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Start up innovative – Speculazioni, geopolitica e paradossi economici

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Questa storia chiamerà in causa leggi, mercati azionari, antichi regnanti, economisti inglesi dell’età vittoriana, Paesi in competizione fra loro per avere un ridotto vantaggio l’uno sull’altro ed anche misteriosi animali mitologici. Credo che sia una buona ricetta per discutere di qualcosa che, altrimenti, sarebbe estremamente tecnico. Chiarisco fin da subito due caveat chiave di questa riflessione: in primis non sarà necessario passare in rassegna tutti gli interventi normativi statali, regionali o comunitari che riguardano le start up innovative (e che includerebbero anche le PMI innovative) e in secundis non fornirò alcun giudizio di valore sui singoli provvedimenti o decisioni dei Governi. L’obiettivo è anzitutto quello di mettere a sistema alcuni strumenti dell’analisi politica, normativa e giuridica, geopolitica, economica ed infine storica.

E questa storia prende le mosse, direbbero, in medias res, quando, a quasi un anno dal suo insediamento a Palazzo Chigi, il Governo guidato da Mario Monti approvava ad ottobre 2012 il primo decreto-legge sulle start up innovative[1].

Come cercherò di illustrare per mezzo delle successive righe, quello che caratterizza le start up innovative è la loro fama, o meglio: lo story telling inesatto che le avvolge completamente come una fitta nebbia che non permette di distinguere la calda luce di un lampione urbano di notte dal fioco splendere di una stella lontana.

Anzitutto, le caratteristiche essenziali che il legislatore italiano individua affinché una società rientri all’interno della categoria di start up innovativa sono:

  • Anagrafiche per l’impresa: essere costituita da poco tempo e non derivare direttamente da un’altra impresa già esistente;
  • Dimensionali: non avere un fatturato che ecceda una certa soglia e non essere presente nel mercato azionario;
  • Residenziali od operative: la presenza in Italia di almeno una filiale;
  • Oggettiva o di scopo: avere una propensione all’innovazione tecnologica. Criterio questo che rientra anche fra i tre requisiti opzionali con cui si accede propriamente allo status di start up innovativa;

Inoltre, fra i requisiti opzionali, oltre a quello che prevede un certo investimento in R&S, vi sono: quello sui titoli accademici dei componenti o la titolarità di un brevetto o di un software registrato.

In quanto imprese che già dal 2012, come abbiamo visto sopra, vengono ritenute almeno prodromiche allo sviluppo tecnologico del Paese, lo stesso legislatore nazionale ha posto alcune agevolazioni in loro favore. Fra queste: la possibilità di raccogliere capitali in cambio di partecipazioni societarie (equity), incentivi fiscali agli investitori, alcune forme di semplificazione delle normali procedure amministrative ed esonero da alcune imposte. Bisogna chiarire che esse in Italia, comunque, sono delle società a responsabilità limitata come molte altre aziende esistenti.

Tutto ciò premesso, è mio convincimento che ancora non si siano chiariti due aspetti fondamentali che attengono allo storytelling sulle start up innovative ed un concetto chiave che sta alla base della normativa che le regola.

  1. Primo aspetto: non hanno niente a che vedere con l’imprenditoria giovanile.
  2. Secondo aspetto: non hanno niente a che vedere con l’auto impiego o l’“autoimprenditoria”.
  • Concetto chiave alla base della normativa: perché sono – almeno – prodromiche allo sviluppo economico del Paese?

