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[Segnalazione] Uscita del libro “Filosofia pura della guerra” di Giangiuseppe Pili

FiloGuerraSono lieto di annunciarvi l’uscita del mio ultimo libro, Filosofia pura della guerra. Si tratta di un’opera di ampio respiro, che tratta i problemi della guerra e della pace, per un inquadramento filosofico che mira alla totalità, pur nella piena consapevolezza di non poterla raggiungere. Quest’opera è particolarmente importante per il mio percorso di ricerca e ha richiesto tre anni di lavoro, se si considera soltanto il momento in cui ho iniziato la stesura dell’opera in senso stretto. C’è chi ricorderà le discussioni intrattenute durante l’arco dello sviluppo del libro sin dai primi momenti, come ben sanno Giacomo Carrus e Andrea Corona. Se nel 2014 avevo scritto e pubblicato L’eterna battaglia della mente Scacchi e filosofia della guerra, nel 2015 ho portato finalmente a compimento un progetto di più ampio respiro e che, spero, possa beneficiare il lettore in tanti modi.

2.2 La colonizzazione interna della Sardegna

DZankell, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

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La Sardegna ha vissuto nella sua storia diversi periodi di colonizzazioni e diversi colonizzatori. Fenici, romani, bizantini, ecc., sono stati i primi. Ma poi in epoca moderna si susseguirono spagnoli e sabaudi. Il trattato di Londra del 1720 stabilì che la Sardegna passasse sotto l’influenza del governo piemontese, seppur mantenendo le antiche istituzione spagnole, all’ora governato dalla secolare casata dei Savoia. Furono proprio questi ultimi ad avere il predominio politico sulle scelte dell’isola dalla metà del 1720 fino all’unità d’Italia del 1861. Questo secolo e mezzo fu segnato da un lato da “grandi silenzi” e grande indifferenze da parte dell’amministrazione coloniale, dall’altro canto il potere sabaudo cercò in un certo periodo, specie nel campo agrario, di rifondare un sistema: l’evento più significato in questo senso lo si visse nel 1823 con quello che venne chiamato ‘editto delle chiudende’, il quale andava innestandosi direttamente nel sistema tradizionale degli ademprivi (per ademprivio si intendeva in Sardegna, e tuttora in diritto, un bene di uso comune, generalmente un fondo rustico di variabile estensione, su cui la popolazione poteva comunitariamente esercitare diritto di sfruttamento, ad esempio per legnatico, macchiatico, ghiandatico o pascolo.), rendendo la situazione giuridica dei terreni altamente complessa. L’uso degli ademprivi, inoltre, prevedeva la rotazione degli impieghi della terra, che un anno era destinata a pascolo e l’anno successivo a seminagione secondo determinazioni comunitarie locali.

La computabilità: Algoritmi, Logica, Calcolatori – Palladino & Frixione

Algoritmi

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Logica da Zero a Gödel di Francesco BertoFallacie di ragionamento


La computabilità: Algoritmi, Logica, Calcolatori è un’introduzione alla teoria della computabilità. Non si tratta di un testo particolarmente tecnico e può essere compreso anche da chi non ha quasi nessuna cognizione pregressa sull’argomento. In particolare non sono richieste particolari competenze matematiche o logico-formali. Anche se probabilmente il libro può suscitare approvazione e interesse soprattutto per gli interessati alla logica filosofica, esso può essere di utilità anche a studenti di matematica del triennio piuttosto che a studenti del liceo particolarmente agguerriti.

