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Distruggete le macchine – Kurt Vonnegut


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Paul Proteus è il capo ingegnere nella città di Ilium, uno degli uomini più importanti dell’industria americana. Paul è sposato con la bella Anita, una donna programmata per essere la migliore moglie di un uomo ben avviato nella società. Ed Finnerty è un amico scomodo di Proteus il quale vive sempre sull’orlo dell’abisso e dell’autodistruzione. La loro relazione si gioca su una reciproca simpatia, generata, soprattutto, dal rifiuto della società americana, così come si è costituita dopo l’ultima più tremenda guerra. L’America è lo stato delle macchine. Le quattro grandi forze storiche hanno visto prevalere l’aspetto economico su tutto il resto e l’economia è efficienza e produzione di qualità. L’esercito, la politica, l’impero economico e la tecnologia sono state ammaestrate dall’unico imperativo dell’economia, la cui giustificazione è quella di produrre un mondo di artefatti perfetti, capaci di sostituire l’uomo in ogni suo fare. La vittoria finale delle macchine arriverà quando gli esseri umani saranno esautorati dal pensare. E i tempi sembrano essere maturi: la costituzione del gigantesco EPICAC, cervello elettronico capace di computare miliardi di dati al secondo, sembra essere il capostipite di un nuovo genere di intelligenza. Gli esseri umani non hanno più senso perché non c’è nulla che una macchina non possa fare per loro. L’intero sistema sociale è riprogettato in modo che l’uomo sia lo schiavo della macchina. Le casalinghe impiegano cinque minuti al giorno per sbrigare tutte le faccende di casa, non c’è più bisogno di uomini per le fabbriche, non c’è più bisogno di persone che costruiscano nulla. La libertà dei cittadini è interamente programmata e stabilita da un sistema efficientissimo di macchine che selezionano i migliori, coloro che devono pensare a rendere ancora più efficiente il sistema. Nella casta privilegiata stanno gli ingegneri, i quali detengono il potere reale. Il resto degli uomini “normali” deve adattarsi ad una vita di ordine e tranquillità. Le alternative sono due: finire a fare quei miseri lavori di manovalanza minima che le macchine non possono fare (ancora) oppure entrare nell’esercito, apparato tenuto in vita non si sa perché, data la stabile pace che regna nel mondo. Anche il tempo libero è predefinito dalle macchine giacché gli uomini hanno a disposizione pochissimi soldi: essi vengono retribuiti secondo algoritmi sofisticati che sanciscono i fondi per tutti i bisogni sostanziali, quelli che le macchine riconoscono come tali, così l’unica libertà a loro disposizione è la gestione degli spiccioli. La selezione sociale è rigidissima e impone a tutti l’accettazione del primato delle macchine in quasi tutti gli aspetti della vita. Il malcontento, però, è diffuso. Un triste senso di inutilità sembra regnare non solo nel popolino, ma anche ai vertici della società. Paul Proteus tenterà in vari modi di cambiare la sua vita. Dapprima segue il suo amico Finnerty in un bar di periferia, nel quale prende una sbronza e scopre che solo in posti come quello riesce a non sentirsi intristito dall’umanità che lo circonda. Proteus, infatti, ha una pensante eredità: ripercorrere, portando avanti, la strada fatta da suo padre, uno degli uomini che, con la sua genialità e la sua fede per il progresso tecnologico, ha portato le macchine ad un tale livello di perfezione da riuscire ad imporre un nuovo sistema di vita, una nuova rivoluzione industriale. Se nella prima rivoluzione industriale, la più antica, l’uomo produceva artefatti per potenziare se stesso, se nella seconda rivoluzione il suo scopo era progettare macchine tanto efficienti da richiedere solo il loro controllo, adesso le macchine erano perfettamente autosufficienti a tal punto che l’elemento umano è solo un sintomo di una parziale inefficienza, che, nel mondo dell’economia tecnologica, era esattamente l’obbiettivo negativo da perseguire. Persone come Proteus sr. avevano creato un mondo perfetto, preciso, nel quale la burocrazia serviva a mantenere la capacità produttiva o, al limite, al migliorarla ancora, sempre più, fino a che anche l’ultimo uomo fosse sollevato dal lavoro. Paul Proteus, però, non riesce più a vivere in questo mondo: il suo senso di ingiustizia lo costringe a riconoscere l’insufficienza di tutto ciò e l’ombra del padre diventa sempre più lunga e sempre più invadente fino a cancellare la sua. Paul riceve l’offerta di una promozione, quella che l’avrebbe condotto ai vertici della società. Tuttavia viene messo di fronte ad un problema, un out out tragico, nel quale dovrà prendere una decisione, non solo per sé, ma per l’intera società americana. Nel frattempo, il premier di uno stato asiatico gira, come turista, per le strade degli Stati Uniti senza riuscire a capire quale differenza ci sia tra uno schiavo e un qualunque cittadino americano.

