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Intervista ad Andrea Molinari – Contributor del libro “La guerra fredda”

Dottor Andrea Molinari, le do il benvenuto su Scuola Filosofica. Lei è uno storico, in particolare uno studioso di storia militare, è socio della Società Italiana di Storia Militare e ha svolto ricerca in questo ambito. In questa vece ha collaborato al volume “La guerra fredda. Una guida al più grande confronto del XX secolo”. La ringraziamo di aver accettato di farsi intervistare da noi.

Cosa la attira di più nello studio della storia militare?

Essenzialmente, mi hanno sempre affascinato da una parte il rapporto tra guerra e politica, con la conseguente riflessione sulla natura della guerra e, dall’altra, l’evoluzione tecnologica. In modo particolare, come la tecnologia ha influenzato il fenomeno bellico, sia un punto di vista operativo sia da quello, più ampio, legato alle dinamiche sociali e culturali dell’epoca presa in esame.

Nel volume si tratta nello specifico la guerra fredda. Trova che questo conflitto, per la sua particolarità definito appunto “freddo” rappresenti un unicum nella storia? E dobbiamo aspettarci che esso sia il modello per i conflitti futuri?

Se consideriamo alcuni dei principi cardine della guerra fredda, ossia deterrenza, contenimento, equilibrio (solo per citarne alcuni), possiamo trovare dei riferimenti storici molto significativi. Mi viene in mente la partita giocata dagli stati italiani nel XV secolo per il controllo della penisola, oppure i confronti geopolitici tra le grandi potenze europee nell’espansione coloniale, come il Great Game in Asia.

Ma la scala di polarizzazione, l’estensione planetaria e, non ultima, la prospettiva dell’apocalisse nucleare, fanno della Guerra fredda qualcosa di assolutamente unico.

La guerra fredda ha visto il contrapporsi di due blocchi, anche a livello culturale. A suo parere questo ci ha lasciato con due diverse narrative storiche sulla guerra fredda?

Questo è un punto davvero interessante. Noi siamo abituati a utilizzare fonti di origine occidentale, mentre “the other side of the hill”, per mutuare un’espressione coniata da Liddell-Hart a proposito della necessità di conoscere la memorialistica tedesca della Seconda guerra mondiale, è incomparabilmente meno noto. E lo stesso si può dire del punto di vista di attori terzi come i Paesi non allineati, la Cina o il Vietnam. Indubbiamente la narrativa della guerra fredda a cui siamo abituati è molto parziale e non restituisce appieno la complessità di un conflitto che ebbe dimensioni planetarie.

Gli arsenali nucleari sono stati al centro del dibattito diplomatico e pubblico nella seconda metà del novecento. Ora però a “guerra conclusa” il problema nucleare è stato coniugato al passato dal grande pubblico. Ma caduta l’URSS le bombe restano. Questo calo di attenzione può avere conseguenze sulla gestione e il proliferare delle armi nucleari?

No, non credo. Il fatto che la “bomba” non sia più al centro di slogan e dell’attenzione consapevole del grande pubblico non significa che le leadership politiche se ne siano dimenticate. Basti pensare alle vicende che coinvolgono oggi l’Iran o la Corea del Nord a causa dei rispettivi programmi nucleari.

Tra l’altro, l’imperativo morale “Dobbiamo impedire la proliferazione/possesso di armi di distruzione di massa” funziona sempre bene come giustificazione per una politica di intervento, come accaduto in occasione della seconda guerra del Golfo. Che poi si tratti di proliferazione reale o immaginaria è secondario: il monopolio sul possesso delle armi nucleari è ancora reale e ben saldo.

Nel libro lei approfondisce il tema delle “Guerre Stellari”, nome con cui è passato alla storia il mai completato piano antimissile di Ronald Reagan. Il piano aveva il potenziale per spezzare l’equilibrio tra le due superpotenze?