Il testo è diviso in sette capitoli. Il primo capitolo, Algoritmi introduce la nozione centrale di algoritmo, la loro possibile rappresentazione grafica mediante i diagrammi di flusso e i loro possibili risultati, tra cui anche la possibilità che essi non ne producano affatto. Il secondo capitolo, Funzioni matematiche e algoritmi è il primo passo verso la costruzione della teoria della computabilità in matematica. Infatti, gli algoritmi sono concettualmente vicini ai sistemi di logica, grazie ai quali possiamo effettuare dimostrazioni rigorose. Sono a tal punto vicini che i due campi si intersecano. Per mostrare in che modo questo avvenga, gli autori forniscono una serie di utili spiegazioni circa la natura delle funzioni, alla loro calcolabilità effettiva (o non calcolabilità) e nell’ultimo paragrafo anticipano alcuni risultati sull’indecidibilità (cioè problemi matematici che non ammettono una risposta positiva da parte di alcun algoritmo). Il capitolo terzo, Le macchine di Turing, è una trattazione di un certo dettaglio delle macchine di Turing, una macchina astratta che, appositamente programmata, è in grado di svolgere algoritmi. In particolare la macchina di Turing può essere utilizzata per spiegare in che consista la computabilità effettiva. Esse, dunque, possono essere impiegate per il calcolo di funzioni aritmetiche. Nella parte finale del capitolo si considera anche il problema della fermata. Il capitolo quarto, Funzioni ricorsive, è dedicato alla spiegazione di un tipo particolare di funzioni, le funzioni ricorsive. Si scoprirà che di esse ci sono diversi tipi. Per cui nel capitolo quinto Tesi di Church e problemi indecidibili si considera la tesi di Church, la sua disamina e la sua analisi circa la connessione con le macchine di Turing. Il penultimo capitolo, il sesto, La computabilità e i fondamenti della matematica, considera il versante puramente logico e considera i teoremi di indecidibilità di Gödel e la loro connessione con i risultati di Church. In fine, Computabilità informatica e studio della mente fornisce una panoramica generalissima sull’informatica, come disciplina applicativa della teoria della computabilità. Inoltre, sempre in questo ultimo capitolo, si considera stringatamente, il legame tra alcune discipline della scienza cognitiva, in particolare tra la filosofia della mente, l’intelligenza artificiale e la neuroscienza.

Case di studenti – Tra autarchia e anarchia

© Scuola Filosofica

A Emilio, Matteo, Luca

e tutti gli altri miei coinquilini

che, in tutti questi anni,

hanno arricchito la mia vita,

al di là di ogni rottura di palle!

Preambolo

Dopo dieci anni di vita in affitto nei posti più diversi, posso dire di avere una certa cultura sulla natura delle case di studenti. O, per meglio dire, di una loro componente che spesso sfugge ad ogni logica di razionalizzazione, nel senso che in pochi dedicano studi e interesse a tale argomento che investe, invece, una enorme quantità di giovani. Vale a dire la codifica o, almeno, la disamina critica dei regolamenti che rendono possibili (o impossibili) le più elementari forme di convivenza tra perfetti estranei. Infatti, sia detto chiaramente, che non essendoci alcun legame di “classe”, laddove gli studenti sono tipicamente una compagine eterogenea ben difficilmente unita da interessi collettivi (a parte, e non sempre, la volontà di rompere la solitudine con feste e divertimenti di varia natura), se ne può concludere che la vita nelle case di studenti sia resa possibile dall’autoregolamentazione delle parti in causa.

Infatti, gli studenti non costituiscono una “classe” analoga agli operai o agli insegnanti. In primo luogo perché non hanno diritti comuni da difendere (nonostante le apparenze) perché le differenze istituzionali e pratiche tra discipline e corsi di studio rende ciò implausibile. In secondo luogo perché non hanno scopi condivisi, nella misura in cui tutti devono laurearsi, cioè hanno un obiettivo personale e individualizzato, che non prevede per la sua riuscita la presenza di terzi (almeno non in senso stretto). In terzo luogo le differenze di età e di interessi rendono la compagine studentesca quanto mai sfuggente ed aleatoria, ben difficile da riassumere in unico movimento, almeno in questo momento di assenza di ideologie dominanti al di fuori del mondo studentesco. In quarto luogo, e ben più importante, gli studenti non sono ancora una forza lavoro, sicché non sono che un’appendice del vero potere, costituito dai soldi, ovvero dallo stipendio dei genitori. In assenza di un contratto lavorativo, in assenza di scambio di forza lavoro per un compenso, non c’è un diritto che debba venire difeso, fatto salvo il diritto allo studio. Inoltre, gli interessi degli studenti sono genericamente tre: studiare, avere un compagno/compagna, divertirsi nel tempo libero. Nonostante le apparenze, si tratta di tre obiettivi comuni, sì, ma quanto mai individuali. Una volta che si trova la compagna, una volta che l’elemento diversivo diminuisce di interesse, rimane ben poco altro che si può condividere di per sé, in quanto appartenenza di classe.

2 La nascita della colonia penale agricola in Europa

DZankell, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

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Il paragrafo precedente ha voluto analizzare come si sia sviluppata nel diciottesimo secolo un’intensa attività, da parte delle principali potenze europee, di colonizzazione interna nelle terre extraeuropee. Molte volte la colonizzazione avvenne anche tramite la ‘colonia penale agricola’. Come vedremo in questo paragrafo, si sviluppò un importante dibattito sulle condizioni dei coloni e sull’utilità delle colonie stesse.

