indicato dall’espressione, per sapere se la proposizione sia vera oppure falsa non c’è altro modo di andare a vedere nella realtà se esista o meno una certa corrispondenza tra linguaggio e realtà di fatto. Se c’è effettivamente quel computer sul tavolo allora la frase sarà vera, falsa altrimenti.

Ipotesi R4: le proposizioni elementari possono essere uniti da operatori logici.

Specifica a: gli operatori logici sono gli operatori verofunzionali come “e”, “o”, “non” ecc..

Specifica b: le proposizioni molecolari sono ottenute mediante la composizione delle proposizioni elementari con altre proposizioni elementari attraverso l’uso di operatori verofunzionali.

Specifica c: le proposizioni complesse sono della forma “f(x) e g(x)” intendendo “f(x)” e “g(x)” la forma pura delle proposizioni elementari.

Inferenza: se si può predicare verità o falsità delle proposizioni elementari, se le proposizioni molecolari sono ottenute dalle proposizioni elementari, se le proposizioni elementari possono denotare o meno qualcosa allora anche le proposizioni molecolari possono essere vere o false e denotare qualcosa.

Tesi Ri: Dunque, anche le proposizioni molecolari possono essere vere o false e denotare qualcosa.

Specifica a: la denotazione di un fatto spetta alle proposizioni elementari, più proposizioni elementari denotano più fatti. Dunque, una proposizione complessa denota più fatti, per tale ragione essa arriva a denotare le cose in modo diverso dalle proposizioni elementari.

Specifica b: intanto, per comprendere il meccanismo delle proposizioni bisogna sempre chiedersi quando esse siano vere o false. Quando una proposizione molecolare è vera? Abbiamo detto che essa è ottenuta per “composizione” da una o più proposizioni elementari con un operatore logico. La verità o falsità implicherà tanto la presenza della verità o falsità delle proposizioni atomiche quanto la relazione di queste posta dall’operatore verofunzionale. “P” e “Q” sono due proposizioni qualsiasi: “P e Q” è vera se e solo se sia “P” che “Q” sono vere, l’operatore “e” implica proprio questo: che solo se entrambe le proposizioni in relazione sono vere allora la proposizione risultante sarà vera. Naturalmente, il discorso è diverso per operatori funzionali diversi: “P” e “Q” sono proposizioni qualunque: “P o Q” è vera se “P” è vera e “Q” è falsa, se “P” è falsa e “Q” è vera, oppure se entrambe sono vere.

Specifica c: come vediamo, nel caso delle proposizioni complesse, la relazione tra proposizione/denotazione è diversa che nel caso delle proposizioni elementari: la proposizione elementare denota direttamente un fatto e non richiede alcuna analisi per comprendere se sia vera o falsa, diverso è il discorso per le proposizioni molecolari.

Ipotesi R5: le proposizioni esistenziali e universali sono delle funzioni proposizionali.

Specifica a: le proposizioni esistenziali sono della forma “un così e così predicato”, “Romolo è esistito” ecc..

Specifica b: le proposizioni universali sono della forma “tutti gli x sono y”, “tutti i gatti miagolano” ecc..

Specifica c: le proposizioni esistenziali sono negazioni di proposizioni universali ( oppure le proposizioni universali sono negazioni di quelle esistenziali ). Per tale ragione le proposizioni universali ed esistenziali si possono riscrivere l’una nei termini dell’altra.

!!Specifica d: le proposizioni contenenti un esistenziale, come quelle contenente un universale, si comportano in modo diverso da semplici proposizioni elementari. Ciò che non va frainteso, e Russell insiste molto su questo esattamente come Frege, è che né l’universale né l’esistenziale debbano essere considerati come nomi propri o come se fossero nomi propri: una delle ragioni, ormai quasi universalmente accettate, della lenta affermazione della logica simbolica moderna è stato proprio il fatto che per secoli non si è riusciti a considerare questi quantificatori diversi da nomi. Per tale ragione Russell insiste spesso nel dire che la logica “soggetto/predicato” ( ovvero il pensare equivalenti il comportamento dei soggetti grammaticali anche quando sono simboli logici estremamente diversi –come nomi e, per esempio, descrizioni[1]-) sia stata una delle cause di moltiplicazione di problemi filosofici inutili.

Specifica e: Esiste un cellulare ed è rosso può essere inteso in questo modo: “Esiste(x), Rosso(x)” cioè bisogna abituarsi a considerare esistenziali e universali non come “nomi” ma come espressioni di “insiemi di unità” o “funzioni”. Per tale ragione, una frase come “tutti gli uomini sono mortali”, come Russell spiega bene nella sua analisi nei Principi della Matematica è da considerare in questo modo: “tutti gli elementi –uomo- sono dotati della proprietà –mortale-”. Scrivendo la frase in logica “Qx ( uomo(x), mortale(x)). Come si vede, esiste una doppia funzione: la prima è rappresentata dal predicato ( in questo caso, l’esser mortale ), la seconda è il quantificatore.

Specifica f: a questo punto bisogna andare a chiedersi quando le frasi universali ed esistenziali siano vere o false. Una frase esistenziale è vera quando esiste almeno un’entità che soddisfa la funzione esistenziale: “C’è un gatto sopra la finestra” è vera se esiste almeno un gatto sopra la finestra, la frase sarebbe vera anche qualora i gatti fossero due. Mentre una frase universale è vera se e solo se tutte le entità determinate dal quantificatore soddisfano la proposizione in questione: “Tutte le vacche sono nere” è falsa perché non tutte le vacche sono effettivamente nere ( con un esempio del genere Hegel criticò Schelling ).

Ipotesi R6: una teoria è un insieme di proposizioni tali che alcune siano premesse, altre deduzioni delle premesse.

Specifica a: una teoria sarà coerente se deduce tutti i suoi teoremi a partire dalle sue sole premesse e dalle regole della logica.

Specifica b: una teoria sarà incoerente se alcune delle sue deduzioni sono false, se alcune delle sue deduzioni sono incoerenti con le regole della logica.

Spiegazione I: il fatto che un certo teorema di una teoria possa effettivamente essere incoerente non implica che una teoria sia in blocco da abbandonare, ma che quella sua parte sia da rivedere. Se per poche incoerenze una teoria fosse da abbandonare allora non ci sarebbe molto da fare per la conoscenza: la stessa regina delle scienze, la fisica, è stata nel tempo, vittima di molte incoerenze e idee scorrette, non per ciò l’abbiamo abbandonata.

Inferenza: se una teoria è un insieme di proposizioni tali che alcune siano premesse, altre deduzioni delle premesse, se le deduzioni possono essere seguite in maniera illogica, se possono esistere delle premesse superflue allora qualunque teoria può essere sottoposta a analisi.

Tesi Rii: dunque qualunque teoria può essere sottoposta ad analisi.

Specifica a: l’idea è semplice e intelligente: qualsiasi teoria umana nasce nella vaghezza e non può che essere così. In questo senso, dalla vaghezza nascono sia delle definizioni molto accurate che diverranno premesse, altre sono invece destinate a rimanere ambigue se non del tutto errate. Tuttavia, nella fase di elaborazione della teoria, viene conservato tutto in quanto non si è ancora del tutto consapevoli di ciò che va emendato, ripulito o chiarito da ciò che invece non necessita di alcun chiarimento. In questo senso, l’analisi logica 1) è successiva alla costituzione della teoria, 2) deve eliminare le imperfezioni della teoria.

Inferenza: se qualunque teoria può essere sottoposta ad analisi, se qualunque teoria ammette delle imperfezioni ( specifica a e inferenza precedente ) allora qualsiasi teoria può essere emendata dalle incoerenze.

Tesi Riii: dunque qualunque teoria può essere emendata dalle incoerenze.

Spiegazione I: è di una certa rilevanza notare come l’emendazione della teoria da parte della logica sopraggiunga quando il momento della costituzione della teoria è già ampiamente superata, ovvero la chiarificazione segue alla vaghezza e la teoria non nasce già chiara di per sé. Per “teoria” Russell senza dubbio si riferisce soprattutto alle immagini scientifiche del mondo che, per quanto scientifiche, ammettono errori ed incoerenze.

Inferenza: se qualunque teoria può essere sottoposta ad analisi, se qualunque teoria ammette delle imperfezioni, se qualunque teoria può essere emendata dalle incoerenze allora ci deve essere una scienza che studi i modi di eliminare le incoerenze.

Tesi Riv: dunque ci deve essere una scienza che studi i modi di eliminare le incoerenze.

Specifica a: tale scienza è, come sarà di per sé evidente, la logica.

Inferenza: se ci deve essere una scienza che studi i modi di eliminare le incoerenze, se la logica è lo studio delle regole di inferenza a prescindere dalle determinazioni particolari, allora l’analisi logica può emendare le teorie dalle loro incoerenze.

Tesi Rv: dunque, l’analisi può emendare le teorie delle loro incoerenze.

Specifica a: l’analisi logica applicata alle teorie scientifiche, filosofiche, ha lo scopo di ripulirle dalle incoerenze: come il chirurgo o l’oncologo curano i pazienti affetti da “malattie incurabili”[2].

Inferenza: se una teoria è composta da proposizioni elementari e complesse, se una teoria è composta da premesse e da deduzioni, se le deduzioni possono essere fallaci allora una teoria epurata dall’analisi deve avere tutte le premesse necessarie a inferire tutte le deduzioni vere della teoria.

Tesi Rvi: dunque, una teoria epurata dall’analisi deve avere tutte le premesse necessarie ad inferire tutte le deduzioni vere della teoria.

Specifica a: in qualsiasi campo esiste un certo principio di “conservazione del valore di verità”, in una dimostrazione, per esempio, la verità delle premesse deve essere conservata dalle conclusioni cosicché se una deduzione è falsa o è falsa una delle premesse ( conservazione del valore di verità della premessa ) oppure è c’è qualche fallacia di mezzo. Negli scacchi, per esempio, esiste la legge dell’accumulo esprimibile in questo modo: “a vantaggio si somma vantaggio e a svantaggio si somma svantaggio”, di conseguenza se una mossa porta vantaggio non porta svantaggio e viceversa.

Specifica b: dunque, possiamo fissare dei parametri per definire se un’analisi logica è positiva o meno:

  1. tutte le verità della teoria di partenza sono ottenute dalla nuova teoria ripulita.
  2. la nuova teoria consente di dedurre nuovi teoremi deducibili anche dalla teoria non emendata.
  3. la nuova teoria è identica alla vecchia per contenuto ma non per forma: la forma della nuova teoria è chiara e coerente rispetto al maggiore contenuto di ambiguità e vaghezza della teoria precedente[3].

Inferenza: se una teoria è composta da premesse, se esistono premesse che non portano alcuna deduzione, se l’analisi logica può epurare una teoria allora le premesse che non portano alcuna deduzione possono essere eliminate.

Tesi Rvii: dunque, le premesse che non portano alcuna deduzione, possono essere eliminate.

Specifica a: come correttamente ci dice lo stesso Russell, quest’idea è la medesima che aveva Occam, nota come “rasoio di Occam”. L’idea del filosofo medioevale era quello di rispettare una delle leggi della natura: la natura ama il semplice, per tale ragione è consigliabile che qualsiasi analisi che voglia dir qualcosa, rispetti questa semplicità. Dunque, il superfluo va eliminato.

Specifica b: “il superfluo va eliminato” non è una condanna di tipo estetico ma risponde ad una precisa ragione logica: tante più sono le premesse in un discorso e tanto più aumenta la possibilità di errore. Come diceva qualcuno: meno si dice e meno c’è la possibilità di sbagliare. Naturalmente, col rasoio di Occam si deve tagliare la “barba” non “il collo” dunque, in ogni caso, ciò che deve cadere sono i simboli incompleti, le espressioni ambigue, le premesse da cui non segue nulla.

Inferenza: se una teoria è epurata dalla logica, se la teoria risultante è chiarificata e ricostituita alla luce dell’analisi logica, se la teoria risultante avrà meno premesse[4][5], se la teoria risultante avrà solo le deduzioni coerenti e “utili”, allora la teoria risultante sarà costituita solo dalle nozioni necessarie e sufficienti per l’esplicitazione delle sue deduzioni vere.

Tesi Rviii: dunque, la teoria risultante sarà costituita solo dalle nozioni necessarie e sufficienti per l’esplicitazione delle sue deduzioni vere.

Specifica a: questo minimalismo nozionale della teoria prende un nome preciso: vocabolario minimo.

Filosofia

Atomismo logico nel linguaggio

Brevissima introduzione all’atomismo logico

La filosofia dell’atomismo logico è soprattutto un’idea riassuntiva di un momento filosofico/biografico di Russell. In realtà, non è né un momento di affermazione particolare né un momento di chiarificazione assoluto, il periodo dell’atomismo logico è periodo di passaggio, per tutti coloro che, più o meno esplicitamente, si sono rifatti ad una concezione atomista in filosofia: Russell, Wittghenstein, alcuni personaggi del circolo di Vienna.

A ben vedere “atomismo logico” è uno slogan efficace, in apparenza, tuttavia, senza aver già una certa idea di cosa si designa con esso, non è affatto ovvio capire che tipo di filosofia indichi: una filosofia atomista, certo, ma che cosa vuol dire?

Una filosofia atomista, in linea di principio, ha come concezione fondamentale l’idea che esistano degli “atomi” plurali e distinti, gli uni dagli altri, che compongono la realtà (che si intende comprendere) nella sua interezza. Una filosofia atomista è una filosofia che rifiuta l’idea che la realtà sia una o quel che concepisce (per esempio il linguaggio): non è un caso che Russell di continuo polemizzi con quel che egli chiama “monismo neutrale”, una visione metafisica che concepisce la realtà come unità d’essere, frammentata per divisione in una pluralità apparente.

Le filosofie atomiste sono sempre state abbastanza marginali nella storia della filosofia, la prima è certamente quella di Democrito e, successivamente, quella di Epicuro. La filosofia di Democrito concepisce una realtà atomica inconoscibile mediante i sensi e comprensibile solo mediante ragione: tutto era, dunque, determinato dal solo movimento degli atomi. Per Epicuro, invece, esiste una realtà subatomica inconoscibile dalla ragione, tuttavia la realtà non era pienamente conoscibile dalla ragione giacché il movimento degli atomi è, talvolta, irregolare: ammette declinazioni. La “rigidità” determinista di Democrito porta il filosofo ad elaborare una teoria assoluta della conoscenza: la ragione, una volta presa coscienza degli atomi, può arrivare a conoscere precisamente passato, presente e futuro tenendo conto della realtà. Gli atomi democritei non conoscono irregolarità, dunque, possono essere oggetto di computazione senza possibilità di errore. Per Epicuro le cose stanno in modo diverso proprio perché egli pone una possibilità di deviazione del moto degli atomi dalla loro traiettoria: anche nella conoscenza esisterà sempre qualcosa di indeterminato. E Epicuro prova la sua teoria portando un esempio “scomodo” per la cultura greca del tempo: le meteore. Il cielo, nel mondo antico, era una volta perfetta, eterna. Se nella terra la disarmonia era vincente rispetto all’armonia, nel cielo l’armonia era ripristinata dall’ordine assoluto, dall’assenza di variazione. Epicuro mostra che neanche nel cielo c’è l’essere-assolutamente determinato perché esistono i corpi celesti irregolari, di moto e mutamento irregolare, le meteore, per l’appunto.

