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Intervista a Robert Paul Wolff – Versione Italiana con traduzione del Dr Giangiuseppe Pili

Breve introduzione (del Dr Giangiuseppe Pili) Professor Robert Paul Wolff è un filosofo americano, professore di filosofia presso diverse istituzioni come l’Università del Massachusetts. I suoi interessi spaziano dalla storia della filosofia al marxismo e all’anarchia. È un autore autorevole di libri già classici come In Defense of Anarchism (1970) , Kant’s Theory of Mental Activity (1962) e The Autonomy of Reason (1974) . Alcuni dei libri di Wolff sono tradotti in italiano da uno dei migliori editori in Italia (Einaudi) e sono disponibili sui principali canali librari italiani. Wolff scrive nel suo blog, che suggeriamo gentilmente di seguire. Infine, consigliamo vivamente di guardare le incredibili lezioni di Wolff su Kant , Marx , Hume e altri argomenti già disponibili su YouTube. Devo confessare che li ho semplicemente trovati spettacolari, chiari ed eccezionalmente divertenti. Quando il professor Wolff mi ha risposto accettando di fare un’intervista, ero semplicemente eccitato. Ed è con mio distinto piacere pubblicare il suo breve saggio su Scuola Filosofica – che – per chi non lo conosce ancora, è uno dei principali blog filosofici in Italia. Per chi voglia godere della splendida prosa del professor Wolff, lui o lei può leggere direttamente la fonte in inglese! Nel nome del team di Scuola Filosofica, dei Cultural Promoting Advisors, dei nostri lettori e di me stesso, il professor Wolff: grazie!


Professor Giangiuseppe mi ha posto una serie di domande come base di un’intervista. Tuttavia, piuttosto che rispondergli direttamente, vorrei invece avere l’opportunità di riflettere su cosa ha significato per me essere un filosofo sin dal primo corso di filosofia che ho seguito settant’anni fa quando ero un sedicenne neofita iscritto all’Università di Harvard.

Il mio primo corso era dedicato alla logica formale. Immediatamente mi sono scoperto affascinato (entranced) dalla precisione e chiarezza degli argomenti formali. Nei successivi due anni, ho seguito non meno di quattro corsi sulla logica matematica a livello triennale e specialistico [così traduco undergraduate and graduate levels NDT]. Allo stesso tempo, studiavo la filosofia di grandi filosofi della tradizione occidentale. Nel 1953, ho seguito un famoso corso ad Harvard sulla Critica della ragion pura di Immanuel Kant. Penso sia onesto dire che quel corso mi ha cambiato la vita, benché mi siano occorsi molti anni anche solo per capirlo.

L’insegnamento era tenuto dal grande vecchio del dipartimento, un logico ed epistemologo chiamato Clarence Irving Lewis. Lewis era ormai settantenne in quella primavera e io avevo diciannove anni allora. Lewis era per me una figura inavvicinabile di un’altra epoca, un classico archetipo del gentleman dell’era vittoriana, che vestiva in abito e pince-nez. Si faceva chiamare Mr. Lews invece di Clarence [nella cultura anglosassone, i professori si fanno chiamare per nome, senza ulteriori titoli NDT] anche dai suoi stessi colleghi senior. Lewis combinava la maestria sulla logica formale con un senso, che promanava dalla sua figura, che la filosofia non era un fantastico gioco intellettuale, ma un fatto di alta serietà morale. Era importante, come lui sosteneva senza neppure dirlo, raggiungere le idee corrette. Loro contavano [They mattered]. Ancora ricordo il commento che scrisse ad un articolo che avevo sottomesso il precedente semestre al suo corso sulla teoria della conoscenza. In quel luogo, avevo elaborato una serie di obiezioni alla filosofia di David Hume. In risposta, Lewis mi scrisse: “Spero che il generale spirito di questo articolo non sia il sintomo di quel tipo di mente, in filosofia, che trova le obiezioni a tutto ma non suggerisce soluzioni a nulla”.