Nella prima metà dell’Ottocento si sviluppò in Italia, come altrove in Europa, specialmente in Olanda e Francia, un intenso dibattito sui sistemi penitenziari: si prendeva infatti in considerazione l’idea di rendere le pene detentive meno truci, svincolando il detenuto da quel triste avanzo della galera: la catena.[1] La pena non doveva essere semplicemente ‘punitiva’, ma doveva avere al suo interno un significato catartico per il detenuto. L’Italia, a differenza di quasi la totalità dei Paesi europei dell’Ottocento, aveva pochi possedimenti d’oltremare che permettessero la sperimentazione di colonie penali; solo stati come Francia e il Regno Unito, cercarono di effettuare una colonizzazione dei possedimenti d’oltremare con l’invio di condannati dalla madrepatria.[2]

Nell’ambito del dibattito sui penitenziari in Europa si ragionò comunque sulle possibili alternative al carcere come simbolo del luogo di pena: nacque così il concetto di ‘colonia penale agricola’. Secondo la definizione del Digesto “le colonie penali potevano essere di due specie: di oltremare e interne, le prime in territori conquistati in luoghi lontani dalla madrepatria, le seconde all’interno dei confini naturali”[3].

Zombie e fantasmi – Due figure complementari

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Scopria anche Il vampiro: un’analisi filosofica


Ispirato da una proficua discussione con Francesco Marigo, mio caro amico, vorrei proseguire la strada intrapresa da Il vampiro: un’analisi filosofica con una analisi sugli zombie. Innanzi tutto, gli zombie potrebbero essere ispirati ad alla religione voodoo, ma quelli a cui mi riferirò io sono gli zombie concepiti dalla cultura popolare dei film. Come anche i vampiri, gli zombie sono delle figure che non mi hanno mai detto niente, sicché, rifiutando di pensare che il loro successo sia dovuto alla superficialità della gente, sempre invocata per spiegare qualcosa che non si capisce, tento di comprenderne il significato. Anche perché pure la superficialità ha le sue ragioni e la sua logica, sicché spiegare un fenomeno invocando la superficialità non aggiunge molto alle nostre conoscenze, semmai sposta il problema e addirittura lo complica.

Prima di iniziare vale la pena dire che, a differenza del vampiro, gli zombie sono considerati un autorevole problema filosofico a tal punto che la Stanford Encyclopedia of Philosophy, una delle sovrane fonti filosofiche analitiche e non solo del nostro evo, dedica una intera pagina alla questione. Infatti, prima di tutto ci si può domandare se gli zombie siano possibili, se la loro esistenza sia compatibile con il nostro mondo o se siano impossibili. In secondo luogo essi possono essere utilizzati in esperimenti mentali, ovvero scenari ipotetici in cui si testano le teorie filosofiche: la letteratura epistemologica (dai problemi di Gettier allo scetticismo) e la filosofia della mente (celebri i casi della terra gemella o proprio degli zombie) sono costitutivamente indirizzate da simili scenari immaginari. Gli zombie sono spesso invocati per i problemi legati alla relazione mente/corpo nella theory of mind and consciousness. Detto questo, io mi concentrerò esclusivamente sulla figura simbolica dello zombie, così come ci viene presentata dalla cultura popolare. Per i più interessati alle altre vicende, rimando all’autorevole voce della Stanford sugli zombie.

Il vampiro – Un’analisi filosofica

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Scopri anche Zombie e fantasmi – Due figure complementari


Forse qualcuno di voi si è chiesto il motivo per cui i vampiri piacciono tanto. Almeno, a me questa domanda è balenata per la testa più di una volta. Infatti a me i vampiri non dicono assolutamente niente. Non li trovo né belli né brutti, né affascinanti né repellenti. Non mi sembrano neppure una stramberia. Semplicemente li ignoro.

Naturalmente mi sono imbattuto nella visione di più di un film o narrativa che, in modo diretto o indiretto, considerava la figura del vampiro. Ma il mio problema non era capire in sé cosa fosse il vampiro, ma comprendere perché i vampiri piacciono tanto. E sin dalle origini, sin dai lavori di Bram Stoker e dell’eccezionale Nosferatu il vampiro di Murnau, il vampiro si è imposto subito all’attenzione del pubblico. Ci deve essere un motivo per questo. O, come sempre, una serie di motivi.