Se la filosofia dell’atomismo logico di Russell è una filosofia atomista, allora deve conservare qualche cosa dell’impostazione teorica delle teorie precedenti. Ed egli infatti mantiene l’idea che esistano delle entità separate: ma che tipo di realtà Russell pensi è da precisare.

“Filosofia dell’atomismo logico” è una descrizione che contiene un aggettivo: “Logico”. Dunque, l’analisi di Russell non si pone, quanto meno al principio, lo scopo di individuare gli elementi ultimi della realtà, ma gli elementi ultimi del linguaggio, realtà linguistica da pensarsi come esatta, dunque, logica.

Il problema chiave, punto da tener presente, è quello della denotazione: il significato dei termini in che modo si rapporta al linguaggio? E il linguaggio, i simboli semplici, complessi, come riescono a denotare qualcosa, come possono i simboli avere un significato? Questo problema è di tipo semantico e già Frege aveva cercato di rispondere alla questione, tuttavia, Russell, evidentemente, non ne era soddisfatto, in particolare nei riguardi della soluzione fregeana delle descrizioni[6].

La questione è questa: i simboli si relazionano agli oggetti e si sostituiscono ad essi nel linguaggio, quando sono simboli capaci di denotare qualcosa ( come i nomi, gli operatori verofunzionali come “non”, “o”, “e” non denotano alcun che, motivo per il quale sia Russell che Wittghenstein insistono sul fatto che sia impossibile pensare a quelli come a simboli dotati di una realtà extralinguistica: se andassimo a cercare il significato di “o” nel mondo non otterremmo alcun che ). Le “denotazioni” delle parole sono di ambito diverso e sono irriducibili tra loro, questa è l’idea di Russell: un nome denota un oggetto, una funzione proposizionale associa ad un nome una proprietà ( dunque, in senso astratto, denota una proprietà ), una proposizione denota un fatto e una proposizione molecolare denota un fatto complesso, una funzione proposizionale può denotare relazioni. L’atomismo logico parte da qui: dalla presa di coscienza che “oggetti”, “proprietà”, “relazioni” siano denotate in modo diverso perché nella realtà sono cose diverse e irriducibili le une con le altre.

Fissiamo delle definizioni per capire se una filosofia è atomista oppure no:

a) una filosofia atomista ha come premesse atomi qualunque sia la realtà che intende analizzare,

b) un ragionamento interno ad una filosofia atomista non può negare la stessa premessa di atomismo,

c) un ragionamento di una filosofia atomista è vero se e solo se è determinato dalle sole premesse,

La visione di Russell rispetta tutte queste definizioni e, per ciò, è pienamente concepibile come atomista, l’ambito a cui si applica è, più che alla logica, alla semantica.

I componenti del linguaggio

A questo punto possiamo procedere nella concezione di Russell. Se l’atomismo logico è un’impostazione corretta, deve giungere ad una visione linguistica completa, in altre parole deve riuscire a raggiungere qualsiasi tipo di denotazione senza cadere in contraddizione: il programma di Russell è quello di definire come il linguaggio arrivi a denotare le cose.

Il punto di partenza è l’analisi delle proposizioni e ne esistono di due generi: proposizioni atomiche e proposizioni molecolari. Le proposizioni atomiche sono, per così dire, elementari e sono della forma logica “F(x)” dove la “F” sta per un nome e la “x” sta per un verbo. In questo senso, le componenti di una proposizione atomica sono due e svolgono due ruoli diversi. La forma logica di una proposizione molecolare è del tipo “F(x) e G(x)”, oppure “F(x) o G(x)” e così via. In termini semplici: una proposizione molecolare è ottenuta da due proposizioni atomiche riunite entrambe da un operatore verofunzionale. La complessità di una proposizione complessa cresce tanto più è elevato il numero di operatori verofunzionali e, dunque, di proposizioni elementari contenute in essa.

Per capire l’intero linguaggio, bisogna capire il funzionamento delle proposizioni atomiche, considerato che esse sono alla base di quelle complesse. Per capire una proposizione bisogna sapere:

a)quali sono i simboli contenuti all’interno,

b)quale è la denotazione dei simboli,

c)esprimere quale è la realtà compiuta della proposizione,

d)esprimere quando una proposizione sia vera o falsa.

I simboli contenuti all’interno di una proposizione sono nomi e verbi, i nomi denotano oggetti, i verbi denotano proprietà degli oggetti. Di per sé i nomi non hanno alcun senso al di fuori del linguaggio, nel senso che dei nomi non si può dire né che essi siano veri né falsi. La verità e la falsità si può predicare solo delle proposizioni ed è una loro caratteristica. Per quanto riguarda i predicati, abbiamo già detto che essi possono esprimere o relazioni o proprietà e relazioni e proprietà non sono riducibili l’una all’altra e viceversa. Un esempio di predicato relazionale è il verbo “amare”. “x ama y” è un predicato a due posti che relazione “x” e “y”. Mentre, per quanto riguarda un esempio di predicato che esprima proprietà: “x è rosso”.

Dei termini semplici di una proposizione non si può dire che essi siano veri o falsi: per Russell se ad un nome non è associato un oggetto nel mondo il nome non è un nome, ma un suono privo di una funzione linguistica: Russell insiste molto su questo concetto. Ma nemmeno di un predicato si può dire se esso sia vero o falso: “x è rosso” è indecidibile in quanto non si può né assentire né dissentire fintanto che alla “x” non è sostituito un nome.

 

Proposizioni elementari

Una proposizione elementare è definita dalla sua forma, ma la sola forma non è sufficiente ad esprimere alcun che di significato: essa apparterrebbe alla logica pura, materia che studia le proposizioni più generali possibili a prescindere dalla loro determinazione particolare. D’altra parte, la logica pura non dà alcuna informazione intorno al mondo ma stabilisce a priori il deducibile e il non deducibile. Per Russell la funzione della logica è, come vedremo, di estrema importanza, perché è ciò che può far discernere ciò che è sensato da ciò che è assurdo.

Le proposizioni elementari sono determinate dai nomi e dalle funzioni proposizionali e denotano qualcosa di più di ciò che denotano i nomi o i predicati: esse denotano un fatto. “La penna è rossa” è un fatto ovvero è l’attribuzione di una proprietà ad un oggetto. La proposizione elementare può essere vera o falsa e sarà vera se essa ha un corrispettivo nella realtà, sarà falsa altrimenti. E’ importante notare che una proposizione elementare denota le cose in modo molto diverso che i nomi gli oggetti o i predicati le proprietà o relazioni. Ad ogni oggetto corrisponde un nome ( in un linguaggio logico ), ma ad ogni fatto corrispondono sempre due proposizioni: prendiamo il caso che la penna sia rossa, possiamo esprimere questo fatto sia asserendolo sia negandolo: “la penna è rossa” e “la penna non è rossa”, queste due proposizioni sono esprimibili a partire dallo stesso fatto. Naturalmente, solo una delle due è vera, ma entrambe le asserzioni sono giustificate dallo stesso fatto.

E’ interessante notare che il nodo cruciale dell’analisi di Russell de “La filosofia dell’atomismo logico” ruoti attorno alla concezione della proposizione come composto di elementi. Il paradosso sta nel fatto che sia gli elementi della proposizione che la proposizione elementare stessa non sono di per sé degli elementi elementari, se così si può dire: la proposizione è l’atomo del linguaggio senza cui non avrebbe alcun senso nessuna espressione linguistica quale che sia, contemporaneamente nemmeno i nomi o i predicati riescono a dare un’immagine chiara di elementarità. Un nome designa quasi sempre un’entità complessa, a sua volta scomponibile in altri modi e, dunque, si può ben discutere se un nome rimandi ad una realtà “elementare” oppure no. L’idea di Russell è quella di considerare “atomico” tutto ciò che svolge una funzione non ulteriormente riducibile nel linguaggio come tale, a prescindere dal fatto che un nome rimandi o meno ad una realtà non ulteriormente scomponibile: quando indichiamo il nome di una piazza ( Russell si rifà a Piccadilly ) stiamo chiaramente indicando qualcosa di molto complesso, ancora più evidente risulterà da un nome di città ( una città è un complesso enorme di cose, di persone eppure, nel linguaggio, è usato come se, per esempio, “Cagliari” fosse una sola cosa ).

Se andiamo a vedere, sorge immediatamente un ragionevole dubbio in questa posizione: essa infatti non tiene conto della possibilità di formare delle proposizioni a partire da descrizioni definite più verbo. Ciò è dovuto al fatto che per Russell i nomi possono denotare gli oggetti in quanto sono simboli costituiti esclusivamente da un simbolo ( sono quindi “simboli semplici” ) mentre le descrizioni definite sono della forma “il così e così” come “il computer di Giangi Pili” ed è quindi evidente che le descrizioni definite non sono simboli semplici. Inoltre, per Russell una descrizione definita è semplicemente l’espressione di unicità di un elemento in un insieme: “il computer di Giangi” non è equivalente ad un nome che stia per esso in quanto “il computer di Giangi” sta per “esiste uno e un solo computer che è di Giangi” e cioè “esiste una certa entità tra altre dello stesso genere, ma solo a quella appartiene una certa determinata proprietà”: la descrizione, insomma, deve sparire ed essere riscritta. Russell difende l’idea ricordando che vengono utilizzati in una frase che contenga il verbo essere una descrizione definita e un nome che denotano la stessa cosa, la frase risultante non sarà in ogni caso un’identità ( l’identità è la relazione che un oggetto ha con se stesso come “Il computer è il computer” ): “Superman è il supereroe” è diverso da “Superman è Superman” secondo Russell proprio in quanto “il supereroe” non denota un oggetto allo stesso modo che “Superman” e, insiste, se le cose stessero in maniera diversa la frase “Superman è il supereroe” sarebbe in tutto identica a “Superman è Superman”[7].

Proposizioni molecolari

La denotazione delle proposizioni complesse è diversa dalla denotazione delle proposizioni elementari in quanto una proposizione elementare si riferisce ad un fatto diversamente da come una proposizione complessa si riferisce ai suoi fatti referenti. Una proposizione complessa, per essere compresa, deve essere scomposta nelle relative proposizioni elementari. Per comprendere se una proposizione di tal fatta sia vera o falsa bisogna prima di tutto chiedersi se le proposizioni elementari che la compongono siano vere o false, in un secondo momento vedere se le connessioni tra le varie frasi elementari siano corrette oppure no: “Paolo è seduto su una sedia e Giovanna mangia” per sapere se questa frase è vera prima di tutto bisogna sapere se “Paolo è seduto su una sedia” è vera o falsa, stessa cosa dicasi per “Giovanna mangia”; prendiamo il caso in cui sia vera la prima frase e falsa la seconda: la proposizione complessa risulterà falsa in quanto l’operatore “e” compone frasi vere ( nell’unione ) solo se entrambe le frasi sono vere. Se al posto dell’operatore “e” ci fosse stato “o” allora la frase sarebbe stata vera perché poneva un’alternativa e per la sua verità sarebbe bastato che una delle due frasi fosse vera perché l’intera frase fosse effettivamente vera.

Proposizioni esistenziali e universali

Dopo aver analizzato le proposizioni elementari e quelle complesse, Russell passa in rassegna le proposizioni esistenziali e quelle universali. Le proposizioni esistenziali sono della forma “esiste x” mentre quelle universali “tutti gli x”. Russell concorda con Frege nel sostenere che tanto gli esistenziali quanto gli universali non debbano essere analizzati in termini di “soggetto-predicato” ma in termini di funzioni proposizionali. In altre parole in “tutti gli uomini sono mortali” ( frase universale ) “tutti gli uomini” non è da considerare come un nome, come il soggetto della frase, ma va considerata in modo diverso. Russell, come Frege, insiste molto su questo punto in quanto è stato il “pregiudizio” che ha tenuto la logica ferma per circa duemila anni, Russell, in particolare, ribadisce di continuo che la logica “soggetto/predicato” ha determinato incomprensioni irreversibili nella storia della filosofia: in particolare ha fatto convincere che le attribuzioni linguistiche dovevano implicare realtà esistenti.

“Esiste un x” è la negazione dell’universale “tutti gli x”: “non tutti gli x non…”. L’esistenziale si può riscrivere nei termini dell’universale e viceversa. “Esiste un x” e “Tutti gli x” costituiscono delle funzioni proposizionali di secondo livello. “Una palla da basket è nel cortile” può essere riscritta logicamente in questo modo “Ex (palla da basket (x), nel cortile (x))” in altre parole: esiste un’entità che è una palla ed è nel cortile. Stesso ragionamento vale per l’universale. Russell infatti afferma che una frase esistenziale vera, se è talvolta vera ( indicando che è vero solo per alcune entità di quelle indicate, non per tutte, per esempio, “una palla da basket è nel cortile” è vera se c’è almeno una palla da basket che è nel cortile ) mentre una frase universale è vera solo qualora sia vera per tutte le entità.

A questo punto è interessante l’osservazione che Russell fa sulle frasi universali: esse non sono comprensibili a partire esclusivamente da un atto di conoscenza empirica. Per capire “tutti gli uomini sono mortali” non è possibile pensare che si possa conoscere ogni uomo né tale operazione è mai risultata possibile. Se per capire una frase bisogna conoscere i suoi componenti, allora una frase universale non sarebbe mai comprensibile, nella misura in cui richiede quasi sempre una conoscenza decisamente più vasta di quella che possiamo avere. Invece, quando noi diciamo “tutti gli uomini sono mortali” comprendiamo benissimo cosa stiamo dicendo e cioè che ad ogni entità “uomo” corrisponde una certa proprietà “mortale” tale che se compare un’entità “uomo” compare la proprietà “mortale”. Questa analisi, in ogni caso, non è passibile di sperimentazione empirica e, secondo Russell, è dovuta alla stessa natura della logica linguistica ( e mentale ).

Metodologia e nozione di analisi

L’impostazione logica linguistica per Russell è un discorso preliminare insostituibile in quanto è la guida stessa nella filosofia. Una dei punti stabili della filosofia di Russell non è stata tanto la visione che egli aveva della logica o dell’epistemologia, egli cambiò più volte la sua opinione. Tuttavia un tema rimase abbastanza stabile: l’impostazione metodologica di fondo e “lo spirito” di base: da un lato la logica, dall’altro la volontà di vedere e dire le cose con chiarezza[8].