Per andare più nel profondo di queste considerazioni, è essenziale cercare di tracciare una storia più complessiva delle start up innovative. Per farlo, è opportuno provare ad attribuire loro dei caratteri aggiuntivi rispetto a quelli definiti dal legislatore. Anzitutto, sono società prevalentemente digitali: nel senso che operano direttamente sul filone dell’informatizzazione, della digitalizzazione e delle nuove frontiere dell’Intelligenza Artificiale, Internet of Things e Robotica[2]. Non è un caso, fra l’altro, che di start up il mondo ne sente sempre più parlare dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso, allorché si verificò la così detta “dot-com bubble[3]”. In breve, la speculazione azionaria aveva invaso Wall Street di titoli di aziende impegnate nell’informatica che nel giro di pochi anni si dimostrarono incapaci di reggere la competizione del mercato o semplicemente fasulle. L’inizio degli anni 2000 si apriva così con una crisi finanziaria che fece bruciare trilioni di dollari in poche settimane e che, almeno in alcuni, avrebbe potuto far presagire che, forse del tutto incidentalmente, segnava il cambio di passo dal decennio “della fine della Storia” ad un altro dove la Storia avrebbe preso dei corsi del tutto inaspettati. Come che sia, la bolla delle società dell’informatica di allora si caratterizzava per un inedito afflusso di capitali verso queste società e incentivi fiscali vari[4]. Si tenga conto che fu una bolla essenzialmente statunitense ma anche perché questo tipo di aziende si trovavano particolarmente oltre oceano e perché, come in Italia, forse mancavano in altri Paesi strumenti finanziari così poderosi che, qualora qualcosa fosse andato storto, si sarebbe verificato un collasso di tali dimensioni.

Ma cosa può accomunare le dot-com alle odierne start up innovative? Anche qui merita forse una concisa precisazione: quando aggiungo l’attributo “innovativa” lo faccio perché altrimenti il termine “start up” non meglio specificato potrebbe essere frainteso. Infatti, letteralmente, indica l’apertura di una nuova attività (quindi anche una più tradizionale). Fra le più evidenti analogie vi rientrano sicuramente: il settore di maggiore occupazione, una loro sorta di concepimento o ideazione negli Stati Uniti e, carattere veramente peculiare delle start up innovative: un modello di business che, almeno all’apparenza, risulta fortemente scalabile. Non me ne vogliano gli esperti che ne sanno sicuramente più di me (il sottoscritto parla per esperienza più che altro), ma questo concetto del modello di business scalabile si può riassumere in un mantra di una sola parola: “GROWTH” ossia “crescita”. Ciò si traduce evidentemente nel poter raggiungere soglie di fatturato sempre crescenti negli anni con costi fissi che non aumentano, o più correttamente, che incidono in proporzione altamente decrescente. Nella valutazione di un Business Plan, significa essenzialmente guardare al “earnings before interest, taxes, depreciation and amortisation” abbreviato nell’acronimo EBITDA. Sia le dot-com che le start up innovative quindi basano la loro capacità di raccolta di capitali finanziari iniziali (nel gergo sono le fasi di “seed” e prima ancora di “pre-seed”) sulle prospettive di miglioramento dell’EBIDTA. Forse scontato sottolinearlo ma essendo dei progetti aziendali piuttosto che vere e proprie aziende operanti sul mercato, il rischio è che si tratti di scenari del tutto o parzialmente infondati, comunque destinati a mutare nel corso del tempo, accordandosi alle esigenze che, come sa qualunque imprenditore, un’azienda deve affrontare di settimana in settimana. Proprio i prospetti di crescita falsati o impropri furono una delle cause che contribuì al fallimento delle dot-com. Oggigiorno vi sono strumenti analitici più appropriati e una conoscenza maggiore delle minacce, però ciò non significa affatto che, in alcuni casi, anche le start up innovative ricevano capitali sulla base di formule matematiche incoerenti con la realtà dei fatti.

Inoltre, come già accennato sopra, i principali interventi che il legislatore dell’epoca aveva promosso per favorire le dot-com erano di natura fiscale. Lo stesso vale per quanto riguarda le start up innovative[5]. Una delle maggiori differenze con allora risiede nel fatto che sono aumentati e cambiati gli investitori. Non si tratta più solo di raccogliere capitali in Borsa ma anche di accedere a Fondi di investimento privati, misti pubblico-privato, a Business Angel ed anche, con alcune limitazioni, al crowdfunding.

A questo punto, è utile riprendere i due aspetti sopra illustrati tramite cui si è detto che start up innovativa non è sinonimo di imprenditoria giovanile e di autoimpiego o “autoimprenditoria”.

