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George Berkeley – Vita e opere

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Vita

La noia è una ripetizione incessante del già visto, o anche una permanenza assoluta del presente, voglia definirsi come si voglia, la noia è senz’altro una piaga dell’umanità. Da sempre. Ma non per tutti. Berkeley, filosofo piuttosto che vescovo irlandese, intellettuale o ottimo scrittore, la noia deve averla conosciuta solo in un momento e di sfuggita. Una volta scrisse “da che io ricordi, ho sempre voluto percepire”[1]. Quando non era ancora un uomo ma un embrione, visto che non vedeva né, in senso consapevole, toccava nulla.

La sua vista si accese e il suo tatto tastò sin dal 12 luglio del 1685, giorno della sua nascita. In quella data il Signore Dio suo gli iniziò a far percepire tantissime cose, dalle più minute alle più semplici. Chi sa se già da allora era già stato in grado di capire che i soli sensi che danno un senso alle sensazioni erano solo due: il suono non è dell’oggetto da cui sembra provenire, così per il gusto e l’olfatto. Se sentiamo un’automobile vogliamo dire che sentiamo il suono che si è propagato nell’aria, ma non che la macchina è quel suono. Allo stesso modo si può dire per il gusto e per l’olfatto.

Ad ogni modo, iniziò a percepire una serie composita di esseri intorno a lui. Egli infatti aveva percezioni chiare e distinte di ben sette fratelli e di una casa sul fiume Nore, nei pressi di Tomastown.

Nel 1696, come Dio volle, iniziò a farsi un’idea del mondo, nel senso che immaginò di essere al Kilkenny College, un’idea concreta nella quale aveva già studiato il grande scrittore irlandese, Jonathan Swift, di questo si ha certezza seppure lo possiamo solo immaginare. Le percezioni durarono ben quattro anni, prima di prefigurargli una serie di luoghi diversi.

Infatti il 21 marzo del 1700 il nostro Berkeley vive a Dublino, dopo essersi immatricolato al Trinity College della stessa città. In questa sede immagina tutte le opere che egli cercherà di capire senza una chiara visione della ragione: da Descartes a Hobbes, da Gassendi a Locke e Newton. Di tutto si può dubitare intorno alla filosofia di Berkeley, ma non certamente che non avesse una grande sensibilità per la sensibilità, che concepiva un po’ come un fiume in piena. La sua filosofia è quella più vicina ad una buona immagine hegeliana: non vede il bosco perché vede troppi alberi.

La fantasia lo guida a immaginare di far parte di una consulta studentesca riunita per discutere la “nuova filosofia” lockeana. Si narra che non era soddisfatto delle sue proprie percezioni, e si lamentava evidentemente col buono e saggio creatore perché non riusciva a capire cosa potesse sentire un condannato a morte quando veniva impiccato. Incapace di immaginare da sé tali sensazioni, decise di provare egli stesso insieme ad un suo compagno. Non si sa se questo fosse più furbo di lui o usò meglio la sua immaginazione, oppure se fosse solo un fantasma della mente di Berkeley o se io stesso sto immaginando tutto quello che vedo. Tuttavia è un fatto certo che si “impiccò” da solo, e non è difficile supporre che il suo compagno stia ancora ridendo… infatti io immagino delle percezioni, che dunque esistono per forza, di un essere che esiste e che ride di Berkeley nel momento della sua simulazione della sua simulata impiccagione.

E ciò nonostante, la sua immaginazione non volle fargli vedere le sbarre di un istituto di correzione mentale, forse perché ancora non era arrivato Bentham col suo panopticon ( peccato, perché mai come allora ce ne sarebbe stato bisogno ). Infatti Berkeley, salvato dal suo compagno immaginario, continuò felicemente i suoi studi. Egli tiene un agenda sensibilmente aggiornata nella quale annota ogni idea e ogni sensazione che aveva.

Scrive qualche cosuccia di aritmetica della quale non riusciva ben ad apprezzare l’infinito. Infatti, non arrivando a percepire un qualcosa che sia sensibilmente senza fine, non capiva come potesse esistere. Infinita divisibilità: chimera senza senso.

Nel 1708, abbagliato dal Dio che continuava a parlargli attraverso ciò che egli stesso vedeva, incominciò a scrivere sermoni per convincere la gente sulla bontà del suo Dio immaginativo, o forse immaginario, o probabilmente ho immaginato di immaginare un dio immaginario, immaginato dall’immaginazione di un immaginario filosofo privato di immaginario collettivo ma che certo aveva molte immagini nella sua testa. E nel 1709 il suo amore per le immagini dei libri gli conferisce addirittura la nomina di bibliotecario e diacono. E questo fu anche l’anno del suo primo trattato importante: An essay towords a new theory of vision.