La metodologia è elaborata dalla logica e permette di scindere le conclusioni ambigue o direttamente errate di una teoria. Per Russell una teoria nasce irrimediabilmente da un sostrato ambiguo che, lentamente, determina poi delle “selezioni” di premesse chiare ma non evidenti all’interno della teoria stessa. Per raggiungere una certa chiarezza in una teoria bisogna dunque procedere nell’analisi logica così da poter sfrondare l’eccesso, l’errato e l’oscuro. Una volta compiuta questa operazione, una sistematica decostruzione della teoria, si deve procedere a distinguere le premesse e le conclusioni e procedere così a “rimontare” la teoria fino a che la stessa non risulta emendata del tutto da errori e imprecisioni. In fine si può anche procedere a dedurre nuove informazioni stesse dalla teoria.

I passi del metodo di Russell potrebbero essere riassunti in questi:

a) scelta della teoria da analizzare,

b) decostruzione della teoria,

  1. riconoscimento delle premesse essenziali,
  2. emendazione da errori eventuali,
  3. emendazione da ambiguità o oscurità eventuali,

c) ricostruzione della teoria emendata dall’analisi logica,

d) deduzioni eventuali,

Tale metodo russelliano parte sempre da un certo sostrato ambiguo, una teoria complessa o un abbozzo di teoria e cerca di raggiungere una chiarezza nell’intrico. Ciò è importante da notare in quanto, spesso, oggi si assiste al fenomeno inverso: la costituzione di idee o teorie a partire da asettiche frasi apparentemente chiare.

Lo scopo dell’analisi di Russell deve portare a quel che si chiama “vocabolario minimo” in cui sono contenute tutte le premesse della vecchia teoria non emendata, dunque, tutte le possibili deduzioni di quella esplicitate con maggiore rigore e chiarezza.

Anche in questa idea (o utopia) del “vocabolario minimo” di Russell si legge l’ispirazione atomista della sua impostazione: l’idea, cioè, che una teoria si riconducibile esclusivamente ai suoi atomi e alle conseguenze di quelli.

Metafisica dell’atomismo logico

I problemi dell’atomismo logico di Russell, paradossalmente, saltano fuori al di là del recinto della logica e il problema non è nemmeno di piccole dimensioni nella misura in cui riguarda, in un certo senso almeno, la denotazione: cosa è elemento semplice per Russell, esistono effettivamente degli elementi semplici in natura? In realtà, a queste domande non esiste una risposta definitiva, almeno non nel Russell dell’atomismo logico.

La proposta di Russell è di tipo empirista ed è intimamente legata alla sua visione della conoscenza. Per esser precisi, Russell non è dell’avviso che si possa fare a meno, nell’analisi delle denotazioni ( o di ciò che sta sotto e sopra il linguaggio ) di una certa analisi epistemologica, una analisi volta alla comprensione di cosa e come noi conosciamo. In questo senso, egli sostiene in alcuni passi, la cosa sfugge ad un punto di vista puramente scientifico in quanto, in tale analisi, esiste sempre un certo margine di soggettività. Ciò che noi possiamo dire di conoscere sono solo i dati di esperienza, in altri termini, esclusivamente delle sensazioni che sono di carattere estremamente mutevole e cangiante. Russell è estremamente preciso nel sostenere che ciò che ci è dato conoscere effettivamente e al di là di ogni possibile dubbio è proprio la singola percezione di un “semplice”, base di ogni nostra conoscenza.

Un “semplice” dato di esperienza è una data percezione di qualcosa e può essere denotata tramite un “questo”, “quello” e altri pronomi dimostrativi che possono stare per entità note solo a chi ne sta provando l’esperienza. In altri termini solo “questo” e “quello” possono esser considerati quasi a pieno titolo dei nomi logici cioè dei simboli semplici che denotano in maniera univoca qualcosa. In quanto i semplici dati di esperienza sono concepiti in modo differente in base al tempo e allo spazio, noi possiamo dire che questi “semplici” siano tutto ciò che ci è dato conoscere e la scienza fisica non fa altro che dare definizioni rigorose di questi semplici.

Il fatto che questi dati di esperienza siano effettivamente dei dati non ulteriormente divisibili, non conoscibili attraverso un’analisi preliminare e causa delle conoscenze successive è il sintomo, per Russell, del fatto che ci troviamo effettivamente di fronte a delle conoscenze “atomiche” e che possiamo pienamente considerare il mondo come composto di molti di questi “semplici”.

Russell è consapevole che accettare i “semplici” come dati di esperienza fenomenica, dunque relativi ad una mente singolare, implica anche accettare il fatto che anche fenomeni notoriamente denominati come “irrealtà” facciano effettivamente parte di ciò che noi possiamo conoscere del mondo. E’ evidente, infatti, che accettando così disinvoltamente l’esperienza ( il dato fenomenico ) come dato di conoscenza genuina, bisogna allora anche concedere una certa realtà a fenomeni quali allucinazioni, confusioni percettive e così via. Ed infatti Russell spiega che non bisogna effettivamente lasciarsi guidare esclusivamente dalla fiducia che si nutre nella scienza fisica e prendere in considerazione che anche molti fenomeni creduti “irreali” debbano essere considerati “di pari dignità” a quelli considerati dalle scienze fisiche. Tuttavia, stando poi a quanto dice nella conclusione delle lezioni sull’atomismo logico, Russell sostiene come un progresso in filosofia sia quello di costruire i problemi filosofici in modo che non siano più filosofici ma fisici: se le cose stanno così, allora come si può pensare effettivamente ad una equiparazione tra fenomeno allucinogeno e fenomeno normale giacché la fisica non prende certo in considerazione i primi ma solo i secondi.

Riassumendo: Russell accetta la tesi del luogo comune[9] secondo cui esiste una molteplicità di fatti diversi: oggetti, proprietà, relazioni, credenze. Tutto ciò che è denotato dalle proposizioni mantiene un suo grado di indipendenza dalle altre cose come dirà Wittghenstein stesso: “1.21 Qualcosa può accadere o non accadere e tutto il resto rimanere uguale”, ciò che può accadere è il fatto e, dunque, se alla sussistenza o non sussistenza di un fatto, il resto del mondo rimane invariato, è evidente che ci troviamo di fronte ad una indipendenza reciproca dei fatti, degli stati di cose del mondo.

La filosofia dell’atomismo logico è il nome di un certo momento del pensiero di Russell nel quale si ritrovò anche Wittghenstein. Tuttavia fu un momento di passaggio ed è divenuto importante solo quando si stava iniziando a conoscere l’intero panorama biografico del filosofo inglese. Come attestano le stesse lezioni sull’atomismo logico, esso si configura più come un’ispirazione generale, spirito che Russell mantenne soprattutto in sede di analisi logica, ma non un’impostazione stabile di pensiero: Russell ben presto passò da un’impostazione metafisica di stampo atomista al tanto criticato monismo neutro.


Riferimenti

Russell B., Filosofia dell’atomismo logico, Einaudi, Torino, 2003.

Ipotesi.

« La logica che presenterò è atomistica, in contrapposizione alla logica monastica dei seguaci, più o meno fedeli, di Hegel. Quando dico che la mia logica è atomistica, intendo dire che condivido la credenza del senso comune secondo cui ci sono molte cose separate tra loro; non ritengo che l’evidente molteplicità del mondo consista solo di fasi e divisioni irreali di una singola Realtà indivisibile ».

P, 4.

Problema epistemologia.

« Quando si considera una qualunque teoria della conoscenza, si è più o meno legati ad una certa inevitabile soggettività, in quanto non ci si occupa solo della domanda intorno a che cosa è vero del mondo, ma piuttosto della domanda “che cosa posso conoscere del mondo?” Ogni argomento deve avere inizio da qualcosa che ci appare vero; se ci appare tale, non c’è altro da dire ».

P, 4-5.

Lo scopo delle lezioni sull’atomismo logico.

« La ragione per cui chiamo la mia teoria atomismo logico è che gli atomi a cui desidero giungere come una sorta di residuo ultimo dell’analisi sono atomi logici e non fisici. Alcuni di essi saranno ciò che chiamo “particolari” –cose quali piccole macchie di colore, suoni, oggetti momentanei- e alcuni di essi saranno predicati o relazioni, e così via. Il punto è che l’atomo a cui desidero giungere è l’atomo dell’analisi logica, non l’atomo dell’analisi fisica ».

P, 5.

Problema chiave della fondazione della conoscenza.

« Le proposizioni precise a cui si giunge possono essere premesse logiche del sistema che viene costruito basandosi su di esse, ma non costituiscono premesse per la teoria della conoscenza. E’ importante comprendere la differenza tra ciò da cui, se si possedesse già una conoscenza completa, essa sarebbe dedotte. Si tratta di due cose molto diverse. Il genere di premessa che un logico porrà a base di una scienza non apparterrà a quel genere di cose che sono conosciute per prime o più facilmente: sarà invece una proposizione dotata di un grande potenziale deduttivo, estrema cogenza ed esattezza, ma proprio per questo molto diversa della premessa effettiva da cui la conoscenza ha avuto inizio ».

P, 6.

Sul metodo e sull’errore.

« Ciò che consideriamo come premessa in ogni genere di lavoro di analisi è ciò che appare innegabile a noi –qui e ora-, e nel suo complesso ritengo che il metodo adottato da Descartes sia corretto: ci si deve sforzare di dubitare, e conservare solo ciò di cui non si può dubitare a causa della sua chiarezza e distinzione, ma non perché in questo modo si sia sicuri di non essere indotti in errore, poiché non esiste un metodo che ci salvaguardi dalla possibilità di errore ».

P, 7.

Considerazioni preliminari.

« …il mondo contiene fatti, e che questi sono ciò che sono indipendentemente da ciò che scegliamo di pensare riguardo a essi, e che ci sono anche credenze, che si riferiscono a fatti e che a causa di tale riferimento sono vere o false ».

P, 8.

I termini singolari sono insufficienti a produrre proposizioni.

« Socrate stesso, o qualunque cosa particolare, presa di per sé, non rende nessuna proposizione né vera né falsa ».

P, 9.

La logica formale e le sue proposizioni.

« Tutte le parole che compaiono nella formulazione di una proposizione logica appartengono in realtà alla sintassi. Si tratta di parole che esprimono esclusivamente una forma o una connessione, e che non menzionano nessun costituente particolare della proposizione in cui compaiono ».

P, 11.

Il significato.

« Penso che la nozione di significato sia sempre in qualche misura psicologica, e che non sia possibile ottenere una teoria puramente psicologica, e che non sia possibile ottenere una teoria puramente logica del significato, e perciò neanche del simbolismo. Penso che faccia parte dell’essenza stessa della spiegazione di ciò che si intende con simbolo prendere in considerazione fenomeni come la conoscenza, le relazioni cognitive, e probabilmente anche l’associazione. In ogni caso sono ragionevolmente convinto che la teoria e l’uso del simbolismo non possano essere spiegati all’interno della logica pura senza tenere conto delle varie relazioni cognitive che possono intercorrere tra noi e le cose ».

P, 13.

Importanza della distinzione della denotazione del suo simbolo corrispondente.

« Per quanto riguarda ciò che si intende con “significato” fornirò alcune illustrazioni. Si dirò per esempio che la parola “Socrate” significa un certo uomo; che la parola “mortale” significa una certa qualità; e che l’enunciato “Socrate è mortale” significa un certo fatto. Ma questi tre generi di significato sono del tutto distinti, e se si pensa che la parola “significato” abbia lo stesso significato in ciascuno dei tre casi si otterranno le contraddizioni più irrisolvibili. E’ molto importante non supporre che con “significato” si indichi sempre la stessa cosa e che per ciò ci sia un solo tipo di relazione tra il simbolo e ciò che è simboleggiato ».

P, 13. Corsivo mio.

Perché una proposizione non è un nome di un fatto.

« E’ molto importante comprendere, per esempio, che le proposizioni non sono nomi di fatti. Ciò è assai ovvio una volta che vi sia stato fatto notare (…). Appena vi si pensa è del tutto evidente che una proposizione non è il nome di un fatto, per la semplice ragione che ci sono due proposizioni che corrispondono a ciascun fatto. Supponiamo che sia un fatto che Socrate è morto. Si avranno allora due proposizioni: “Socrate è morto” e “Socrate non è morto”. E mentre queste due proposizioni corrispondono allo stesso fatto, c’è solo un fatto nel mondo che rende l’una vera e l’altra falsa. Ciò non è accidentale, e mostra come la relazione tra una proposizione e un fatto sia del tutto differente da quella  tra un nome e la cosa nominata ».

P, 14.

Chiara definizione di “nome proprio”.

« Un nome può solo nominare un particolare; se non lo fa, non è un nome ma un rumore ».

P, 14.

Quando comprendiamo una proposizione.

« Una proposizione è compresa quando sono comprese le parole di cui è composta, anche se in precedenza non si è mai udita la proposizione stessa ».

P, 21.

Distinzione tra analisi e definizione.

« … è molto importante distinguere tra una definizione e un’analisi. L’analisi è possibile solo rispetto a ciò che è complesso e dipende sempre, al suo livello più fondamentale, da una conoscenza diretta degli oggetti che costituiscono il significato di certi simboli semplici. E’ quasi superfluo osservare che la definizione non riguarda cose, ma simboli ( un simbolo “semplice” è un simbolo le cui parti non sono simboli ). Un simbolo semplice è molto diverso da una cosa semplice. Gli oggetti che non è possibile simboleggiare in altro modo se non per mezzo di simboli semplici possono essere chiamati “semplici”, mentre quelli che possono essere simboleggiati da una combinazione di simboli possono essere chiamati “complessi”. Questa è naturalmente una definizione preliminare, e forse, in qualche modo circolare, ma a questo stadio della discussione non ha molta importanza ».

P, 22.

Autosufficienza dei particolari.

« Autosussistenza dei particolari, di come ciascun particolare possieda il proprio essere indipendentemente da ogni altro particolare e non dipenda da nient’altro per la possibilità logica della sua esistenza ».

P, 33.

Comprendere.

« Per quanto concerne il comprendere, dovrei dire che tale espressione è spesso usata erroneamente. La gente parla di “comprendere l’universo” e così via. Ma, naturalmente, la sola cosa che si può realmente comprendere ( nel senso stretto della parola ) è un simbolo, e comprendere un simbolo significa per che cosa sta ».

P, 35.

Le proposizioni molecolari.

« Le chiamo proposizioni molecolari perché contengono altre proposizioni che potete chiamare i loro atomi; con proposizioni molecolari intendo proposizioni che contengono parole come “o”, “se”, “e” e così via ».

P, 38.

Essenza di una proposizione.

« Quando si prende una proposizione atomica, o una di quelle proposizioni come quelle di credenza, quando si prende qualunque proposizione di questo genere, c’è un solo fatto verso cui la proposizione punta, e verso cui punta in modo vero o in modo falso. L’essenza di una proposizione è che essa può corrispondere a un fatto in due modi, che si possono chiamare il modo vero e il modo falso ».

P, 39.