Così, piuttosto che proseguire la logica formale, che sarebbe stata, a quei tempi, una buona idea per la mia carriera, ho deciso di scrivere la mia dissertazione dottorale sulle teorie epistemologiche di David Hume e Immanuel Kant. Invece di portare alla luce una serie di obiezioni superficiali, ho lottato per trovare e sostenere con la massima chiarezza di cui ero capace una profonda idea teorica che credo unisse Hume e Kant, due filosofi usualmente concepiti avere posizioni opposte. Questa credenza – un’intuizione, per la verità – fu il tema della mia dissertazione, il tema del mio primo articolo scientifico, e il mio primo libro.

Non tenterò di riassumere quell’intuizione qui. I lettori interessati possono cercare le mie nove lezioni su YouTube sulla Critica di Kant, e le quattro ho postato sul Trattato della natura umana di Hume. Invece, vorrei dire qualcosa su di me quando stavo elaborando i miei lavori su Hume e Kant ben oltre mezzo secolo fa.

Come stavo combattendo questi grandi testi filosofici della tradizione occidentale, ho iniziato a rendermi conto che concepisco [I view] argomenti filosofici come storie. I personaggi sono le idee, e la loro storia è l’argomento, e l’argomento è ciò che porta la storia dalla premessa alla conclusioni. Ho realizzato che i grandi filosofi hanno una profonda, potente, ma alla fine dei conti, molto semplice ed elegante storia da raccontare. Il mio compito, come lettore e interprete del testo, è trovare queste storie, separarle dalla massa di dettagli che spesso oscurano quelle stesse storie così che i miei lettori o i miei studenti possano afferrarle, comprenderle, e seguirle dall’inizio alla fine. Se non posso raccontare la storia con chiarezza e semplicità, allora so che non ho veramente capito il testo o il suo autore, indipendentemente dal numero di commentatori e ricerche [secondary sources] che posso aver consultato o quale che sia il numero di note che i miei scritti possano aver accumulato.

Come il tempo passa, son per caso finito ad affrontare temi estremamente controversi – anarchismo, la guerra nucleare, il socialismo, Karl Marx, la tolleranza, la riforma radicale dell’educazione. Ho assunto e difeso posizioni altamente impopolari su una vasta varietà di temi scottanti, e così, piuttosto naturalmente, ho finito per avere la reputazione di un polemista, radicale, e piantagrane [troublemaker]. Ma la verità è che son finito ad essere un aedo, una persona che racconta storie [story teller], le cui storie sono grandi idee.

Così, nel mezzo della mia vita, trent’anni fa o giù di lì, sono arrivato alla comprensione ancora più profonda del lavoro della mia vita e di ciò che esso consiste. Sono finito a scontrarmi con un fatto inusuale sulle modalità del mio lavoro, che mi contraddistingue dai miei compagni filosofi. Non ho mai scritto ad altri filosofi per commenti o critiche prima della pubblicazione, e dopo di esse, non mi interessa il parere contenuto nelle recensioni [reviewers] di ciò che ho scritto. Nessuno che mi conosca può nel modo più assoluto descrivermi come un modesto o auto-sufficiente [self-effacing]. Piuttosto il contrario! Sono uno rumoroso, che parla sempre a voce alta, uno a cui piace mettersi in mostra, che solleva obiezioni e che prende posizioni pubbliche su temi politici, economici o sull’educazione [educational]. Quindi, perché sono così disinteressato rispetto a quello che gli altri pensano o scrivono di me?

È stato quando ho realizzato che c’è una dimensione estetica rispetto al mio lavoro filosofico, onnipresente ma che non ho mai pienamente portato all’attenzione della mia auto-coscienza. Le idee che trovo nel cuore di un grande testo – della Repubblica di Platone, del Trattato di Hume, della Critica di Kant, del Capitale di Marx, sono belle nel loro elegante, semplice potere. Il mio più profondo desiderio è sempre di sondare la profondità del grande testo per trovare al suo cuore [core] la potente, essenziale idea che sta dentro di esso, e da lì mostrarla ai miei lettori in tutta la sua bellezza così che anche loro possano apprezzarla come la apprezzo io. Questa è la storia che ho sempre voluto narrare. Questo è il motivo per cui non mi interesso delle recensioni ai miei testi.

Ora che sono più vicino ai novanta che agli ottanta, sento una certa pace nel comprendere e riconoscere [recognizing and acknowledging] ciò che è stato dei miei circa settant’anni, fin da quando ho seguito il primo corso di logica. Altri filosofi stanno seguendo le mie orme? Non lo so. Questo lo devono dire loro.

 

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