Distruggete le macchine è la storia di un uomo alla ricerca di una dimensione umana sempre più messa in discussione, dalle macchine, dalla burocrazia, dal sistema di selezione sociale. Paul Proteus è il protagonista di una vicenda nella quale gli uomini non possono che uscirne perduti. Non si può vincere la macchina, la sua perfezione, la sua efficienza. L’uomo ritorna alla schiavitù, un fatto antico, per una nuova volontà: la società crea delle entità che bramano questo stato di cose, anche quando tentano di cambiarlo.

Il pessimismo assoluto di Vonnegut si mostra in più modi, ma è soprattutto il protagonista a renderlo manifesto. Paul Proteus è un uomo incapace di modificare il suo destino, di separarsi dall’ombra di suo padre, anche quando la combatte. Egli è ossessionato dalla figura paterna ma non ha la forza né l’immaginazione per riuscire a imprimere alla sua vita un cambiamento radicale e anche la rivoluzione, che finirà per abbracciare, sarà destinata al fallimento. Egli è stato selezionato dalle macchine per la carriera di ingegnere, un posto ambito da milioni di persone, ma disponibile solo per i pochi il cui quoziente di intelligenza,  definito dai test, sufficientemente elevato. Proteus non ha fantasia, non ha sogni chiari ma avverte in sé l’angoscia e il disagio perché, comunque, è un uomo capace di pensare. Finnerty, l’amico scomodo di Paul, è una versione radicale di Proteus. Una specie di idealista che, però, non riesce a cambiare il mondo.

Paul Proteus è un uomo dalle buone intenzioni ma dall’intrinseca debolezza. Egli non riesce a smuovere la sua volontà per indirizzarla verso un chiaro obbiettivo. Ha diverse opportunità di rifiutare il sistema ma si muove sempre in modo ambiguo, debole, inetto. La prima è quella che gli viene offerta da Finnerty, quando lo stesso amico abbandona la vita sociale ma Proteus non aveva ancora fatto luce sull’ombra del suo animo per essere più risoluto. Compra una casa in campagna, senza elettricità e senza le comodità derivate dal suo status sociale. Tuttavia, non prende mai la decisione definitiva. Vuole riuscire a far cambiare idee e stile di vita alla moglie Anita, ma lei è una donna mediocre, insensibile ai bisogni del marito e, Vonnegut lascia intendere, dei bisogni umani più elevati: Proteus vuole una vita degna di un uomo, a misura di un essere umano, con i suoi tempi e i suoi spazi, non una vita per automi. La terza occasione gli viene offerta dalla stessa rivoluzione nella quale è costretto a prendere parte sia dal sistema dominante sia dai capi rivoluzionari. Tuttavia, è sempre la volontà di Proteus a difettare, giacché, come la macchina è implacabile nell’ottenere i suoi scopi, quanto le inclinazioni dell’umanità sono fugaci e passeggere, anche nella mente del più grande ingegnere vivente.

Il pessimismo sociale si unisce ad uno scetticismo individuale che snatura la volontà della persona, sciogliendola in mille possibilità, sempre frustrate, sempre causa di indecisione. La macchine rendono il mondo a misura e dimensione di sé stesse e imprigionano l’uomo, avvinghiandolo alle catene della schiavitù dei suoi propri artefatti, uomini ormai incapaci di competere con i marchingegni, se non, forse, negli scacchi, dove il pensiero umano è ancora superiore a quello dell’automa.