Definizione di un operatore logico.

« Non dovete cercare nel mondo reale un oggetto che possiate chiamare “o”, e dire: “Guarda questo. Questo è “o”. Una cosa simile non esiste, e se cercate di analizzare “p o q” in questo modo vi troverete in difficoltà [ il significato della disgiunzione è la sua tavola di verità ] ».

P, 40.

Una proposizione molecolare ha una corrispondenza diversa da quelle atomiche nel mondo.

« Non vedo alcuna ragione per supporre che nei fatti ci sia una complessità corrispondente alle proposizioni molecolari, poiché, come stavo dicendo, una corrispondenza di una proposizione molecolare con i fatti è di un genere diverso rispetto alla corrispondenza di una proposizione atomica con un fatto ».

P, 42.

Problemi di una teoria che prende l’incompatibilità tra due proposizioni.

« …questa teoria rende l’incompatibilità un dato fondamentale e ne fa un fatto oggettivo, il che non è molto più semplice che ammettere fatti negativi. Per ridurre “non” all’incompatibilità bisogna avere “Che p è incompatibile con q”, perché questo deve essere il fatto corrispondente. E’ perfettamente chiaro, quale che sia l’interpretazione di “non”, che c’è qualche interpretazione che vi darà un fatto. Se dico “non c’è un ippopotamo in questa stanza”, è del tutto chiaro che c’è un modo di interpretare questa affermazione secondo il quale esiste un fatto corrispondente, e il fatto non può essere semplicemente che ogni parte di questa stanza è riempita di qualche cosa che non è un ippopotamo ».

P, 45.

Conclusioni su una teoria che escluda i fatti negativi.

« Se dico “p è incompatibile con q”, almeno una tra p e q deve essere falsa. E’ chiaro che non sono due fatti a essere incompatibili. L’incompatibilità riguarda le proposizioni, la p e la q, e perciò, se intendete assumere l’incompatibilità come fatto fondamentale, per spiegare i negativi dovete assumere come fatto fondamentale qualcosa che implica le proposizioni in quanto opposte ai fatti. E’ del tutto chiaro che le proposizioni non sono ciò che si potrebbe definire “reale”. Se faceste un inventario del mondo, le proposizioni non vi rientrerebbero. I fatti vi rientrerebbero, le credenze, i desideri, gli atti di volizione, ma non le proposizioni ».

P, 45.

Logica e fatti.

« Secondo il tipo di approccio realistico che adotto in tutta la metafisica, si dovrebbe sempre essere impegnati nell’esame di qualche fatto attuale o insieme di fatti, e mi sembra che questo valga per la logica tanto quanto per la zoologia. In logica ci si preoccupa delle forme dei fatti, di padroneggiare i diversi generi di fati che ci sono nel mondo, o meglio, dei diversi generi logici di fatti ».

P, 48.

Prima definizione di credenza.

« “Quale è la forma del fatto che ha luogo quando una persona ha una credenza?” Capite subito che la prima facile risposta a cui si giunge è naturalmente quella secondo cui una credenza è una relazione con una proposizione ».

P, 49.

Credenze per il comportamentismo.

« Quando leggete opere di autore come James e Dewey sul tema della credenza, una cosa che vi colpisce immediatamente è che il genere di cosa a cui pensano quando parlano di oggetto della credenza è molto diverso dal genere di cosa a cui penso io. Essi pensano all’oggetto della credenza sempre come a una cosa (…), la prima rozza approssimazione che suggerirebbero sarebbe che si ha una credenza vera quando l’oggetto esiste e una credenza falsa quando l’oggetto non esiste. (…) Essi non sembrano aver colto il fatto che il lato oggettivo della credenza è meglio espresso da una proposizione che da una singola parola, e questo –ritengo- ha molto a che fare con il loro atteggiamento generale riguardo a che cosa è la credenza. Secondo la loro concezione, l’oggetto della credenza è in generale costituito non da relazioni tra cose, o da cose dotate di qualità, o quant’altro, ma solo da cose singole che possono esistere o non esistere. Questa concezione mi sembra radicalmente e assolutamente sbagliata. In primo luogo ci sono molti giudizi che non si possono adattare a questo schema, e in secondo luogo esso non può fornire alcuna spiegazione dei giudizi falsi, perché quando si crede che una cosa esiste ed essa non esiste, la cosa non c’è, non è nulla, e considerare un giudizio falso come una relazione con qualcosa che in realtà non è nulla non è ciò costituire un’analisi corretta. Questa è un’obbiezione all’idea che la credenza consista semplicemente in una relazione con un oggetto ».

P, 52.

Definizione di monismo neutro.

« Essa si accompagna, naturalmente, con la teoria del monismo neutro, ovvero con la teoria secondo cui la materia che costituisce ciò che è mentale è la stessa materia che costituisce ciò che è fisico, proprio come l’elenco postale vi fornisce nominativi organizzati secondo un criterio geografico e secondo un criterio alfabetico ».

P, 53.

La denotazione di una proposizione nella credenza.

« Non possiamo dire che crediamo fatti, poiché le nostre credenze sono talvolta sbagliate. Possiamo dire che percepiamo fatti, poiché la percezione non è soggetta a errore. Ogniqualvolta sono soltanto fatti a essere implicati, l’errore è impossibile. Per ciò non possiamo dire che crediamo fatti ».

P, 56.

Analisi corretta della credenza.

« Per ciò la credenza non contiene realmente una proposizione come costituente, ma solo i costituenti della proposizione stessa. Quando avete una credenza, non potete domandare: “Che cosa è che credi?” Non c’è risposta a questa domanda, ovvero non c’è una cosa singola che state credendo. “Credo che oggi sia martedì”. Non dovete supporre che “Che oggi è martedì” sia un oggetto singolo che io sto credendo. Sarebbe un errore. Questo non è il modo giusto di analizzare l’occorrenza, sebbene l’analsis sia conveniente da un punto di vista linguistico, e la si possa mantenere purché si sappia che non costituisce la verità ».

P, 57.

I problemi del “credere”.

« La questione riguarda la presenza di due verbi nel giudizio e il fatto che entrambi i verbi devono occorrere come verbi, poiché se una cosa è un verbo non può che occorrere come verbo. Supponete di prendere “A crede che B ami C”. “Otello crede che Desdemona ami Cassio”. Qui si ha una credenza falsa. Si ha questo bizzarro stato di cose per cui il verbo “ama” occorre nella proposizione e sembra occorrere ponendo in relazione Desdemona e Cassio, mentre in effetti non lo fa, e tuttavia occorre come verbo, cioè nel modo in cui occorrerebbe un verbo. Intendo dire che quando A crede che B ami C, si deve avere un verbo nella posizione in cui compare “Ama”. Non si può sostituirlo con un sostantivo. Perciò è chiaro che il verbo subordinato ( cioè il verbo diverso da credere ) agisce come verbo, e sembra porre in relazione due termini, ma di fatto quando il giudizio è falso, ciò non accade. Questo problema costituisce l’enigma della natura della credenza ».

P, 58.

Difficoltà dell’analisi della credenza.

« La prima è l’impossibilità di trattare la proposizione creduta come un’entità indipendente, che compare in modo indiviso come un’entità indipendente, che compare in modo indiviso nell’occorrenza della credenza; l’altra è l’impossibilità di porre il verbo subordinato sullo stesso livello dei suoi termini come ulteriore termine oggetto della credenza. Questo è un punto sul quale penso che la teoria del giudiziose che ho proposto alcuni anni fa fosse un po’ troppo semplicistica, poiché allora trattavo il verbo oggetto come se si potesse considerarlo un semplice oggetto tra i termini, come se si potesse considerare “ama” sullo stesso livello di Desdemona e Cassio quale termine della relazione “crede” ».

P, 60.

L’esistenza non è implicata nell’affermazione universale.

« Voglio sottolineare in particolar modo che le proposizione generali devono essere interpretate come non implicanti l’esistenza. Per esempio, quando dico “Tutti i greci sono uomini”, non voglio che supponiate che ciò implichi l’esistenza di greci. Tale esistenza non deve essere considerata come implicata. La si dovrebbe aggiungere come proposizione separata. Se volete interpretarla in quel senso, dovrete aggiungere l’affermazione ulteriore “e ci sono dei greci” ».

P, 63.

Cosa voglio dire con “qualunque x”.

« Ora, quando vi chiedete che cosa viene realmente asserito in una proposizione generale, come per esempio “tutti i greci sono uomini”, troverete che ciò che è asserito è la verità di tutti i valori di ciò che chiamo una funzione proposizionale. Una funzione proposizionale è semplicemente ogni espressione contenente un costituente indeterminato, o diversi costituenti indeterminati, e che diventa una proposizione appena i costituenti indeterminati vengono determinati ».

P, 64.

Cosa si può dire di una funzione proposizionale.

« Una funzione proposizionale non è nulla, ma, come la maggior parte delle cose di cui si vuole parlare in logica, non per questo perde la sua importanza. L’unica cosa che si può fare con una funzione proposizionale è asserire che è sempre vera, o che è vera qualche volta, o che non è mai vera ».

P, 65.

Indici di funzioni proposizionali.

« Tutte le volte che avete parole che “un”, “alcuni”, “tutti”, “ogni”, sono sempre il segno della presenza di una funzione proposizionale, così che queste non sono – per così dire – entità remote o recondite, ma ovvie e familiari ».

P, 66.

L’esistenza è un quantificatore che si applica ad una proposizione, non a un individuo.

« Se dico “ Le cose che sono nel mondo esistono”, si tratta di un’affermazione perfettamente corretta, in quanto dico qualcosa riguardo a una certa classe di cose; lo dico nello stesso senso in cui dico “Gli uomini esistono”. Ma non devo passare a “Questa è una cosa nel mondo, dunque essa esiste. E’ qui che la fallacia entra in gioco, e consiste semplicemente nel trasferire a un individuo che soddisfa una funzione proposizionale un predicato che si applica solo alla funzione proposizionale. Potete rendervene conto in vari modi. Per esempio, talvolta conosciamo la verità di una proposizione esistenziale senza conoscerne nessuna esemplificazione ».

P, 68.

Una proposizione universale non si produce dall’insieme di particolari.

« Non potete mai arrivare a una proposizione generale a partire da sole proposizioni particolari. Dovete sempre avere almeno una proposizione generale tra le vostre premesse. Ciò mostra, credo, vali punti. Uno di questi, di carattere epistemologico, è che se esiste, come sembra esistere, una conoscenza di proposizioni generali, allora ci deve essere una conoscenza primitiva di proposizioni generali ( con questo intendo una conoscenza di proposizioni generali che non sia ottenuta tramite inferenza )… ».

P, 70.

La forma di una proposizione.

« Così xRy costituisce –so potrebbe dire- la forma pura di tutte quelle proposizioni. OCn forma di una proposizione intendo ciò che si ottiene quando a ogni suo singolo costituente si sostituisce una variabile ».

P, 73.

Il dominio di una funzione.

« Per fornire un esempio, voi sapete ciò che intendo con dominio di una relazione: intendo tutti i termini che si trovano in quella relazione rispetto a qualcosa. Supponete che io dica: “xRy implica che x appartiene al dominio di R”; questa sarebbe una proposizione della logica ed è una proposizione che contiene solo variabili ».

P, 74.

I costituenti di proposizioni devono esistere.

« Ogni costituente deve esistere, deve essere una delle cose che ci sono nel mondo, e perciò se Romolo stesso facesse parte delle proposizioni secondo cui è esistito o non è esistito, entrambe non solo non potrebbero essere vere, ma neanche dotate di significato, a meno che Romolo sia esistito. Tutto ciò ovviamente non avviene, e la prima conclusione che si trae è che, sebbene sembri che Romolo sia un costituente di quella proposizione, questo è in realtà un errore. Romolo on compare nella proposizione “Romolo non è esistito” ».

P, 78.

I nomi in frasi esistenziali.

« Vedete perciò che la proposizione “Romolo è esistito” o “Romolo non è esistito” introduce una funzione proposizionale, in quanto il nome “Romolo” non è realmente un nome, ma una sorta di descrizione abbreviata.  Esso sta per una persona che ha fatto tali e tali cose, che ha ucciso Remo, ha fondato Roma, e così via. Esso costituisce un’abbreviazione di quella descrizione; se volete, è un’abbreviazione di “la persona che era chiamata -Romolo-”. Se fosse realmente un nome, la questione dell’esistenza non potrebbe sorgere, perché un nome deve nominare qualcosa o non è un nome, e se non c’è una persona come Romolo, non ci può essere un nome per quella persona che non c’è…  ».

P, 79.

Differenze tra nomi propri e descrizioni definite.

« La prima cosa da capire riguardo a una descrizione definita è che non si tratta di un nome. Prendiamo “L’autore di Waverley”. Questa è una descrizione definita, ed è facile vedere che non si tratta di un nome. Un nome è un simbolo semplice ( ovvero un simbolo che non ha parti che siano esse stesse simboli ), usato per designare un certo particolare o per estensione un oggetto che non è un particolare ma è trattato in quella circostanza come se lo fosse, o che erroneamente si ritiene essere un particolare, come una persona ».

P, 80-81.

Identità tra nomi di stessa denotazione.

« E’ immediatamente ovvio che se “c” è “Scott” stesso, “Scott è Scott” è solo una tautologia. Ma s prendete un altro nome che sia un nome di Scott, allora se il nome è usato come nome e non come descrizione, la proposizione sarà ancora una tautologia. Infatti il nome stesso è semplicemente un mezzo per puntare a una cosa, e non fa parte di ciò che si asserisce, così che se una cosa ha due nomi, che si usi l’uno o l’altro, purché si tratti realmente di nomi e non di descrizioni in forma abbreviata, l’asserzione prodotta è la stessa ».

P, 82.

Differenza fondamentale tra nome e nome e nome e descrizione.

« [L]a proposizione “Scott è l’autore di Wareley” non è né l’una né l’altra cosa, e perciò è diversa da qualunque proposizione della forma “Scott è c”, dove “c” è un nome ».

P, 83.

Due diversi usi del nome.

« E’ importante comprendere che ci sono due differenti usi dei nomi o di qualunque altro simbolo: uno quando si parla del simbolo, e l’altro quando lo si usa come simbolo, come mezzo per parlare di qualcos’altro. Normalmente, se parlate della vostra cena, non state parlando della parola “cena”, ma di ciò che mangerete, e questa è una cosa del tutto diversa. In genere le parole si usano come mezzi per indicare le cose, e quando si usano le parole in questo modo, l’affermazione “Scott è sir Walter” è una pura tautologia, esattamente sullo stesso piano di “Scott è Scott” ».

P, 84.

Proposizione con descrizioni definite.

« Come vedete, ciò significa che c’è un’entità c ( e possiamo anche non sapere che cosa sia ) tale che quando x è c, è vero che x ha scritto Waverley, il che significa dire che c è la sola persona che ha scritto Waverley; e si afferma che c’è un valore di c che rende vera questa funzione proposizionale. Così l’intera espressione, che è una funzione proposizionale intorno a c, è possibile rispetto a c ( nel senso spiegato la volta scorsa ) ».