Intanto il vampiro evoca una atmosfera gotica, di mistero e di antico, che può affascinare. Infatti, il vampiro (un essere di fantasia) ha un forte legame con il passato oscuro, quasi sempre del medioevo, in cui le immagini dell’immaginario sono spesso di morte e di dominio dell’occulto. Il fascino per i poteri misteriosi congiunti al male hanno sempre interessato le persone, perché rivedono un aspetto della loro realtà che li domina ma li vorrebbe vedere dominatori: essi si sentono schiavi della tecnologia, che non capiscono (quanti sono in grado di spiegare il funzionamento di uno smartphone o del computer, strumenti ormai indispensabili? Ma anche quanti sono in grado di spiegare il funzionamento della caffettiera?), ma allo stesso tempo vorrebbero essere i depositari di quel sapere che la tecnologia dispone e dischiude. Quindi il fascino goticheggiante avvolge il vampiro e lo rende comprensibile alla luce della società ad alto impatto tecnologico che, però, ignora i fondamenti naturali di quello stesso sapere. Il vampiro conserva il fascino del potere che non può essere dominato.

Gli Scacchi in Paradiso

[Nota dell’autore. Originariamente l’articolo costituiva il terzo dei miei commenti all’articolo Gli scacchi come fenomeno culturale: perché gli scacchi hanno avuto da dire nella storia dell’Occidente di Giangiuseppe Pili (11 Maggio 2014); è stata sua l’idea di trasformarlo nel mio primo articolo in ScuolaFilosofica. Esso è stato rielaborato il 1° Maggio 2020 (ricorrenza liturgica di San Giuseppe artigiano, Patrono dei lavoratori), con una piccola variazione del titolo, e ulteriormente modificato in modo lieve il 15 Ottobre 2024 (ricorrenza liturgica di Santa Teresa di Gesù, Patrona degli scacchisti).]

E poi che le parole sue restaro,
non altrimenti ferro disfavilla
che bolle, come i cerchi sfavillaro.
L’incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che ’l numero loro
più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla.
Io sentiva osannar di coro in coro
al punto fisso che li tiene a li ubi,
e terrà sempre, ne’ quai sempre fuoro.

(Divina Commedia, Paradiso XXVIII 88-96)

 

 

Dante e Beatrice si trovano nel cielo Cristallino (o Primo Mobile), sede dei nove cori angelici. Beatrice ha appena fugato i dubbi di Dante sulla struttura e la dinamica dei cerchi concentrici fiammeggianti (che ospitano i cori) e ruotanti intorno a quello che sembra essere il loro centro comune – il quale, in realtà, li contiene [Paradiso XXX 10-12] –, un punto luminosissimo corrispondente a Dio.

Macbeth – William Shakespeare

 macbeth

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Consigliamo Re Lear di William Shakespeare


Macbeth è una delle più famose tragedie di William Shakespeare. E’ la storia di Macbeth, nobile scozzese, che tramite un omicidio diventa re di Scozia. Macbeth era un suddito fedele del re Duncan. Da coraggioso uomo d’arme Macbeth non pensa di tradire il suo re, fino a quando incontra tre streghe, le quali predicono il futuro di Macbeth, un futuro di ascesa e discesa, fosco e tragico. Tuttavia all’altro comandante, Banquo, le streghe predicono che la sua progenie sarà di re. Macbeth non è sicuro di ciò che bisogna fare e si consiglia con la moglie, lady Macbeth. Costei lo spingerà a prendere possesso di quel futuro che così sicuramente gli è proprio, ovvero assecondare la profezia delle tre streghe. Per tale ragione Macbeth uccide il re Duncan, dopo aver organizzato un banchetto in casa sua in suo onore, avendo così avuto premura di mettere il sonnifero alle guardie del re e al re stesso. Macbeth uccide le guardie in un simulato attacco di rabbia, così da non lasciare testimoni o altre possibili spiegazioni sull’accaduto. I figli di Duncan intuiscono il pericolo e fuggono. Ma Macbeth non può fermarsi al regicidio. Egli deve anche eliminare Banquo e suo figlio, per via della profezia. Assolda due sicari per questo compito, sicché uccidono Banquo al banchetto organizzato appositamente per eliminare il nobile uomo, ma falliscono nell’assassinare il figlio. A questo punto Macbeth è re di Scozia e sembra non avere più nemici. Eppure il destino è segnato, come lo era fin da principio.