Per quanto riguarda il primo aspetto, come già chiarito: non è previsto da nessuna parte che gli “start upper” siano giovani. Si potrebbe ipotizzare che, come già usato in numerose statistiche, la giovane età termini a 35 anni. In Italia, nel 2021, ci si attestava su 41 anni di media[6] per i fondatori di start up innovativa. Superiori ai 38 dell’Unione Europea, che sono comunque ben distanti da certe narrazioni che vorrebbero invece tinteggiare il fondatore visionario di una start up come un brillante studente dell’Heavy League, il quale con pochi fondi personali, qualche amico e i risparmi della nonna (Family and Friends), immagina il suo business rivoluzionario in uno scantinato di provincia. L’unica cosa che questa narrazione ha in comune con la realtà è che, in effetti, la maggior parte dei fondatori sono maschi. Tuttavia, il dato anagrafico non è di per sé negativo. Anzi, secondo uno studio condotto dall’Harvard Business Review[7], l’età in cui si ha più successo con una start up è a 45 anni. Anche i ricercatori di Harvard si sono posti la stessa domanda che viene spontanea porsi a questo punto: perché esiste una narrazione che vuole gli start upper molto più giovani di quanto le statistiche comprovino? A mio avviso, ci sono più ordini di motivi anche sovrapponibili ma nessuno che possa dirsi definitivo.

  1. i più grandi start upper di successo erano in effetti sotto i trenta anni quando hanno dato avvio al loro business (come Bezos e Zuckerberg) e sono comunque tutti casi di aziende operanti nel settore dell’informatica o della digitalizzazione negli Stati Uniti. È stato conseguenziale costruire una narrazione di successo sulle loro storie, magari tacendo sul momento in cui sono diventati veramente ultramiliardari. Quindi, si tratta di sparutissimi casi di estremo successo, dettati, oltre che dall’acume degli imprenditori, anche da un contesto esterno particolarmente favorevole per investire le proprie risorse nei settori di cui sopra.
  2. per gli investitori di capitali, può risultare più facile scommettere su un giovane piuttosto che su un ex top manager che si mette in proprio e che, verosimilmente, ha già una rete consolidata di investitori, banche, tecnici da assumere ed esperienza di gestione aziendale. Risulta più facile perché ha sapore di “benefit” e perché lascia sicuramente più influenza all’investitore.
  3. è una narrazione che rafforza il soft power comunicativo degli Stati Uniti sull’idealizzato “american dream”.

Per quanto concerne la differenza con l’autoimprenditorialità e l’auto impiego, è presto detto: la normativa italiana (sia quella dello Stato che quella regionale) riconosce contributi e forme di assistenza per giovani, massimo entro i 35 anni, che decidono di aprire un’attività. Non necessariamente questa deve essere innovativa o prevedere investimenti in R&S. Al più, sono previsti, in taluni casi, requisiti di parità di genere. Tuttavia, questo ultimo punto ci condurrebbe fuori strada, entrando anche nel merito dell’imprenditoria femminile.

Con le successive righe cercherò di entrare più nel dettaglio di alcune questioni rimaste sullo sfondo ma non meno importanti per comprendere l’argomento. È come se in un ritratto, avessi provato fino ad ora a tratteggiare i caratteri principali del volto, distinguendo se si tratti di un uomo o di una donna, di un anziano o di un giovane, se avesse i capelli lunghi e gli occhi di quale colore. Restano molti altri dettagli del volto che non ho presentato ma quelli essenziali ci hanno già permesso di comprendere (o almeno spero) come si è generata la grande attenzione per le start up innovative, che tipo di aziende sono e non solo per la normativa in essere, quali sono gli interventi che in generale i legislatori hanno posto a loro favore. Tuttavia, in questo dipinto ci sono degli elementi dello sfondo che se analizzati potrebbero farci capire molto di più. Certamente non ho alcuna illusione di esaustività ma vale la pena qui ricordare che la ragione che sottostà ad ogni forma di incentivo verso queste peculiari imprese è la loro funzione di driver dello sviluppo economico e tecnologico di un Paese.