P, 87.

Cosa è necessario sapere per capire cosa è il mondo.

« Se volete comprendere l’analisi del mondo, o l’analisi dei fatti, o se volete avere un’idea di ciò che c’è realmente nel mondo, è importante capire quanto di ciò che c’è nel nostro modo di esprimerci possiede la natura dei simboli incompleti ».

P, 91.

Come bisogna interpretare “esistere”.

« In matematica si parla comunemente di proposizioni di questo genere come di teoremi di esistenza, in cui si stabilisce che c’è un oggetto di un determinato genere, e questo oggetto, essendo matematico, è naturalmente un oggetto logico, non un particolare, non una cosa come un leone o un unicorno, ma un oggetto come una funzione o un numero, qualcosa che chiaramente non ha la proprietà di essere nel tempo, ed è questo genere di senso proprio dei teoremi di esistenza come ho fatto nelle ultime due lezioni. Io ritengo, naturalmente, che questo senso di esistenza possa essere esteso fino a coprire gli usi più ordinari, e che di fatto fornisca la chiave di ciò che soggiace a questi usi ordinari ».

P, 95.

Dignità del mondo di ciò che è presunto irreale.

« In genere  le correlazioni di quelli che si sceglie di chiamare oggetti “reali”. Ma ciò non significa che le immagini siano irreali. Significa solo che non fanno parte della fisica. Naturalmente, so che questa credenza del mondo fisico ha instaurato una specie di regno del terrore. Dovete trattare con disprezzo qualunque cosa non si adatti al mondo fisico. Ma ciò è davvero molto antipatico nei confronti delle cose che vi si adattano. Il mondo fisico è una specie di aristocrazia al governo, che è in qualche modo riuscita a far sì che ogni altra cosa sia trattata con disprezzo. Questo genere di atteggiamento non è degno di un filosofo. Dovremmo trattare con rispetto esattamente uguale le cos e che non si adattano al mondo della fisica, e le immagini sono tra queste ».

P, 96.

Il problema delle classi di se stesse.

« Supponiamo dapprima che essa sia un membro di se stessa. In questo caso è una di quelle classi che non sono membri di se stesse, cioè non è un membro di se stessa. Supponiamo allora che non sia un membro di se stessa. In questo caso non è una di quelle classi che non sono membri di se stesse, cioè è un membro di se stessa. In questo caso non è una di quelle classi che non sono membri di se stesse, cioè è un membro di se stessa. Dunque entrambe le ipotesi, che sia o che non sia un membro di se stessa, conducono alla propria contraddizione. Se è un membro di se stessa, non lo è, e se non lo è, lo è ».

P, 100.

Come costruire una teoria.

« Si scopre che di una certa cosa è stata posta come entità metafisica si può assumere dogmaticamente che sia reale, e allora non si avrà nessun argomento possibile a favore o contro la sua realtà; oppure, invece di fare ciò, si può costruire una finzione logica che abbia le stesse proprietà formali – o piuttosto proprietà formali formalmente analoghe a quelle della supposta entità metafisica-, e che sia composta di entità empiricamente date; questa finzione logica può sostituire la supposta entità metafisica e servirà a tutti gli scopi scientifici che si possano desiderare ».

P, 112-113.

Scienza e filosofia.

« …credo che la sola differenza tra la scienza e la filosofia sia che la scienza consiste in ciò che più o meno conosciamo, e la filosofia in ciò che non conosciamo. La filosofia è quella parte della scienza riguardo alla quale le persone decidono di avere opinioni, ma riguardo a cui non possiedono conoscenze. Perciò ogni progresso nella conoscenza priva la filosofia di alcuni problemi che precedentemente le appartenevano, e se ci’è una qualche verità o un qualche valore nel genere di procedure della logica matematica, ne seguirà che vari problemi che sono appartenuti alla filosofia cesseranno di appartenerle e verranno ad appartenere alla scienza. Naturalmente nel momento in cui diventano risolvibili, perdono di interesse per una grande parte delle menti filosofiche, perché per molte persone che amano la filosofia il suo fascino cosciente nella libertà speculativa, nel fatto di poter giocare con le ipotesi (…). Proprio come ci sono in America famiglie che dal tempo dei Padri Pellegrini in avanti sono sempre migrate verso ovest verso le foreste interne, perché non amavano la vita civilizzata, così la filosofia ha una disposizione avventurosa e ama dimorare in una regione in cui ci siano ancora incertezze. E’ vero che il trasferimento  di una regione dalla filosofia alla scienza la renderà inappetibile per un tipo di mente che è molto utile e importante. Penso che sia vero che molte delle applicazioni della logica matematica vadano nella direzione che ho indicato. Ciò rende le cose aride, precise, metodiche, e in questo modo le spoglia di una certa qualità che possedevano quando si poteva giocare con esse più liberamente. Non mi sembra che sia mio compito scusarmi per questo, perché se è vero, è vero ».

P, 122-123.

Russell, B., Principia Matematica, Grandi tascabili economici Newton, Roma, 1989.

Definizione della matematica pura.

« La matematica pura è l’insieme di tutte le proposizioni della forma “p implica q” dove p e q sono proposizioni che contengono una o più variabili, né p né q contenendo costanti che non siano costanti logiche ».

P, 23.

L’analisi e il suo fine definiti in modo rigoroso.

« Il metodo che useremo è analitico, ed il problema che ci siamo posti è filosofico, nel senso, cioè, che tenteremo di passare dal complesso al semplice, dalle cose dimostrabili alle premesse indimostrabili ».

P, 23.

Implicazione formale: il mattone dei sistemi formali.

« In matematica diciamo sempre che se una certa affermazione p è vera per ogni ente x, o per ogni insieme di enti x, y, z… allora per quegli enti è vera un’altra affermazione q; non faremo questa affermazione separatamente per p o q. Enunciamo una relazione tra le affermazioni p e q, che chiameremo implicazione formale ».

P, 25.

Seconda caratterizzazione delle proposizioni matematiche.

« La caratteristica delle proposizioni matematiche non consiste solamente nell’asserire implicazioni, ma anche nel fatto di contenere delle variabili ».

P, 25.

Definizione di costante.

« Una costante è qualcosa di definito in modo assoluto, nei cui riguardi non esiste ambiguità alcuna. Quindi 1, 2, 3, e… Socrate, sono costanti; e così uomo e la razza umana, passato, presente, futuro, considerati come insieme ».

P, 26.

Il ruolo della variabile.

« Dunque, in ogni proposizione della matematica pura, correttamente enunciata, le variabili hanno un campo assolutamente libero: ogni ente concepibile può essere sostituito da variabili senza con ciò intaccare la verità della proposizione ».

P, 27.

Deduzioni identiche e differenti simboli.

« Se abbiamo a che fare con più catene deduttive che differiscono solo per il significato dei simboli, di modo che le proposizioni simbolicamente identiche possono essere suscettibili di più interpretazioni, il procedimento matematicamente corretto consiste nel formare la classe dei significati che si possono dare ai simboli, e di affermare che la formula  segue dall’ipotesi che i simboli appartengono alla formula in questione ».

P, 27.

Definizione di relazione.

« Possiamo tuttavia caratterizzare un tipo di relazioni come una classe di relazioni definite da una proprietà definibile in termine di sole costanti logiche ».

P, 28.

Ciò che deve contenere la matematica pura.

« La matematica pura, perciò, non deve contenere cose non definibili che non siano costanti logiche, e, di conseguenza, non deve contenere premesse, proposizioni indimostrabili, ma solo ciò che concerne esclusivamente costanti logiche e variabili ».

P, 28.

Relazione tra logica e matematica.

« Per tutto quello che abbiamo detto la connessione esistente tra logica e matematica è molto stretta. Il fatto che tutte le costanti matematiche sono costanti logiche, e che tutte le premesse della matematica riguardano la logica dà, mi sembra, il senso preciso di ciò che i filosofi vogliono dire quando affermano che la matematica è a priori. Il fatto è che una volta accettato l’apprato della logica, necessariamente ne discende tutta la matematica. (…)

La logica è formata dalle premesse della matematica, e da tutte le altre proposizioni che trattano esclusivamente di costanti logiche e di variabili che non soddisfino la definizione data di matematica. La matematica è formata da tutte le conseguenze di queste premesse che affermano implicazioni formali contenenti variabili, con le premesse che hanno queste stesse caratteristiche ».

Pp, 28-29.

Scopo del trattato.

« Da quel che si è finora detto, il lettore avrà capito che il presente lavoro persegue due obiettivi: primo mostrare che tutta la matematica discende dalla logica simbolica, e, secondo, scoprire, per quanto è possibile, quali sono i principi della logica simbolica stessa ».

P, 29.

Cosa è la logica simbolica.

« La logica Simbolica o Formale –userò questi termini come sinonimi- è lo studio dei vari tipi generali di deduzione. La parola simbolica denota l’argomento per una caratteristica marginale, l’uso dei simboli matematici essendo, infatti, qui come altrove, una semplice convenzione teoricamente irrilevante ».

P, 30.

Cosa è una proposizione.

« Una proposizione è, potremmo dire, qualcosa di vero o di falso. Per tanto un’espressione come “x è un uomo” non è una proposizione non essendo né vera né falsa. Se però diamo ad x un valore costante qualsiasi, questa espressione diventa una proposizione; essa quindi è come una forma schematica valida per ciascun membro dell’intera classe delle proposizioni ».

P, 32.

Conseguenza analisi implicazione.

« La disgiunzione, d’altra parte, è definibile nei termini di implicazione, come subito vedremo. Discende dalla suddetta equivalenza che, date due proposizioni, una deve implicare l’altra, che le proposizioni false implicano tutte le proposizioni, e che le proposizioni vere sono implicate da tutte le proposizioni ».

P, 35.

Definizione in matematica.

« Il significato matematico di definizione è notevolmente differente da quello in uso tra i filosofi; può quindi essere utile osservare che, in senso matematico, si dice che una nuova funzione proposizionale è definita quando si riesce a stabilire la sua equivalenza (i. e. implicare o essere implicata da ), ad una funzione proposizionale che viene presa come indefinibile o che è stata definita in termini di indefinibili ».

P, 35.

Gli assiomi.

« Infatti tutti gli assiomi sono principi di deduzioni; e se sono veri, le conseguenze che discendono dall’impiego di un principio opposto non discendono realmente, così che i ragionamenti interenti all’ipotesi della falsità sono soggetti ad errori particolari ».

P, 35.

I primi quattro assiomi.

« 1. Se p implica q, allora p implica q; in altre parole qualsiasi cosa siano p e q, “p implica q” è una proposizione.

2. Se p implica q, allora p implica p; in altri termini ogni cosa che implica qualcos’altro è una proposizione.

3. Se p implica q, allora q implica q; cioè, qualsiasi cosa sia implicata da un’altra, costituisce una proposizione.

4. Un’ipotesi vera in una implicazione può essere tralasciata; e la conseguenza affermata.  ».

P, 36.

Prodotto logico.

« La definizione è molto artificiosa, e mette chiaramente in evidenza la differenza tra definizioni matematiche e definizioni filosofiche. Si formula così: se p implica p, allora, se q implica q, pq ( il prodotto logico di p e q ) significa che se p implica che q implica r, allora r è vera. In altre parole, se p e q sono proposizioni, la loro affermazione congiunta equivale a dire che è vera ogni proposizione tale che la prima implica che la seconda la implichi ».

P, 36.

Assiomi di deduzioni.

« 5. Se p implica p e q implica q, allora pq implica p. Questo principio di si chiama di semplificazione, ed afferma semplicemente che l’asserzione congiunta di due proposizioni implica l’affermazione della prima delle due.

6. Se p implica q e q implica r, allora p implica r. E’detto il sillogismo.

7. Se q implica q e r implica r, e se p implica che q implichi r, allora pq implica r. Questo è il principio della importazione  ».

8. Se p implica p e q implica q, allora, se pq implica r, allora p implica che q implica r. E’ il principio inverso del precedente, e viene chiamato il principio di esportazione.

9. Se p implica q e p implica r, allora p implica qr; in altre parole una proposizione che implica ciascuna di due proposizioni le implica ambedue insieme. E’ detto il principio di composizione.

10. Se p implica p e q implica q, allora “-p implica q- implica q” implica p. E’ il principio di riduzione; è senz’altro meno autoevidente degli altri, ma praticamente equivale a molte proposizioni che sono autoevidenti ».

Pp, 36-37.

Definizione di negazione.

« Di qui partiamo per dare la definizione di negazione: non-p equivale all’affermazione che p implica tutte le proposizioni, i. e. che “r implica r” implica “p implica r” qualsiasi sia r ».

P, 38.

Funzione proposizionale.

« Queste considerazioni mi conducono all’esame del concetto di tale che. I valori che rendono una funzione proposizionale vera sono simili alle radici di un’equazione –difatti sono questi un caso particolare di quelle- e noi possiamo considerare tutti i valori di x tali che fx è vera ».

P, 40.

Definizione di uguaglianza di classe.

« …l’uguaglianza di a e b si definisce con l’equivalenza di “x è un a” e di “x è un b” per tutti i valori di x ».

P. 41.

L’esistenza di una classe.

« Un altro concetto molto importante è quello di esistenza di una classe, parola che supponiamo che non abbia lo stesso significato che ha in filosofia. Si dice che una classe esiste quando ha almeno un termine. Una definizione formale è la seguente: una classe a esiste quando e solo quando è vera ogni proposizione a condizione che “x è un a” la implichi sempre, qualsiasi valore si dia a x ».

P, 41.

Legge della tautologia.

« Le leggi formali dell’addizione, moltiplicazione, tautologia e negazione sono le stesse per le classi e le proposizioni. La legge della tautologia afferma che non si cambia nulla quando una classe o una proposizione si aggiunge o si moltiplica con se stessa ».

P, 43.

La classe nulla.

« Questa [ la classe nulla ] può definirsi anche come la classe dei termini che appartengono ad ogni classe, come la classe che non esiste ( nel senso sopra definito ), come la classe che è contenuta in ogni classe, come la classe a tale che funzione proposizionale “x è in a” risulti falsa per tutti i valori di x, o come la classe delle x che soddisfano ogni funzione proposizionale f(x) che è falsa per tutti i valori di x ».

P, 43.

Definizione di diversità.

« La diversità si definisce come la negazione delle identità. Se x è un termine qualsiasi, è necessario distinguere da x la classe il unico membro è x stesso: questa si può definire come la classe dei termini identici a x ».

P, 43.

Definizione formale di relazione.

« Se R è una relazione, esprimeremo con xRy la funzione proposizionale “x ha una relazione R con y”. Abbiamo bisogno di una proposizione primitiva  ( cioè indimostrabile ) per avere che xRy sia una proposizione per tutti i valori di x e di y ».