Infine, v’è un pessimismo anche per il movimento di rottura, condotto alla base dall’umanità semplice, destinato a fallire perché, in ultima analisi, gli uomini che la compongono non vogliono una società diversa, non comprendono la necessità di un nuovo futuro e non hanno alcuna capacità critica e intellettuale per impostare un ordine sociale alternativo: le terribili pagine finali suggellano la sconfitta finale dell’umanità proletaria, chiamata a distruggere per riedificare un mondo finalmente a immagine e somiglianza dell’uomo. Tutto è destinato al fallimento perché nessuno sa cosa volere, a parte le macchine, predefinite per la massima efficienza.

Il tempo è il fattore cruciale dell’efficienza, prim’ancora della qualità, giacché là dove la macchina non può fornire un prodotto migliore, ci si accontenta di quel che dà: il perfezionismo tecnologico è una promessa per il futuro, non necessariamente una certezza per il presente. Spesso ci vien detto, come scusa, che là dove oggi non si è arrivati, presto si raggiungerà. Il mondo di Distruggete le macchine è definito e determinato cronometricamente, in un universo pienamente deterministico. L’umanità si inserisce all’interno del grande orologio con docilità, capace solo di vivere il presente attraverso lo scudo di un’angoscia inutile, di un dolore sordo che accoglie e avvolge il lettore in ogni pagina del libro. Tutto sembra intessuto del manto nero dell’inutilità, dell’insufficienza della lotta. “L’importante era aver tentato” dirà l’idealista Lasher, l’unico ad aver compreso che la rivoluzione imminente non sarebbe andata a buon fine. Solo lui, però, dà importanza al possibilismo, all’alternativa fallimentare. L’individuo è ridotto all’insuccesso a priori e, in definitiva, è costretto ad accettare lo stato di cose. Il dominio delle macchine conduce l’uomo alla frustrazione totale perché tutto è impostato in modo che l’uomo venga annichilito nella volontà. L’esempio magnifico e triste è quello portato dalla donna, costretta alla prostituzione per amore del suo uomo, scrittore non accettato le cui opere non possono essere pubblicate perché impopolari. E così non c’è spazio per rapporti umani duraturi, felici. La relazione tra Paul e Anita si fonda solo sulle buone prestazioni che Anita sa offrire al marito e il resto è incomprensione. Magistrali, in tal senso, sono i dialoghi tra Proteus e la moglie, dove Vonnegut riesce a catturare e restituire quei sentimenti che si innestano in una coppia in cui regnano interpretazioni di intenzioni sbalestrate, dove ciascuno legge il comportamento dell’altro in modo equivoco e finisce per trarre giudizi incongrui. Ma, su vasta scala, le relazioni sociali sono imbevute di odio e rabbia, dove ciascuno è vinto dall’ambizione di sopraffare il suo prossimo. Non c’è spazio per la felicità collettiva là dove il trionfo dell’efficienza vuole che la società sia costituita sul principio platonico del “ognuno deve fare ciò che sa fare”. Se, però, Platone voleva i filosofi a capo della società, per poter selezionare le varie classe sociali nel modo migliore, secondo il principio che la società felice determina, di per sé, individui felici, nell’universo di Vonnegut il ruolo dei filosofi viene svolto dalle macchine, precedentemente programmate in modo che selezionino solo in base a criteri quantitativi e oggettivi.

Come Asimov è ottimista nei confronti di una società dominata dalle macchine, predefinita dall’ingegneria, indirizzata per il meglio dalla profezia scientista, comprensibile ma orientata verso il bene dell’umanità, dove il singolo si può sacrificare in nome del maggiore benessere sociale, così Vonnegut è l’espressione del pessimismo sociale e individuale, che colpisce sin dentro all’ottusità di una società che voglia fondarsi sul riconoscimento dell’autodeterminazione dell’efficienza su ogni ulteriore parametro. Non c’è speranza per l’individuo in un mondo malato, non c’è tempo per il singolo, in un tempo di millesimi di secondo, non c’è spazio per il soggetto umano, in un luogo dove tutto è artificiale, programmato, definito, determinato. Non ci può essere un senso là dove il progresso spinge alla cecità, all’abbattimento sistematico della volontà. Tutto è morto, se la coscienza dell’uomo muore.

Un libro di fantascienza, non solo. Un libro di introspezione sociale, non solo. Un libro che ci porta di fronte alla nostra vita e ci domanda continuamente se questa vita è a dimensione dell’uomo. Un libro non semplice per risposte non facili.


KURT VONNEGUT

DISTRUGGETE LE MACCHINE

EDITRICE NORD

PAGINE 296


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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