Che ce lo avesse o meno non è importante, quello che conta fu la percezione che riuscì a creare. Oggi sappiamo che le Guerre Stellari furono (e sono) un grande bluff che però, a dimostrazione della sua validità, ci affascina ancora adesso. Non è neanche del tutto chiaro fino a che punto Reagan fosse consapevole del bluff o ne fosse vittima egli stesso. Ma, certamente, quel programma determinò il repentino passaggio dell’iniziativa dalle mani dell’Unione Sovietica a quelle di un’America che appariva sino a quel momento umiliata e indebolita dalla crisi petrolifera e dal rovescio vietnamita.

La regola aurea della guerra fredda prevedeva che a ogni mossa dell’avversario dovesse corrispondere una contromossa simmetrica, di pari intensità e portata: ma l’Unione Sovietica in quell’occasione non fu in grado di rispondere ed è significativo che questa mancata risposta fosse più sul piano dello story telling e che su quello propriamente militare o tecnologico. Quando, nel 1983, Reagan annunciò l’avvio del programma SDI, ossia delle cosiddette “Guerre Stellari” (secondo la felice e derisoria definizione di Ted Kennedy), Mosca non seppe confezionare una risposta altrettanto valida sul piano comunicativo e simbolico: i russi non credettero mai veramente alla fattibilità del programma amaricano ma non per questo poterono evitare di farci i conti, rimediando una sconfitta sostanziale in una partita condotta su un piano che di fattuale aveva ben poco. 

La guerra è sempre stata un catalizzatore di nuove tecnologie. La guerra fredda non è stata, però, un conflitto tradizionale in termini militari. Eppure tecnologie come internet sono nate proprio per scongiurare il rischio del collasso delle telecomunicazioni in un eventuale attacco nucleare, così salvando la catena di comando e controllo. Quanto l’evoluzione tecnologica è stata legata alla guerra fredda, se lo è stata? Quale è il suo punto di vista?

A partire dalla Prima guerra mondiale tecnologia e mobilitazione della società civile sono stati i due pilastri della guerra del XX secolo. Questo binomio lo ritroviamo anche nella Guerra fredda: la tecnologia come strumento per conseguire un vantaggio al fuori del confronto quantitativo, e mobilitazione della società civile in uno scenario di costante connessione tra dimensione militare e civile: nella Prima guerra mondiale questa mobilitazione assumeva gli aspetti del reclutamento e dell’industria, oltre che della ricerca, mentre nella Guerra fredda (come oggi) il focus era sulla ricerca e sul mantenimento, attraverso i bilanci statali, di un complesso industriale che lavorava su commesse militari ma impiegando tecnologie utilizzate e utilizzabili in ogni campo.

In questo senso la Guerra fredda è in perfetta continuità con la “way-of-war” dell’Occidente contemporaneo. Possiamo notare, però, un elemento di rottura rispetto ai due conflitti mondiali: non essendo mai divenuta “calda”, la Guerra fredda registrò una sostanziale assenza di perdite umane.

In questo senso preconizzò la guerra “occidentale” dei nostri giorni la quale accetta sempre meno l’idea del “caduto”, legittimando il ricorso alla tecnologia non solo come modalità prevalente per conseguire la superiorità sull’avversario ma anche come mezzo indispensabile per scongiurare il rischio, divenuto inaccettabile, di subire perdite.

La Guerra fredda, intesa come lunga epoca di passaggio dalle carneficine delle guerre mondiali fino alle guerre asimmetriche dei giorni nostri, ci offre delle lezioni esemplari, sia della validità sia dei limiti di questa visione.

In conclusione e ringraziandola per il tempo concessoci la lascio con un’ultima domanda.

Mi può descrivere, in cinque parole, la guerra fredda?

La Guerra fredda fu una sfida. Condotta su scala planetaria. Con la prospettiva di un’apocalisse. Da scongiurare attraverso un equilibrio. Ma che non impedì a una delle due parti di riportare la vittoria.



Andrea Corona

Andrea Corona nasce a Cagliari nel 1991. È un appassionato ciclista e lettore, divoratore di storie in ogni coniugazione. Il suo film preferito è Pulp Fiction, il suo libro preferito sarà il suo quando vedrà luce, almeno per i primi 5 minuti. Ha recentemente scoperto il mondo degli audiobook e non smetterà di parlarvene qualora gli diate corda. Vive a lavora a Padova.

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