P, 44.

Identità di relazione.

« Due relazioni R, R’ si dicono uguali o equivalenti o che hanno la stessa estensione, quando xRy implica ed è implicata da xR’y per tutti i valori di x e y ».

P, 45.

Proposizione primitiva di relazioni.

« Una proposizione primitiva per le relazioni è che ogni relazione ha una inversa, i. e. che, se R è una relazione qualsiasi, esiste una relazione R’ tale che xRy è equivalente a yR’x per tutti i valori di x e y ».

P, 45.

Grammatica filosofica.

« Secondo me, lo studio della grammatica può illuminare alcune questioni filosofiche molto più di quanto i filosofi generalmente suppongono.

Anche se non si può ammettere senza una precisa disamina critica che una distinzione grammaticale corrisponde ad una effettiva distinzione filosofica, tuttavia l’una costituisce il manifestarsi prima facile dell’altra e spesso può venire impiegata molto utilmente come fonte di una nuova scoperta. Penso tuttavia che si debba ammettere che ogni parola, che compare in una locuzione, debba avere qualche significato: un suono totalmente senza significato non potrebbe venire usato nel modo più o meno regolare con cui la lingua usa le parole.

La correttezza dell’analisi filosofica che noi operiamo di una proposizione può essere quindi controllata con l’esercizio di precisazione del significato di ogni vocabolo della locuzione che esprime la proposizione in questione. In generale, mi sembra che la grammatica conduca molto più vicino ad una logica corretta delle opinioni correnti dei filosofi; nelle pagine che seguiranno, prenderemo perciò la grammatica, se non come maestra, almeno come guida ».

P, 64.

Le proprietà dei termini.

« Inoltre ogni termine è immutabile e indistruttibile. Quel che un termine è, è; non si può concepire che avvenga in esso alcun mutamento che non ne muti l’identità, rendendolo così un altro termine ».

P, 66.

Russell, La conoscenza del mondo esterno, Longanesi, Milano, 1975. Da Emanuele Severino, Antologia filosofica, edizione Mondo Libri, Milano, 1990.

« Per ogni fatto dato vi è un’asserzione che esprime il fatto. Il fatto in se stesso obiettivo e non dipende dal nostro pensiero o dalla nostra opinione nei suoi riguardi, ma l’affermazione è qualcosa che implica il pensiero e può essere vera o falsa. Un’affermazione può essere positiva o negativa: possiamo asserire che “Carlo I fu giustiziato” oppure che egli “non morì nel suo letto”. Si può dire che un’affermazione negativa sia una negazione. Data una forma di parole che deve essere vera o falsa, come “Carlo I morì nel suo letto”, possiamo affermare o negare questa forma di parole; nel primo caso abbiamo u ‘asserzione positiva, nel secondo una negativa. Chiamerò proposizione una forma di parole che può essere vera o falsa. Perci una proposizione è la stessa riguardo a ciò che si può affermare o negare in modo significativo.

Una proposizione che esprime ciò che abbiamo chiamato un fatto, cioè che, quando asserita, afferma che una certa cosa ha una certa qualità o che certe cose hanno una certa relazione, sarà chiamata una proposizione “atomica”, perché, come vedremo subito, ci sono altre proposizioni nelle a quali entrano le proposizioni atomiche in modo analogo a quello in cui entrano gli atomi nelle molecole.

Per quanto le proposizioni atomiche, come i fatti, possano avere una qualsiasi tra il numero infinito di forme, sono soltanto un tipo di proposizioni. Tutti gli altri generi sono molto più complicati. Per conservare il parallelismo nel linguaggio tra i fatti e le proposizioni, daremo il nome di “fattti atomici” ai quali che abbiamo considerato fin qui. Così i fatti atomici sono quelli che determinano se le proposizioni atomiche sono da affermare o da negare. Si può sapere soltanto empiricamente se una proposizione atomica come “questo è rosso” oppure “questo è prima di quello”, deve essere affermata o negata. […] Se noi conoscessimo tutti i fatti atomici e sapessimo che non ve ne è nessuno, eccetto quelli che abbiamo conosciuto, potremmo, in linea teorica, dedurre tutte le verità di qualsiasi forma. […]

“Molecolari” sono le proposizioni che contengono congiunzioni: se, oppure, e, a meno che, eccetera, e tali parole sono segni di una proposizione molecolare. Esaminiamo un’asserzione come “se piove porto l’obrllo”. Questa asserzione può essere vera o falsa, come l’asserzione di una proposizione atomica, ma è ovvio che il fatto corrispondente, oppure la natura della corrispondenza con il fatto, deve essere completamente differente da ciò che è nel caso di una proposizione atomica. Se piove e si porta l’ombrello sono ciascuno separatamente oggetti di un fatto atomico, accertabile mediante l’osservazione. Ma la connessione delle due cose implicate nel dire che “se capita una, capiterà l’altra” è qualcosa di molto differente da una delle due presa da sola.  Non è necessario, per la verità, che dovrebbe realmente piovere oppure che dovrei portare veramente l’ombrello; anche se il cielo è sereno potrei portar l’ombrello, , per il caso che il tempo mutasse. Così abbiamo fin qui una successione di due proposizioni che non dipendono dal fatto se si devono affermare o negare, ma solo dal fatto che sono deducibili dalla prima. Perciò queste proposizioni hanno una forma differente da quella di una proposizione atomica.

Simili proposizioni sono importanti per la logica, perché da esse dipende ogni deduzione. Se vi ho detto che, se piove, porterò l’ombrello e se vedete che piove insistentemente, potete dedurre che porterò l’ombrello. Non vi può essere deduzione, eccetto che dove le proposizioni sono connesse in questo modo, così che dalla  verità o dalla falsità di una cosa segue la verità o la falsità dell’altra. Sembra che possiamo talora conoscere le proposizioni molecolari, come sopra nell’esempio dell’ombrello, quando non sappiamo se le componenti atomiche sono vere o false. L’utilità pratica della deduzione si basa su ciò.

L’altro genere che dobbiamo considerare sono le proposizioni  generali, come “tutti gli uomini sono mortali”, “tutti i triangoli equilateri sono equiangoli”. A queste appartengono le proposizioni nelle quali può capitare la parola “alcuni”, come “alcuni uomini sono filosofi”, oppure “alcuni filosofi non sono saggi”. Queste sono negazioni di proposizioni in generale, cioè ( negli esempi sopra riportati ) di “tutti gli uomini sono non filosofi” “tutti i filosofi sono saggi”.

Chiameremo le proposizioni contenenti la parola “alcuni” proposizioni generali negative, quelle contenenti la parola “tutti” proposizioni generali positive. Queste propoisizioni, si vedrà, cominciano ad avere l’apparenza delle proposizioni che ci sono nei trattati di logica. Ma le loro peculiarità e complessità non sono note ai trattati, ed i problemi ai quali danno origine sono discussi soltanto in modo molto superficiale.

Quando abbiamo discusso i fatti atomici, abbiamo visto che saremmo in grado, teoricamente, di dedurre tutte le altre verità per mezzo della logica, se conoscessimo tutti i fatti atomici ed anche sapessimo che non ci sono altri fatti atomici oltre quelli conosciuti. La conoscenza che non vi sono altri fatti atomici è una conoscenza generale, positiva, è la conoscenza che “tutti i fatti atomici sono per me conosciuti” o almeno che “tutti i fatti atomici sono in questa collezione”, per quanto può essere data la collezione. E’ facile osservare che le proposizioni generali come “tutti gli uomini sono mortali”, non si possono conoscere solo mediante deduzione da fatti atomici.

Se potessimo conoscere ogni singolo uomo e sapessimo che è mortale, non ci consentirebbe di sapere che tutti gli uomini sono mortali a meno che sapessimo che quelli erano tutti gli uomini esistenti, il che è una proposizione generale. Se conoscessimo ogni altra cosa da un capo all’altro dell’universo e sapessimo che ogni cosa separata era un uomo non immortale, ciò non darebbe il nostro risultato, ameno che sapessimo che “tutte le cose appartengono a questa collezione di cose che ho esaminato”.

Non si possono dedurre verità così generali soltanto da verità particolari, ma se esse devono essere conosciute devono essere evidenti per se stesse, oppure essere dedotte da premesse delle quali c’è almeno una credenza generale. Ma tutta l’evidenza empirica è fatta di verità particolari. Perciò se in qualche modo è possibile una conoscenza di verità generali, vi è necessariamente qualche conoscenza di verità generali che è indipendente dalla prova empirica, cioè che non dipende dai dati sensoriali. La conclusione di sopra, di cui avevamo un esempio nel caso del principio induttivo, è importante, perché fornisce una confutazione degli empiristi dei tempi pià antichi. Essi credevano che tutta la nostra conoscenza derivasse dai sensi e dipendesse da essi. Vediamo che, se si deve conservare questo punto di vista, si deve rifiutare di ammettere la conoscenza di alcune proposizioni generali. E’ perfettamente possibile, da un punto di vista logico, che sia così, ma non sembra che ciò avvenga nella realtà, e certamente nessuno si sognerebbe di conservare un punto di vista simile, ameno che fosse un teorico estremista. Dobbiamo pertanto ammettere che c’è una conoscenza generale la quale non deriva dal senso e che parte di questa conoscenza non è conseguita con la deduzione, ma è originaria.

Si deve trovare questa conoscenza generale nella logica. Non so se esiste una tale conoscenza non derivata dalla logica: ma in ogni modo abbiamo una conoscenza simile nella logica. Si ricorderà che abbiamo escluso dalla logica pura proposizioni come “Socrate è un uomo, tutti gli uomini sono mortali, perciò Socrate è mortale” perché “Socrate”, “uomo” e “mortale” sono termini empirici e comprensibili solo mediante l’esperienza particolare. La proposizione corrispondente della logica pura è: “Se qualche cosa ha una certa proprietà e qualsiasi cosa che ha questa proprietà ha un’altra proprietà, la cosa in questione ha quest’altra proprietà”. Questa proposizione è assolutamente generale: si applica a tutte le cose ed a tutte le proprietà. E ciò è del tutto evidente per se stesso. Perciò in simili proposizioni di logica pura abbiamo le proposizioni generali, evidenti per se stesse, che ricercavamo.

Una proposizione come “Se Socrate era un uomo e tutti gli uomini sono mortali, Socrate è mortale, è vera soltanto in virtù della sua forma. La sua verità, in questa forma ipotetica, non dipende dal fatto che Socrate è effettivamente uomo e neppure dal fatto che tutti gli uomini sono mortali: ciò è ugualmente vero quando sostituiamo a Socrate, uomini, mortali, altri termini. La verità generale, di cui è esempio,è puramente formale e appartiene alla logica. Quando questa credenza generale non menziona una cosa particolare, oppure una qualità, oppure una relazione particolare, è completamente indipendente dai fatti accidentali del mondo esistente e la si può conoscere, teoricamente senza nessuna esperienza di cose particolari o delle loro qualità e relazioni.

La logica, possiamo dire, consiste di due parti. La prima parte indaga quali proposizioni sono e quali forme possono avere: questa parte enumera i generi differenti di proposizioni generali e così via. La seconda parte consiste di proposizioni veramente generali, che asseriscono la verità di tutte le proposizioni di certe forme. Questa seconda parte affonda nella matematica pura, le cui proposizioni risultano all’analisi essere verità formali generali. La prima parte, che enumera semplicemente le forme, è la più difficile e la più importante filosoficamente: il progresso recente, più di ogni altra cosa, ha reso possibile una discussione veramente scientifica di molti problemi filosofici.

Il problema della natura e della credibilità del giudizio può essere preso come esempio di un problema la cui soluzione si basa su un inventario adeguato delle forme logiche. Avviamo già visto che la supposta universalità della forma soggetto-predicato ha reso impossibile una giusta analisi dell’ordine seriale e perciò ha reso incomprensibile lo spazio e il tempo. Ma, in questo caso, era necessario soltanto ammettere relazioni di due termini. Il caso del giudizio richiede l’ammissione di forme più complicate. Se tutti i giudizi fossero veri, potremmo supporre che un giudizio consiste nella comprensione di un fatto, cioè in una relazione di una mente con il fatto. Questo punto di vista era stato spesso sostenuto dalla povertà dell’inventario logico. Ma implica difficoltà assolutamente insolubili nel caso dell’errore. Supponete che io creda che Carlo I sia morto nel suo letto. Non c’è fatto oggettivo nell’affermazione “la morte di Carlo I nel suo letto”, con cui posso avere una relazione di apprendimento. Carlo I, la morte, il suo letto, sono oggettivi, ma non sono posti insieme, eccetto che nel mio pensiero, come suppone la mia credenza sbagliata. Perciò è necessario, nell’analisi di una credenza, cercare forme logiche diverse dalla relazione di due termini. L’omissione della realtà di questa necessitò, secondo me, ha deformato quasi tutte le opere elaborate fin qui sulla toria della conoscenza, rendendo insolubile il problema dell’errore e rendendo inspiegabile la differenza fra credenza e percezione.

La logica moderna, come spero che ora sia evidente, ha l’effetto di allargare la nostra immaginazione astratta e di procurare un numero infinito di ipotesi possibili, da applicare nell’analisi di ogni fatto complesso. Sotto questo aspetto è l’esatto opposto della logica professata dalla tradizione classica. In quella logica le ipotesi che prima facie, sembrano possibili, sono provate apertamente impossibili e si decreta in anticipo che la realtà deve avere un carattere speciale. Al contrario, nella logica moderna, mentre le ipotesi ammesse come norme restano ammissibili, altre, che la logica avrebbe solo suggerito, sono giunte al nostro inventario e sono spesso riscontrate necessarie, se si deve raggiungere una giusta analisi dei fatti. La logica vecchia poneva il pensiero nella schiavitù, mentre la logica nuova gli dà le ali. Secondo me ha introdotto, nella filosofia, lo stesso progresso che Galileo ha introdotto nella fisica, permettendo almeno di vedere quali problemi può risolvere e quali devono essere messi in disparte perché superiori alle capacità umane. E, dove è possibile una soluzione, la logica nuova offre un metodo che ci permette di conseguire risultati tali da non integrare idiosincrasie personali, ma da esigere il consenso di tutti coloro che sono competenti per formulare un’idea ».

B. Russell, Semantica e filosofia del linguaggio, il saggiatore, Milano 1969, pp. 133-148. Tratto da: Filosofia del linguaggio, A cura di Casalegno, Raffaello Cortina Editore, 2003 pp 46-56.

Una “descrizione” può essere di due tipi, definita o indefinita ( o ambigua ). Una descrizione indefinita è una espressione della forma “un così e così” e una descrizione definita è una frase della forma “il così e così”. Cominciamo dalla prima.