Proprio a tal fine, l’Unione Europea ha istituito, nel 2022, l’European Innovation Council Fund, che ha già investito almeno un miliardo di euro[8] a favore di imprese che portassero soluzioni molto innovative nel campo della robotica, dell’Intelligenza Artificiale, settore health care, fotonica e impatto ambientale. E questa è solo una delle numerose iniziative promosse dalla Commissione Europea per incentivare imprese innovative in tutto il territorio dell’Unione e permettere anche un’armonizzazione degli interventi dei singoli Stati Membri, nell’ottica, fra l’altro, di agevolare una cooperazione fra le aziende operanti nei vari territori. E lo scopo è dichiaratamente geopolitico:

The severe consequences of Russia’s war of aggression has given these issues even greater urgency and prompted strategic policy changes to ensure the EU’s prosperity and security.[9]

L’Unione, già nel 2020, aveva varato un’ampia ed articolata strategia per la Ricerca e l’Innovazione[10] tramite cui era stata lanciata, fra le altre, anche l’Industria 5.0 per fare dell’Europa il centro mondiale dell’innovazione tecnologica, sostenibilità ambientale e rispetto dello stato di diritto. L’obiettivo per la Commissione è quello di recuperare terreno nei confronti di Cina e Stati Uniti, ancora molto avanti per quanto riguarda la presenza di aziende innovative nel campo Hi-Tech[11].

A parte l’evidente carattere strategico da un punto di vista geopolitico non sfuggirà una considerazione che si ricollega alla bolla delle dot-com: le start up innovative guadagnano attenzione a seguito di crisi che investono il sistema in maniera determinante. La crisi finanziaria di inizio anni 2000 (seguita a ruota da quella sulla sicurezza internazionale), la crisi dei mutui del 2007 (con le sue ripercussioni dirette per i cinque anni successivi), la crisi pandemica del 2020 (con le conseguenze negli approvvigionamenti delle materie prime e dei semilavorati di origine asiatica) e ancora più recentemente il conflitto Russo-Ucraino (le cui conseguenze, personalmente, non riesco a immaginare) sono stati momenti di svolta nelle strategie politiche riguardanti l’innovazione.

A questa considerazione di carattere estremamente generale, si possono attribuire almeno due spiegazioni:

  1. È abbastanza pacifico che un Paese (o una regione) tecnologicamente avanzato abbia un vantaggio competitivo per uscire da una crisi rispetto ai suoi competitor;
  2. Se ipotizzassimo di trovarci in una fase “di Basso Impero” (inteso nell’accezione antica in senso inevitabilmente di decadenza), allora queste misure non sarebbero altro che poco lungimiranti tentativi di tirare fuori un coniglio dal cilindro. Ovvero di scoprire la soluzione magica a tutti i nostri problemi e difficoltà geopolitiche. Insomma, la figura mitologica dell’unicorno, la start up che raggiunge il valore di un miliardo di dollari, rientrerebbe appieno in questa inquadratura narrativa del momento storico. Proprio questo aspetto giustificherebbe le numerose iniziative introdotte in pochissimo tempo ma sulla cui efficacia permangono dubbi.

In particolare, sebbene le intenzioni siano sicuramente più che buone, creare un ecosistema che integri le varie realtà europee già esistenti non è prova facile, e lo dimostrano anche i vari ritardi che ci sono stati nell’erogazione di finanziamenti soprattutto per i soggetti in pre-seed[12]. Un dato, quest’ultimo, che potrebbe essere parzialmente contraddetto da un’altra ricerca (tutta italiana)[13], che nondimeno, mette giustamente in guardia dalle conseguenze finanziarie del fallimento della Silicon Valley Bank[14] e del perdurare di indicatori economici non promettenti. Non sorprendentemente, anche in questo ultimo articolo citato si annota come l’Europa sia svantaggiata rispetto a Cina e Stati Uniti per quanto riguarda gli investimenti sulle fasi finali della start up innovativa: quegli investimenti che le permettono di strutturarsi come grande azienda dopo aver già dimostrato la sua appetibilità sul mercato.

