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Salario Minimo… all’Italiana!

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Tutti sanno che in Italia gran parte delle aziende si può ben definire una “azienda di famiglia”, ovvero dove i dipendenti sono principalmente congiunti di primo grado di parentela con il proprietario. Esistono anche relazioni più sottili indotte dal genere di assunzione (ad esempio, in molte banche si preferisce assumere persone che sono direttamente parenti con altri dipendenti della stessa banca). Non mi addentrerò nella disamina di questo secondo caso perché riguarda la modalità di assunzione ma non la ragione dell’assunzione. Vorrei invece mostrare perché il salario minimo, che sembra una buona idea, induce a dei curiosi paradossi. Non solo. Ma come questi “paradossi economici” vengono poi infatti aggirati e incoraggiati in altro modo in Italia e, dunque, perché le aziende familiari sono preponderanti. E la tesi è semplicissima: le aziende familiari italiane non hanno salario minimo per tutti i lavoratori che sono congiunti di primo grado. Un disclaimer prima di iniziare. Il mio intento è dimostrativo non doxastico. Non ho alcuna intenzione di difendere pareri emotivi né mi sentirò di rispondere a nient’altro che ad argomenti, come è mia consuetudine. Inoltre, non mi interessa dimostrare la validità di alternative al salario minimo per come è configurato in Italia perché l’onere della prova non sta a me, ma a chi sostiene la presenza di un salario minimo di tipo italiano e, allo stesso tempo, non ne accetta le conseguenze. Dato il fatto che l’onere della prova sta a chi produce i paradossi, e non in chi li denuncia, mi auguro di aver chiarito il mio punto di vista.

Partiamo dal paradosso. Tanto più è alta la soglia della minimalità del salario e tanto più una azienda è non incentivata ad assumere. Questo vale soprattutto per la forza lavoro inoccupata, ovvero spesso persone che non hanno esperienza alle spalle o non hanno un grado di certificati (education certificates) adeguata alle attuali esigenze del “mercato” del lavoro (che metto tra virgolette perché – a mio giudizio – non si può legittimamente parlare di “mercato” nelle attuali condizioni italiane e in diversi altri paesi dell’Unione). In ogni caso, la presenza di un salario minimo impone molte conseguenze inaspettate.

Innanzi tutto, il dipendente verrà pagato di più, se quel salario non lo merita per sue mancanze. Ma verrà probabilmente pagato di meno se quel salario non lo merita perché sovra-qualificato. Questo significa che il salario minimo azzera la capacità contrattuale del lavoratore, specialmente in proporzione dello stato della disoccupazione nazionale (tanto più la disoccupazione nazionale è alta, tanto più la capacità contrattuale del lavoratore in forza del salario minimo diminuisce, banalmente perché non avrà alcuna alternativa al lavoro che gli viene offerto). Facciamo un esempio concreto per capirci.

Una azienda è semplicemente una persona giuridica che, supponiamo, è composta da un solo datore di lavoro (il proprietario). Costui è interessato ad assumere solo se può coprire i costi del lavoratore e aumentare la produttività. Infatti, a parità di produttività, ovviamente non ha senso alcuno assumere, laddove l’assunzione di un dipendente richiede molte risorse, dalla burocrazia alla certezza del pagamento dello stipendio. Quindi, in linea di massima, tanto più il costo complessivo (spesa economica più tempo e burocrazia) aumenta, tanto più l’incentivo all’assunzione decade. Il salario minimo, senza logica diretta con la realtà del lavoro, fissa una barra a priori che va aggiunta come costo, il che naturalmente significa un disincentivo. Sia chiaro che in questa logica si può anche considerare il problema puramente morale ovvero che normalmente gli imprenditori sono esseri umani come tutti gli altri e, se assumono un dipendente, lo fanno perché pensano che sia nell’interesse di tutti (ovvero suo, dell’azienda e del lavoratore). Se il dipendente è inefficiente o insoddisfatto, egli sarà più improduttivo e così via. È quindi nella logica stessa dell’imprenditore sperare che il dipendente lavori al meglio. Eppure, il salario minimo ostruisce anche questa logica banale. Infatti, il salario minimo può essere facilmente usato per minimizzare la spesa del lavoratore qualora questi sarebbe da pagare di più in virtù delle sue qualifiche. Infatti, basta dire che lui o lei è pagato in funzione del salario minimo per porre un limite inferiore definitivo, dal quale il lavoratore può partire ma non dipartire facilmente (sulla base di quali ragioni potrebbe farlo se non in virtù di alternative migliori?). Quindi, riassumendo, il salario minimo ha senso se è basso e ha meno senso economico tanto più cresce anche per il lavoratore.

Ora, dato il fatto che lavorare è la base di una vita indipendente e libera, tutto quello che incentiva il lavoro incentiva la qualità della vita della persona che, si spera, possa usare la sua libertà e il suo denaro per migliorare prima di tutto se stessa e, magari, gli altri che gli stanno attorno, tutto ciò che incentiva il lavoro è moralmente buono e tutto ciò che lo disincentiva è, perlomeno, moralmente dubbio. Un salario minimo basso induce la mobilità sociale perché direttamente in funzione della mobilità economica. Come già spiegato implicitamente (paragrafo precedente), la mobilità del salario è ciò che incentiva la produzione del lavoratore, il quale tende a crescere in funzione di quello che può sperare di ottenere. Un lavoratore che ha garantito un salario definitivo fisso – quale che sia -, sarà probabilmente incentivato a fare esclusivamente quel che fa, perché non ha alcuna speranza di ottenere di più o meno, sia in termini economici, sia in termini di riconoscimento pubblico (che in gran parte dipendono da quelli economici). Quindi, qualsiasi norma che ostacola le assunzioni, è una norma che va a detrimento di chi non viene assunto, quale che sia la ragione. L’immobilità sociale più pericolosa è quella economica perché è l’unica che dipende dalla persona e dal suo lavoro. Ovvero, chiunque sia ben posizionato per titoli familiari, rimarrà ben posizionato solo in funzione della sua capacità di guadagnare. Il caso emblematico era l’aristocrazia terriera, che bloccava la mobilità sociale in forza di titoli di sangue ereditari. Quindi, l’assenza di mobilità economica implica l’assenza di mobilità sociale, che determina l’ossificazione della società su titoli e logiche indipendenti dalle qualità dell’individuo, del cittadino che sarà volentieri incentivato a fare il meno possibile per ottenere solo quel che egli ritiene possibile ed esclude tutto il resto.