“Chi hai incontrato?” “Ho incontrato un uomo”. “Come descrizione è molto indefinita”. Con la nostra terminologia non ci allontaniamo quindi dall’uso corrente. Il nostro problema è questo: che cosa asserisco in realtà quando asserisco “ho incontrato un uomo”? Supponiamo, per il momento, che la mia asserzione sia vera e che, di fatto, io abbia incontrato Rossi. E’ chiaro che ciò che io asserisco non è “Ho incontrato Rossi”. Potrei dire “Ho incontrato un uomo, ma non era Rossi”; in tale caso, sebbene io menta, non mi contraddico, come invece accadrebbe se, dicendo di aaver incontrato un uomo, realmente intendessi dire di aver incontrato Rossi. E’ chiaro anche che la persona alla quale sto parlando può capire ciò che dico, anche se è un estraneo e non ha mai sentito parlare di Rossi.

Ma possiamo spingerci oltre: non soltanto Rossi, ma nessun uomo relae rientra nella mia asserzione. Questo risulta ovvio quando l’asserto è falso, perché in questo caso non vi è ragione di supporre che rientri nella proposizione Rossi più di chiunque altro. Anzi, l’asserto sarebbe significante, pur non potendo essere vero, anche se non esistesse nemmeno un uomo. “Ho incontrato un uncorno” o “Ho incontrato un serpente di mare” sono asserti perfettamente significanti, se sappiamo che cosa significa essere un unicorno o un serpente di mare, cioè qual è la definizione di questi mostri favolosi. Quindi è soltanto ciò che possiamo chiamare il concetto che rientra nelle proposizioni. Nel caso di “unicorno”, ad esempio, esiste soltanto il concetto: non esiste anche, in qualche luogo fra le ombre, qualcosa di irreale che possa essere chiamato “un unicorno”. Perciò, dal momnento che dire “ho incontrato un unicorno” è significante ( sebbene sia falso ), è chiaro che questa proposizione analizzata correttamente, non contiene come elemento costitutivo “un unicorno”, anche se contiene il concetto “unicorno”.

Il problema della “irrealtà”, cui ci troviamo di fronte a questo punto, è molto importante. Fuorviati dalla grammatica, la maggior parte di quei logici che si sono occupati della questione l’hanno fatto secondo una erronea impostazione. Hanno considerato la forma grammaticale una guida più sicura all’analisi di quanto in realtà non sia. E non hanno afferrato quali siano le differenze importanti della forma grammaticale. “Ho incontrato Rossi” e “Ho incontrato un uomo” tradizionalmente sarebbero considerate proposizioni ella medesima forma, ma sono in realtà di forma completamente diversa: la prima menziona una persona reale, Rossi; la seconda, invece, comprende una funzione proposizionale e diviene, una volta resa esplicita: “La funzione –ho incontrato x e x è umano- è talvolta vera”. ([Adottiamo] la convenzione di usare “talvolta” in modo tale che non implichi più di una volta. ) Questa proposizione non è ovviamente, della forma “Ho incontrato x”, il che rende conto dell’esistenza della proposizione “Ho incontrato un unicorno”, malgrado nulla sia di fatto “un unicorno”.

Mancando loro l’apparato delle funzioni proposizionali, molti logici sono stati indotti a concludere che eesistono oggetti irreali. Argomenta Meinong, ad esempio, che si può parlare de “la montagna d’oro”, “il quadro rotondo” e così via; che si possono formare proposizioni vere di cui questi sono i soggetti; e che quindi essi devono possedere un certo tipo di esistenza logica, poiché altrimenti le proposizioni in cui ricorrono sarebbero prive di significato. In teorie del genere manca, mi sembra, quel senso della realtà che dovrebbe essere presente anche negli studi più altratti. La logica, direi, non deve ammettere un unicorno più di quanto non faccia la zoologia; infatti la logica ha a che fare col mondo reale proprio quanto la zoologia, benché ne consideri solo gli aspetti più astratti e generali. Dire che gli unicorno hanno una lor esistenza in araldica, o in letteratura, o nell’immaginazione, è una scappatoia pietosa e ridicola. Ciò che esiste in araldica non è un animale, fatto di carne e di sangue, che si muove e respira di sua iniziativa. Ciò che esiste è una figura o una descrizione verbale. Analogamente, asserire che Amleto, ad esempio, esiste nel suo mondo, cioè nel mondo dell’immaginazione di Shackespeare, con la stessa verità con cui, diciamo, Napoleone è esistito nel mondo comune, significa dire qualcosa che crea deliberatamente confusione, oppure che è confuso a un grado difficilmente credibile. Vi è soltanto un mondo, il mondo “reale”: l’immaginazione di Shackespeare ne ha parte, e i pensieri che egli aveva scrivendo Amleto sono reali. Altrettanto reali sono i pensieri che abbiamo leggendo la tragedia.Ma fa parte dell’essenza stessa della finzione letteraria che solo i pensieri, i sentimenti ecc. di Shackespeare e dei suoi lettori siano reali e che non vi sia, oltre a essi un Amleto oggettivo. Quando abbiate preso in considerazione tutti i sentimenti suscitati da Napoleone negli scrittori e nei lettori di storia non avete ancora toccato l’uomo reale; ma nel caso di Amleto avete esaurito tutto ciò che c’è di lui. Se nessuno pensasse ad Amleto, non rimarrebbe nulla di lui; se nessuno avesse pensato a Napoleone, egli avrebbe fatto sì che qualcuno, presto o tardi, si sarebbe occupato di lui. Il senso della realtà è vitale in, logica, e chiunque se ne prenda gioco pretendendo che Amleto sia per quanto in senso differente, reale, rende un cattivo servizio al pensiero. Un robusto senso della realtà è assolutamente necessario per compiere un’analisi corretta delle proposizioni sugli unicorni, le montagne d’oro, i circoli quadrati, e simili pesudo-oggetti.

In omaggio a tale senso della realtà, insisteremo sul fatto che, nell’analisi delle proposizioni, non si deve ammettere niente di “irreale”. Ma, dopo tutto, si potrebbe chiedere, se non esiste nulla di irreale, come potremmo ammettere qualcosa di irreale? La risposta è questa: quando ci occupiamo di proposizioni, ci occupiamo in primo luogo di simboli, che non ne hanno, cadiamo nell’errore di ammettere cose irreali, nell’unico senso in cui questo è possibile, cioè come oggetti descritti. Nella proposizione “Ho incontrato un unicorno”, le quattro parole nel loro insieme costituiscono una proposizione significante e la parola “unicorno” di per se stessa è significante, esattamente nello stesso senso della parola “uomo”. Ma le due parole “un unicorno” non formano un gruppo subordinato provvisto di un significato proprio. Se, quindi, attribuiamo erroneamente un significato a queste due parole, ci troveremo alle prese con “un unicorno”, e col problema di come possa esserci una cosa del genere in un mondo dove non ci sono unicorni. “un unicorno” è una descrizione indefinita che no descrive nulla. Non è una descrizione indefinita che descrive qualcosa di irreale. Una proposizione quale “x è irreale” ha significato solo quando “x” è una descrizione definita o indefinita; in tal caso la proposizione sarà vera se “c” è una descrizione che non descrive nulla. Ma, sia che la descrizione “x” descriva qualcosa sia che non descriva nulla, non è, in ogni caso, un elemento costitutivo della proposizione in cui comprare; come nel nostro caso “un unicorno”, non è un gruppo subordinato con un significato suo proprio. Tutto questo risulta dal fatto che quando un “x” è una descrizione, “x è irreale” o “x non esiste” non è nonsenso ma è sempre significante e talvolta vero.

Possiamo ora passare a definire in generale il significato delle proposizioni che contengono descrizioni ambigue. Supponiamo di fare un’asserzione su “un così e così”, dove i “così e così” sono gli oggetti che hanno una certa proprietà Φ, cioè quegli oggetti x per i quali è vera la funzione proposizionale Φx. (Ad esempio, se prendiamo “un uomo” come caso particolare di “un così e così”,  Φx sarà “Ho incontrato x” ). Ora la proposizione che “un così e così” ha la proprietà Ψ non è una proposizione della forma “Ψx”. Se lo fosse, “un così e cos’” dovrebbe essere identico a x per un x appropriato; e sebbene, in un certo senso, ciò possa essere vero in alcuni casi, non lo è vertamente in un caso come quello di “un unicorno”. E’ proprio questo fatto, cioè che l’asserto che “un così e così” ha la proprietà Ψ non è della forma Ψx, che rende possibile che “un così e così” sia, in un certo senso chiaramente definibile, irreale. La definizione è la seguente:

L’asserto che “un oggetto che ha la proprietà Φ anche la proprietà Ψ”

Significa:

“L’asserzione congiunta Φx e di Ψ non è sempre falsa”.

Per quel che riguarda la logica, si tratta della stessa proposizione che si potrebbe esprimere con “alcuni Φ sono “; ma dal punto di vista della retorica c’è una differenza, perché nel primo caso si suggerisce l’idea della singolarità, e nel secondo caso l’idea della pluralità. Questo, a ogni modo, non è il punto importante., Il punto importante è che, se le proposizioni la cui formulazione verbale riguarda “un così e così” sono analizzate correttamente, si scopre che esse non contengono alcun costituente rappresentato da tale espressione. E questa è la ragione per cui tali proposizioni possono essere significanti anche quando non esiste nulla di simile a “un così e così”.

La definizione di esistenza, applicata alle descrizioni ambigue, [ è la seguente ]. Noi diciamo che “esistono uomini” oppure che “un uomo esiste” se la funzione proposizionale “x è umano” è talvolta vera; e in generale, “un così e così” esiste se “x è così e così” è talvolta vero. Possiamo riformulare ciò in altri termini: la proposizione “Socrate è un uomo” è senza dubbio equivalente a Socrate è umano” ma non è proprio la stessa proposizione. La è di “Socrate è umano” esprime identità. E’ una sfortuna per il genere umano che si sia scelto di usare la medesima parola “è” per queste due idee completamente diverse –una sfortuna cui pone naturalmente rimedio un linguaggio logico simbolico. L’identità in “Scorate è un uomo” è una identità fra un oggetto nominato ( ammettendo che “Socrate” sia un nome, con le riserve che illustreremo più avanti ) e un oggetto descritto in modo ambiguo. Un oggetto descritto in modo ambiguo “esisterà” quando almeno una proposizione di questo genere è vera, cioè quando c’è almeno una proposizione vera della forma “x è così e così”, dove “x” è un nome. E’ una caratteristica delle descrizioni ambigue ( in contrasto con quelle definite ) che ci possa essere un numero qualsiasi di proposizioni vere della forma indicata – Socrate è un uomo, Platone è un uomo ecc. Così “un uomo esiste” segue da Socrate, o da Platone o da chiunque altro. Nel caso delle descrizioni definite, invece, la forma corrispondente di una proposizione, cioè “x è il cos’ e cos’” ( Dove “x” è un nome ), può essere vera al massimo per un solo valore di “x”. Con questo giungiamo alle descrizioni definite che devono essere definite in modo analogo a quello delle descrizioni ambigue, ma alquanto più complicato.

Veniamo ora all’argomento principale, cioè alla definizione della parola il. Un punto molto importante concernente la definizione di “un così e così” si applica ugualmente a “il così e così”; la definizione richiesta è una definizione delle proposizioni in cui ricorre tale espressione, non già una definizione dell’espressione stessa presa isolatamente. Nel caso di “un così e così” questo è del tutto ovvio: nessuno potrebbe pensare che “un uomo” sia un oggetto definito, per se stesso definibile. Socrate è un uomo, Platone è un uomo, Aristotele è un uomo, ma non possiamo inferirne che “un uomo” abbia lo stesso significato di “Socrate”, e anche di “Platone” e anche di “Aristotele”, perché questi tre nomi hanno significati diversi. Nondimeno, quando abbiamo enumerato tutti gli uomini del mondo, non rimane nulla di cui si possa dire “Questo è un uomo e non solo, ma è “l’un uomo”, l’entità quintessenziale che è semplicemente un uomo indefinito, senza essere nessuno in particolare”. E’ chiarissimo, naturalmente, che tutto ciò che esiste nel mondo è definito: se si tratta di un uomo è un uomo definito e non un altro uomo. Quindi non si può trovare al mondo un’entità quale “un uomo”, in contrapposizione ai singoli uomini specifici. E, di conseguenza, è naturale che non si definisca “un uomo” in quanto tale, ma che si definiscano soltanto le proposizioni in cui compare.

Nel caso di “il così e così” ciò è ugualmente vero, sebbene a prima vista appaia meno ovvio. Possiamo dimostrare che così deve essere, considerando la differenza fra un nome e una descrizione definita. Prendiamo la proposizione “Scott è l’autore di Wverley”. Abbiamo qui un nome, “Scott”, e una descrizione, “l’autore di Waverley”, di cui si asserisce che si applicano a una stessa persona. La differenza fra un nome e tutti gli altri simboli può essere spietata nel modo seguente:

Un nome è un simbolo semplice che sta a significare qualcosa che può comparire solo come soggetto, ciò qualcosa dello stesso tipo di ciò che [ altrove ] abbiamo definito “individuo” o “particolare”. E un simbolo “semplice” è un simbolo che non ha parti che siano simboli. Così “Scott” è un simbolo semplice perché, sebbene abbia delle parti ( cioè le singole lettere ), queste parti non sono simboli. Al contrario, “l’autore di Waverley” non è un simbolo semplice, perché le singole parole che compongono l’espressione sono parti che sono simboli. Se, come può darsi, tutto ciò che sembra un “individuo” è in realtà suscettibile di una ulteriore analisi, dovremo accontentarci di quelli che si possono chiamare “individui relativi”; questi saranno i termini che, nell’intero contesto in esame, non vengono mai analizzati e non compaiono mai se non come soggetti. E in tale caso dovremo accontentarci parallelamente di “nomi relativi”. Dal punto di vista del nostro problema attuale, cioè la definizione delle descrizioni, la questione se si abbia a che fare con nomi assoluti o solo relativi, può essere ignorata, perché concerne livelli diversi nella gerarchia dei “tipi”, mentre noi dobbiamo confrontare coppie come “Scott” e “l’autore di Waverley”, che si applicano entrambi allo stesso oggetto e quindi il problema dei tipi non lo sollevano. Per il momento possiamo pertanto trattare i nomi come se potessero essere assoluti; nulla di ciò che diremo dipenderà da tale assunzione, ma, grazie ad essa, potremo abbreviare un po’ il discorso.

Dunque dobbiamo mettere a confronto due cose. (1) un nome, che è un simbolo semplice che designa direttamente un individuo che è il suo significato, e che possiede questo significato in modo autonomo, indipendentemente dal significato, di tutte le altre parole; (2) una descrizione, formata da diverse parole, i cui significati sono già fissati, e da cui risulta quello che deve essere considerato il “significato” della descrizione.