In questo contesto, l’Italia, nel 2023, si posiziona al trentesimo posto nel Global Start up Ecosystem, avanzando di una posizione rispetto allo scorso anno[15] e quindicesima in Europa. Nuovamente, secondo quanto esprime lo stesso Report Globale sugli ecosistemi delle start up, il combinato disposto di inflazione, crisi delle materie prime e insicurezza internazionale sta facendo venire meno la facile reperibilità di denaro[16]. Quindi, per effetti esterni, potrebbe già essere stata sbarrata quella strada che pareva si stesse percorrendo in varie occasioni, di costruire “villaggi di Potëmkin” al solo fine di attirare investitori, compiere speculazioni finanziarie o vantarsi di possedere potenziali unicorni. Ci sono alcune interessanti coincidenze fra la storia, forse del tutto inventata, dei villaggi finti del Principe Potëmkin a fine del 1700, l’impressione che ebbero sulla Zarina Caterina II e le start up innovative.

Anzitutto, la regione dove sorsero solo per una notte quei villaggi era appena stata annessa dalla Russia. Un po’ come il mondo delle start up innovative, di cui si parla seriamente solo da pochi anni. In secondo luogo, la Zarina fu truffata dal suo ministro essenzialmente perché non era “operativa” e si fidava di lui. Certamente lei aveva finanziato la spedizione militare prima e la riorganizzazione dei territori conquistati poi ma non aveva lavorato sul campo o sviluppato una competenza così detta verticale su come ricostruire quei luoghi un tempo ottomani. In questo, potrebbe assomigliare a diversi investitori o fondi di investimento che, credendo di trovarsi di fronte a qualcosa di magnifico (magari un unicorno stesso), stringevano in mano solo un pugno di mosche.

Quindi, ricapitoliamo alcuni concetti chiave:

  • le start up innovative sono aziende o progetti di aziende che hanno l’obiettivo di adottare soluzioni tecnologiche non esistenti o altamente migliorative per raggiungere economie di scala elevate e farlo rapidamente. Non sono necessariamente legate alla giovane età dei fondatori che, invece, è quasi più un mito buono per i media e gli investitori;
  • analogamente alle dot-com, si concentrato nei settori derivati dall’informatica e computeristica e forse si stanno avviando verso una nuova bolla speculativa che, tuttavia, per ragioni politiche e finanziarie pare più difficile;
  • sono presto diventate una issue geopolitica che ha messo in competizione l’Unione Europea con Cina e Stati Uniti per diventare i poli mondiali dell’innovazione tecnologica, affidandosi all’idea che ciò darebbe loro un vantaggio strategico in un periodo di crisi delle materie prime e di conflittualità, anche armata, su scala mondiale;
  • gli interventi a sostegno di queste particolari aziende, almeno in Italia, si sono fino ad ora indirizzate sul lato degli incentivi fiscali e sulla reperibilità del credito ma, come accenneremo, qualcosa pare stia cambiando. Dal 2012 ad oggi, l’Italia è comunque riuscita a introdurre misure sommariamente efficaci.

Uno degli obiettivi geopolitici che i governi attribuiscono alle start up innovative è quello di guidare verso la transizione verde e comunque dotare il mercato di nuove tecnologie che siano in grado di ridurre l’impatto ambientale e i danni climatici causati dal perdurare di sistemi di manifacturing, trasporto e così via, ancora non adeguati alla sfida ambientale in corso. Tuttavia, le start up sono a tutti gli effetti delle aziende private a scopo di lucro. Per cui, in più occasioni si è parlato di un paradosso fra la sostenibilità ambientale e quella economica di queste aziende. In breve, il paradosso risiede nel fatto che una maggiore attenzione dedicata alla sostenibilità ambientale diminuisce quella economica ma limitare la prima assottiglia anche le chance di ottenere finanziamenti e quindi di raggiungere la seconda. È paradosso comunque molto legato al contesto di operatività dell’azienda. Nelle conclusioni di un recente articolo si invita a considerare come promettenti, in particolare, le start up che lavorano con la parte hardware[17] , andando quindi in contro tendenza rispetto a quella genesi digitale e software che abbiamo descritto fino ad ora.