Ma in Italia si ha gran parlare, come sempre, di tutte le misure che sfavoriscono il lavoro perché si ha la credenza, curiosa, che chi investe, ha denaro per grazia ricevuta, denaro che dovrebbe essere solamente preso per essere ridistribuito a chi non ne ha, indipendentemente dal fatto che chi ha o non ha faccia qualcosa per ottenerlo, ovvero contribuire al cambiamento sociale in meglio. Quindi, si suppone che il salario minimo aiuti il progresso sociale tanto più se esso è alto. Come già detto, forse esso ha un senso se è molto basso, ma certamente non ha senso tanto più tende a crescere. Se questo può essere una opinione personale, si dirà virulentemente contro l’autore del post senza naturalmente darsi la pena di ragionare su quanto scritto, è curioso allora che il non-sistema italiano è infatti pienamente contraddittorio. In che senso? Se fosse vero che il salario minimo incentiva il lavoro, dovremmo essere sorpresi di scoprire che il tessuto economico italiano vive di piccole-medie aziende, tendenzialmente familiari. Come mai?

È semplice. Le aziende di famiglia hanno un’incredibile agevolazione! Quale? Nel fatto che non è richiesto alcun salario minimo e nessun necessario contratto nell’assunzione di parenti di primo grado. Facciamo il caso di una imprenditrice che è madre di tre figli. Lei sa che per far lavorare uno dei tre figli non deve pagare niente e non deve redigere un contratto. Basta che convinca i tre figli a lavorare per lei o “con” lei, a seconda dei punti di vista. Questo significa che il costo per l’assunzione e mantenimento del lavoratore (figlio) è pressoché nullo. Poi, naturalmente, si possono anche generare situazioni contrattuali per ragioni di altro genere, ma qui è l’essenziale che ci interessa. Una madre che possiede una gelateria può far lavorare il figlio tutte le ore che il figlio ritiene in gelateria per tutti i giorni a settimana che desidera e può letteralmente non pagarlo, o pagarne solo i costi sussistenziali. L’unico contratto implicito tra le parti è che il figlio liberamente accetta le regole vigenti nell’impresa. D’altra parte, se il figlio esce e se ne va, nessuno potrà fargliela pagare.

In poche parole, addirittura nello stato occidentale più estesamente burocratico possibile, esiste una zona di semi-anarchia economico-legale che non genera mostri ma… aziende. Non genera perdite, ma utili. Non genera morti ma lavoratori. La così tanto deprecata libertà è quindi così consentita proprio laddove non ce lo si aspetterebbe. E quindi tutto l’utile dell’azienda-famiglia diventa della famiglia stessa che non deve drenare risorse per “lavoratori estranei”, che devono invece avere il contratto con salario minimo. Anche senza salario minimo, con altri accorgimenti (escludendo naturalmente il lavoro nero che poi è banalmente lavoro non tassato e che casualmente si scopre equiparabile al lavoro in assenza di salario minimo e quindi equiparabile alla condizione azienda-famiglia solo con infiniti malus), rimane che “prendere a lavorare tuo figlio/fratello/moglie” nelle aziende di famiglia è molto meglio economicamente di prendere a lavorare chiunque altro. Il risultato? (1) Ovviamente, le aziende-famiglia sono numerosissime. (2) Ovviamente, senza volerlo, le aziende-famiglia aiutano l’immobilità sociale perché se i figli hanno troppi incentivi a lavorare per l’azienda-famiglia, hanno meno incentivi a cercare strade migliori per loro (per attitudini o interessi), specie se coniugati con una condizione occupazionale bloccata (e quindi l’alternativa è la disoccupazione, completa, e non un mezzo salario magari – mezzo salario che è meglio di zero salario). (3) Ovviamente, chi paga di più è la forza lavoro che non riesce ad entrare nel mercato perché banalmente è bloccato non da loro, ma indirettamente anche da loro.

Non ho voluto qui portare esempi di studi ponderosi di grandi dell’economia per mostrare i paradossi del salario minimo. Non è mia intenzione qui approssimare una cifra di senso per un presunto necessario salario minimo la cui “minimalità” non è fissata a priori. Non è neanche mia intenzione stabilire se il sistema italiano funzioni rispetto al mercato del lavoro, che come ho già detto, per motivi evidenti non è affatto un “mercato” (e quindi si può dire che almeno in questo fallisce: nell’essere sincero). Qui mi sono solamente divertito a mostrare perché la retorica italiana sia come minimo contraddittoria e come massima immorale, ovvero disincentiva il salario minimo ufficialmente ma di fatto lo incentiva ufficiosamente. D’altra parte, l’Italia non ha una storia lunga di cittadini liberi ed equali. E sicuramente non lo sarà per molto tempo. In fondo, l’Italia è quello che è. Una grande famiglia!


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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