Una proposizione che contiene una descirizione non è identica a ciò che ne risulta quando si sostituisce un nome alla descrzione, anche se il nome denomina lo stesso oggetto che la descrzione descrive, “Scott è l’autore di Waverley” è, ovviamente, una proposizione diversa da “Scott è Scott”: il primo è un fatto della storia della letteratura, il secondo un banale turismo. E se ponessimo chiunque altro invece di Scott al posto dell’”autore di Waverley”, la nostra proposizione diventerebbe falsa e quindi, certamente, non sarebbe pià la stessa proposizione. Ma, si obietterà, la nostra proposizione è essenzialmente della stessa forma di “Scott è Sir Walter” ( poniamo ) in cui si dice di due nomi che si applicano alla stessa persona. La risposta è che, se “Scott è Sir Walter” significa in realtà “La persona denominata –Scott- è la persona denominata –Sir Walter-, allora i nomi vengono usati come descrizioni: cioè l’individuo, invece di essere nominato, è descritto come la persona che ha quel nome. Questo è un modo in cui i nomi sono spesso usati in pratica e di norma non vi è nulla nel modo di esprimersi che mostri se essi vengono ustai in quel modo o come nomi. Quando un nome è usato direttamente, semplicemente per indicare ciò di cui stiamo parlando, esso non fa parte del fatto asserito, o della falsità, nel caso la nostra asserzione sia falsa: è semplicemente parte del simbolismo per mezzo del quale esprimiamo il nostro pensiero. Ciò che vogliamo esprimere è qualcosa che potrebbe ( per esempio ) essere tradotta in una lingua straniera; è qualcosa di cui le parole usate sono in veicolo, ma di cui non fanno parte. Invece, quando costruiamo una proposizione riguardante “la persona chiamata –Scott-“, lo tesso nome “Scott” rientra in ciò che asseriamo e non soltanto nel linguaggio usato per formulare l’asserzione. La nostra proposizione ora sarà diversa se vi sostituiamo “la persona chiamata –sir Walter-“. Ma fintanto che usiamo i nomi come nomi, che diciamo “Scott” o che diciamo “Sir Walter” non ha importanza per ciò che stiamo asserendo, proprio come non ne ha il fatto di parlare in inglese piuttosto che in francese. Quindi, fintanto che i nomi siano usati come nomi, “Scott è Sir Walter” è la stessa proposizione banale che “Scott è Scott”. Ciò completa la dimostrazione del fatto che “Scott è l’autore di Waverley” non è la stessa proposizione che si ottiene sostituendo un nome, non importa quale, a “l’autore di Waverley”.

Quando usiamo una variabile, e parliamo di una funzione proposizionale, Φx diciamo, il processo di applicare asserti generali che riguardano x a casi particolari consiste nel sostituire un nome alla lettera “x”, assumendo che Φ sia una funzione con individui come argomenti. Supponiamo, per esempio, che Φx sia “sempre vera”; sia, diciamo, al “legge di identità”, x = x. Possiamo allora sostituire a “x” un nome qualsiasi a scelta e otterremo una proposizione vera. Assumendo per il momento che “Socrate”, “Platone”, e “Aristotele” siano nomi ( un’assunzione assai avventata ), possiamo dedurre dalla legge di identità che Socrate è Socrate, Platone è Platone, e Aristotele è Aristotele. Ma commetteremo una fallacia se tenteremo di inferire, senza ulteriori premesse, che l’autore di Waverley  è l’autore di Waverley, Questo risulta da ciò che abbiamo appena dimostrato, e cioè che se in una proposizione sostituiamo  un nome a “l’autore di Waverley”, la proposizione ottenuta è diversa. E cioè, applicando il risultato al nostro caso; se “x” è un nome, “x = x” non è la stessa proposizione che “l’autore di Waverley è l’autore di Waverley”, qualunque nome sia “x”. Quindi, dal fatto che tutte le proposizioni della forma “x = x” sono vere, non possiamo dedurre, senz’altro, che l’autore di Waverley è l’autore di Waverley. Di fatto, le proposizioni della forma “il così e così è il così e così” non sono sempre vere: è necessario che “il così e così” esista ( termine che sarà spiegato fra breve ). E’ falso che l’attuale re di Francia sia l’attuale re di Francia, o che il circolo quadrato sia il circolo quadrato. Quando sostituiamo una descrizione a un nome, le funzioni proposizionali “sempre vere” possono diventare false, se la descrizione non descrive nulla. In questo non c’è alcun mistero se ci rendiamo conto che ( come è stato dimostrato nel capoverso precedente ) quando sostituiamo una descrizione, il risultato non è un valore della funzione proposizionale in questione.

Siamo ora in grado di definire le proposizioni in cui compare una descrizione definita. La sola cosa che distingua “il così e così” da “un così e così” è l’implicazione di unicità. Non possiamo parlare de “l’abitante di Londra”, perché abitare a Londra è un attributo che non è unico. Non possiamo parlare de “l’attuale re di Francia”, perché non ne esiste alcuno,; ma possiamo parlare de “l’attuale re di Inghilterra”. Quindi le proposizioni riguardanti “il così e così” implicano sempre le proposizioni corrispondenti riguardanti “un così e così”, con l’aggiunta che non esiste più di un così e così. Una proposizione come “Scott è l’atuore di Waverley” non potrebbe essere vera se Waverley non fosse mai stato scritto, o se fosse stato scritto da più persone; e, analogamente, non potrebbe essere vera qualsiasi altra proposizione risultante da una funzione proposizionale Φx mediante la sostituzione di “l’autore di Waverley” a “x”. Possiamo dire che “l’autore di Waverley” significa “il valore di x per cui –x scrisse Waverley- è vero”. Quindi, per esempio, la proposizione “l’autore di Wavereley era scozzese” comporta che:

  1. “x scrisse Waverley” non è sempre falso.
  2. “Se x e y scrissero Waverley, x e y sono identici” è sempre vero.
  3. “Se x scrisse Waverley, x era scozzese” è sempre vero.

Queste tre proposizioni, tradotte nel linguaggio comune, asseriscono:

  1. almeno una persona scrisse Waverely;
  2. al massimo una persona scrisse Waverley;
  3. chiunque abbia scritto Waverley era scozzese;

Tutte e tre queste proposizioni sono implicate da “l’autore di Waverley era scozzese”. Inversamente, le tre proposizioni insieme ( ma non due sole di esse ) implicano che l’autore di Waverley era scozzese. Quindi le si può considerare tutte e tre insieme come definenti ciò che è significato dalla proposizione “l’autore di Waverley era scozzese”.

Possiamo semplificare un poco queste tre proposizioni. La prima e la seconda insieme sono equivalenti a “Esiste un termine c tale che –x scrisse Waverley- è vero quando x + c ed è falso quando x non è c”. In altre parole: “Esiste un termine c tale che –c scrisse Waverley- è sempre equivalente a –x è c-“. ( Due proposizioni sono “equivalenti quando sono o ambedue vere o ambedue false ). Abbiamo qui, per cominciare, due funzioni di x, “x scrisse Waverley” e “x è c”, e formiamo una funzione di c “talvolta vera” cioè è vera per almeno un valore di c. ( Ovviamente non può essere vera per più di un valore di c ). Definiamo queste due condizioni insieme come quelle che determinano il significato de “l’autore di Waverley esiste”.

Possiamo ora definire “il termine che soddisfa la funzione Φx esiste”. Questa è la forma generale di cui l’esempio che precede è un caso particolare. “L’autore di Waverley” è “il termine che soddisfa la funzione –x scrisse Waverley-“. E “il così e così” comporterà sempre il riferimento a una qualche funzione proposizionale, cioè a quella che definisce la proprietà che rende una cosa un così e così. La nostra definizione è la seguente:

“Il termine che soddisfa la funzione Φx esiste” significa:

“Vi è un termine c tale che Φx è semrpe equivalente a –x è c-“.

Per definire “l’autore di Waverley era scozzese”, dobbiamo tener conto anche della terza delle nostre tre proposizioni, cioè “Chiunque abbia scritto WWaverley era scozzese”. La condisione è soddisfatta con la semplice aggiunta che il c in questione deve essere scozzese. Quindi “l’autore del Waverley era scozzese” è:

“Esiste un termine c tale che (1) .x scrisse Waverley- è sempre equivalente a –x è c-, (2) c è scozzese”.

E in generale il significato di “il termine che soddisfa Φx soddisfa “ è definito così:

“Esiste un termine c tale che (1) Φx è sempre equivalente a –x è c-, (2) Ψc è vera”.

Questa è la definizione delle proposizioni in cui compaiono descrizioni.

E’ possibile saperne molto intorno a un termine descritto, conoscere cioè molte proposizioni riguardanti “il così e così”, senza sapere effettivamente cosa sia “il così e così”, senza conoscere cioè alcuna proposizione della forma “x è il così e così” dove “c” è un nome. In un romanzo poliziesco si accumulano proposizioni intorno a “l’uomo che ha commesso il delitto”, nella speranza che infine esse saranno sufficienti a dimostrare che è stato A a commettere il delitto. Possiamo addirittura spingerci a dire che, in ogni conoscenza espressa per mezzo di parole –con l’eccezione di “questo” e “quello” e poche altre parole il cui significato varia nelle diverse circostanze – non compare alcun nome in senso stretto, ma quelli che sembrano nomi sono, in realtà, descrizioni. Possiamo chiederci sensatamente se Omero sia esistito, il che non sarebbe possibile se “Omero” fosse un nome. La proposizione “il così e così esiste” è significante, vera o falsa che sia; ma se a è il così e così” ( dove “a” è un nome ), le parole “a esiste” sono prive di significato. Solo delle descrizioni –definite o indefinite- si può asserire l’esistenza sensatamente; infatti, se “a” è un nome esso deve nominare qualcosa: ciò che non nomina niente non è un nome, e quindi se lo si usa come un nome, è un simbolo privo di significato. Invece una descrizione come “l’attuale re di Francia” diventa incapace di comparire in una proposizione in modo significante per il fatto che non descrive nulla; e la ragione è che si tratta di un simbolo complesso, il cui significato deriva da quello dei simboli che lo compongono. Per cui, quando domandiamo se Omero sia esistito, usiamo la parola “Omero” come una descrizione abbreviata: potremmo sostituirla ( per esempio ) con “l’autore dell’Iliade e dell’Odissea”. Le stesse considerazioni valgono in quasi tutti i casi in cui apparentemente si usano nomi propri.

Quando nelle proposizioni compaiono descrizioni, è necessario distinguere quelle che si possono chiamare occorrenze “primarie” e “secondarie”. La distinzione astratta è la seguente. Una descrizione ha un’occorrenza “primaria” quando la proposizione in cui occorre risulta dalla sostituzione della descrizione a “x” in una certa funzione proposizionale Φx; una descrizione ha un’occorrenza “secondaria” quando il risultato ottenuto sostituendo la descrizione a x in Φx dà soltanto parte della proposizione in esame. Spieghiamoci con un esempio. Consideriamo “l’attuale re di Francia è calvo”. Qui “l’attuale re di Francia” ha un’occorrenza primaria, e la proposizione è falsa. Tutte le proposizioni in cui una descrizione che non descrive nulla ha una occorrenza primaria sono false. Ma consideriamo ora “l’attuale re di Francia non è calvo”. La proposizione è ambigua. Se prendiamo prima “x è calvo”, sostituiamo poi “l’attuale re di Francia” a “x” e neghiamo infine il risultato, l’occorrenza de “l’attuale re di Francia” è secondaria e la nostra proposizione è vera; ma se consideriamo “x non è calvo” e sostituiamo “l’attuale re di Francia” a “x”, allora “l’attuale re di Francia” occorre in modo primario e la proposizione è falsa. La confusione fra occorrenze primarie e secondarie è una fonte immediata di errori nell’analisi delle descrizioni.

Bibliografia.

Filosofia del Linguaggio. A cura di Paolo Casalegno. Raffaello Cortina Editore. Milano. 2003.

B. Russell, Semantica e filosofia del linguaggio, il saggiatore, Milano 1969, pp. 133-148. Tratto da: Filosofia del linguaggio, A cura di Casalegno, Raffaello Cortina Editore, 2003 pp 46-56.

Russell, La conoscenza del mondo esterno, Longanesi, Milano, 1975. Da Emanuele Severino, Antologia filosofica, edizione Mondo Libri, Milano, 1990.

Russell, B., Principia Matematica, Grandi tascabili economici Newton, Roma, 1989.

Russell B., Filosofia dell’atomismo logico, Einaudi, Torino, 2003.

Wittghenstein, L., Tractatus Logico-philosophicus, e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino, 1998.

E l’insostituibile:

http://plato.stanford.edu/ Kevin Klement.

 


[1] Questo esempio specifico vale per Russell.

[2]Una malattia incurabile è un paradosso interessante: 1) se è incurabile allora non c’è medico che la possa curare, 2) se una malattia è incurabile allora non è più una malattia giacché anche la vita è una malattia incurabile come la respirazione o così via. Una malattia che non sia curabile implica che essa sia diventata “normale” all’interno dell’organismo, o meglio, che essa sia diventata un modo di vita dell’organismo stesso. Dunque, o una malattia è curabile o non è una malattia giacché non si capisce, altrimenti, cosa sia e cosa non sia una malattia.

[3] Il fatto che ci sia una perdita di vaghezza, in questa analisi, non implica una perdita del contenuto di verità della teoria stessa, tuttavia ne determina un irrimediabile irrigidimento. D’altra parte, la razionalizzazione russelliana è un programma analitico comprensibile e, tuttavia, è forse stato dato per scontato che esso sia necessario. Ciò che non ci stanchiamo di ribadire è che, in ogni caso, l’analisi logica sopravviene alla teoria ed è ad essa successiva.

[4] E’ abbastanza probabile sebbene ciò non sia necessario.

[5] Ciò è evidente dall’analisi fatta sopra.

[6] Per avere un’idea del problema si può leggere tra i riferimenti l’articolo famoso dello stesso Russell  “ON denoting” e poi leggere la scheda di Frege per vedere su cosa i due filosofi dissentano.

[7] In realtà, se pensiamo a descrizioni molto familiari, non si può dire che le cose siano esattamente così: una volta che ad “il supereroe” associamo Superman, se qualcuno ci dice “Superman è il supereroe” noi capiamo la frase esattamente come se ci stesse dicendo “Superman è Superman”. Si possono sollevare obiezioni a questa impostazione che, va da sé, è comunque molto autorevole.

[8] In realtà, almeno per gli scritti di questo periodo ( PM a parte ), non si può dire che siano “chiari” o “cristallini” né che siano privi di ambiguità. Piuttosto è abbastanza evidente l’incontrario.

[9] E’ interessante notare come “luogo comune” sia una nozione estremamente ambigua e intesa in modo estremamente diversa da filosofo a filosofo e come sia stata oggetto di attacco o di difesa: è curioso perché tutti con “luogo comune” denotano una cosa assai vaga e senza poterne mai definire i contorni. E su questa nozione molti hanno insistito senza però definirla mai o dire perché essi credevano che “il luogo comune” possa essere di qualche autorità nella misura in cui non è mai afferrato da nessuno.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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