Al paradosso appena citato, si potrebbe affiancare quello dell’economista inglese Jevons, il quale nel 1865 mise il mondo intero in guardia dagli effetti complessivi dell’adozione di tecnologie più efficienti sul consumo generale delle risorse naturali. Il paradosso di Jevons implicherebbe che, a meno di non cambiare in maniera assolutamente incisiva le risorse energetiche o ambientali da cui dipende la nostra intera produzione, la sola adozione di tecnologie per quanto innovative e più efficienti di quelle esistenti, non farebbe altro che avere conseguenze ancora più devastanti, incentivando un consumo crescente delle stesse risorse.

Quindi, per evitare i due paradossi, bisognerebbe trovare veramente quei pochi unicorni in grado di: o trovare nuove risorse in tempi rapidissimi e che siano efficienti almeno quanto quelle esistenti (o comunque non significativamente meno) oppure che siano in grado di efficientare l’impiego di quelle esistenti senza però con ciò determinare un aumento nei consumi di quelle risorse. Ad esempio, non trasformare tutti i rifiuti indiscriminatamente in combustibile ma intervenire solo laddove, nelle filiere già esistenti, necessario per una valorizzazione concreta e immediata del sottoprodotto o rifiuto.

A questo punto, non resta che guardare con un certo interesse all’istituzione del Fondo Sovrano del Made in Italy[18], recentissima misura introdotta dal Governo Meloni e alla possibilità che in esso l’Italia adotti una strategia per le sue start up innovative che vada ben oltre gli incentivi fiscali e faccia tesoro di alcune considerazioni geopolitiche che, inevitabilmente, saranno sempre più pressanti.

Concludendo, spero di aver fatto un po’ di chiarezza su come le start up innovative siano salite all’onore delle cronache essenzialmente dopo la crisi delle dot-com ma a differenza di queste presentino un carattere strategico per i Paesi, che, in un periodo di scarsità di risorse ricercano nell’innovazione la soluzione immediata alle loro difficoltà. Il settore delle start up non è esente dal rischio di trasformarsi in una bolla speculativa, come le antesignane, ma proprio la geopolitica e la più difficile reperibilità di denaro facile allontana questa ipotesi. Sul carattere innovativo bisognerebbe comunque prestare attenzione, in particolare, al Paradosso di Jevons e se i Governi riconoscono veramente nelle start up innovative un vantaggio fondamentale geopolitico, sarebbe opportuno valutare piani di lungo periodo che vadano ad integrare queste società con i settori chiave di ciascun Paese, adottando misure specifiche volte alla conservazione del know how entro i confini nazionali (o sovra nazionali come nel caso europeo). Il punto di partenza comunque è quello di “smitizzare” certe narrazioni e iniziare ad adottare strumenti di valutazione più strategici al posto di quelli contabili.


[1] Si tratta del DECRETO-LEGGE 18 ottobre 2012, n. 179, che, a parte il carattere di urgenza espresso nell “incipit” – dovuto in quanto trattasi di un decreto-legge, pone anzitutto la considerazione fondamentale che: digitalizzazione e impulso all’innovazione e alla ricerca sono prerequisiti per lo sviluppo economico del Paese.

[2] Come vedremo, questa tendenza verso il macrosettore dell’informatica è connaturata alla genesi delle start up innovative. Inoltre, è anche un mercato che è stato (ed è) in crescita e che implica significativi investimenti in R&S. Si consideri, in aggiunta, che anche i più promettenti “unicorni”, cioè start-up che raggiungono la frontiera del miliardo di dollari (come valutazione), nel 2020 erano tutte operanti nella digitalizzazione: https://www.forbes.com/sites/truebridge/2021/10/12/next-billion-dollar-startups-digital-transformation-is-here-to-stay/.

[3] Una spiegazione in breve ma comunque esaustiva dell’argomento può essere letta su diversi blog finanziari, fra cui, a titolo esemplificativo: https://finbold.com/guide/dot-com-bubble/.

[4] Il punto a cui voglio arrivare è forse già evidente: ci sono sicuramente analogie fra quegli anni e quelli correnti. Al posto delle dot-com si trovano le start up innovative ma i rischi di bolla possono essere assimilabili. Per esempio, il TIME ricostruisce abbastanza nel profondo queste similitudini, mettendo in guardia dal ripetersi degli accadimenti storici ma anche invitando a considerare le indubbie differenze: https://time.com/3741681/2000-dotcom-stock-bust/.

[5] Inutile qui ripercorrere tutte le misure introdotte, in particolare in Italia. Il Ministero dello Sviluppo Economico presenta una scheda di sintesi completa di ogni intervento: https://www.mimit.gov.it/images/stories/documenti/Scheda_di_sintesi_ITA-ott2020.pdf.

[6] I dati sono costruiti tramite una survey realizzato da Osservatori Startup Intelligence e Startup Hi-tech”, le cui considerazioni sono qui commentate: https://www.economyup.it/startup/identikit-del-founder-italiano-di-startup-maschio-quarantenne-laureato-troppo-poche-ancora-le-donne/#:~:text=Fondatori%20che%20sono%20in%20prevalenza,media%20europea%20(38%20anni).

[7] https://hbr.org/2018/07/research-the-average-age-of-a-successful-startup-founder-is-45

[8] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/ip_23_564

[9] Dal comunicato stampa che annuncia la nuova Agenda Europea dell’Innovazione: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/ip_22_4273.

[10] https://research-and-innovation.ec.europa.eu/strategy/strategy-2020-2024_en#:~:text=The%20EU’s%20digital%20strategy%20will,data%2C%20technology%2C%20and%20infrastructure.

[11] https://sifted.eu/articles/startup-european-innovation-agenda

[12] https://sifted.eu/articles/rise-fall-eu-vc-eic.

[13] https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2023/05/23/startup-seed-investimenti/

[14] Il fallimento risale al marzo 2023 e ha avuto conseguenze che forse non si sono ancora manifestate completamente (o forse non lo faranno mai) ma è stato interpretato da alcuni come la fine del periodo degli “easy money” per le fasi di pre-seed e seed: https://www.nytimes.com/2023/03/27/technology/silicon-valley-bank-start-ups.html.

[15] https://www.startupblink.com/startup-ecosystem/italy

[16] Si annotano crolli dei finanziamenti per alcuni settori di start up innovative fino ad oltre l’80%: https://it.cointelegraph.com/news/vc-funding-into-web3-start-ups-down-82-year-over-year-crunchbase

[17] Jip Leendertse & Frank J. van Rijnsoever & Chris P. Eveleens, 2021. “The sustainable start‐up paradox: Predicting the business and climate performance of start‐ups,” Business Strategy and the Environment, Wiley Blackwell, vol. 30(2), pages 1019-1036, February.

[18] Alla data in cui si scrive non è disponibile alcun testo ufficiale che meglio descriva il Fondo e il suo funzionamento.


Cosimo Meneguzzo

Mi chiamo Cosimo, classe ‘96. Nato in Toscana, in una campagna ricca di attività produttive dove si respira una storia di più antica che moderna. A quindici anni, sono entrato alla scuola militare Teuliè di Milano, dove mi sono diplomato al liceo classico. Successivamente, mi sono laureato a Firenze, in Scienze Politiche, con un anno di anticipo, per poi trasferirmi a Roma, dove ho vinto il concorso per la Magistrale presso la Luiss Guido Carli e dove ho lavorato in uno studio di relazioni istituzionali. Ho potuto così approfondire la nostra politica sia da un punto di vista teorico che pratico. Dal primo lockdown, ho deciso di inseguire nuovi sogni, contribuendo a costituire alcune società. Ad ora, so che la cooperazione è indispensabile per risolvere i problemi, che bisogna avere una ampia visione e puntare in alto. Credo che lavorare tutti assieme sia oggi un’imprescindibile necessità per vincere le sfide più urgenti, a partire dai danni del cambiamento climatico e dal recupero di competitività internazionale del nostro Paese. Mi interesso di molte questioni e cerco di approfondirle una alla volta.

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