E a questo punto, Dio gli concede il grande onore di prestargli qualche sensazione per vestirlo da sacerdote, addirittura dal Gorge Ashe, vescovo di Cloegher e vicecancelliere del Trinity College. A questo punto, in straordinaria fiducia, immagina di comporre il suo più grande trattato: A treatise concernine the principles of human knowledge. Ma la sua fantasia non era tanto fervida da concedergli la possibilità di avere un grande successo di pubblico. Nemmeno un Dio buono e regolatore né la sua immaginazione furono in grado di sopperire alle mancanze di quell’opera. Anzi, travolto dalle emozioni, produsse una folla che considerò all’unanimità “ridicola” la sua opera.

Intristito, si rifugia nello scritto ancora più discutibile in cui difende la posizione secondo la quale è illecito, da parte di un popolo, ribellarsi al proprio sovrano o ordine stabilito, tradendo in ciò una delle cose che ha aiutato di più il cristianesimo alle origini: quella di sposarsi straordinariamente bene ai poteri stabili e costituiti.

Il suo essere pensante, spirito costante e passivo nel sentire ma molto attivo nell’immaginare, si trasferì a Londra, un moto relativo, senz’altro, ma con conseguenze sensibili. Lì viene condotto a corte, e compie, a seguito di quella, un viaggio in Francia nel quale, se fosse stato pienamente padrone delle sue percezioni, avrebbe incontrato Malebranche. D’altra parte, in quanto non rimane mai memoria della memoria altrui, non si sa se l’incontro avvenne davvero. In questo io sono portato a dubitare, in quanto, se fosse avvenuto, ci sarebbe pervenuta qualche traccia.

Vero o no, sicuramente Berkeley nel 1714 vede e tocca il suolo genovese e quello di Torino, giunge anche a Livorno, rimanendovi per qualche mese, e compie ancora qualche viaggio per la Toscana, prima di ritornare alle percezioni già viste e toccate della piovigginosa Londra.

Tornato a Londra, si espone politicamente a favore dei tories, partito monarchico e destrorso, con i quali si era già compromesso. Questa volta però, si compromette definitivamente e per questo il Dio fa smettere di percepire, non solo nell’immaginazione, il vitalizio che egli aveva dalla chiesa di San Paolo, a Dublino.

Schifato dalle troppe percezioni negative e scocciato per il clima rigido, sul quale solo il signore poteva avere controllo, decide sensibilmente di cambiare un po’: il suo spirito, incapace di muoversi in senso proprio, in quanto del tutto immateriale, si “sposta” in Italia, nel sud, deciso com’era di visitare Roma e dintorni. Il viaggio durerà quattro anni. Riuscirà, per grazia divina, anche ad assistere allo spettacolo raro dell’eruzione del Vesuvio a Napoli nel 1717.

A questo punto il nostro pensatore viaggiatore, direi proprio in tutti i sensi, si dedica alla composizione di un saggio “de motu” che fa pubblicare per l’occasione in Francia, per il concorso bandito dall’Academie des Sciences: questo concorso era uno dei più prestigiosi di tutta Europa e in questo gareggiavano i più illustri scienziati dell’epoca. Inutile dire che il nostro Berkeley, troppo affaticato per aver usato tutta la sua volontà ai fini dell’immaginazione del suo saggio, non fu altrettanto bravo a immaginare che la giuria lo scartasse. Eppure così fu.

Ritornato a Londra, la prima cosa che fa è ripubblicare il suo saggio, questa volta scritto in latino: aveva immaginato che l’incomprensione fosse dovuto a qualche ragione linguistica. E chissà se aveva ragione!… no, scusate, se aveva immaginato giusto! Ad ogni modo, decide di passare ad un nuovo progetto, suggeritogli dalla sua instancabile fantasia: un viaggio di conversione alle Bermuda!

E già, oggi non ci sarebbe bisogno di molta immaginazione per compiere una simile cosa, ma in un epoca dove aerei e navi non erano ancora percepiti velocemente, era assai difficile imporre alla propria sensibilità una visione così diversa delle cose intorno, sempre che Dio avesse voluto. Ma egli incomincia ad avere il pallino della fondazione di questa scuola, era ormai inoltrato 1723, e queste follie erano all’ordine del giorno, per il nostro filosofo.

Il 1724 fu un anno fortunato: intanto si apre con uno splendido trattato (io non l’ho letto né intendo leggerlo… tanto mi basta immaginarlo!) sull’accettazione biblica della schiavitù (A proposal for the better supplying f cherches in our foreign plantations). La proposta verteva su un’idea molto ricca di conseguenze: rapire i bambini indiani per farne dei missionari nelle loro terre e questa opera testimonia, a scapito di quegli scettici pensatori, immateriali materialisti, che il nostro pensatore aveva un’immaginazione fervidissima. Ma l’anno portò anche un aumento di percezione: viene nominato decano di Derry, carica che gli assicura una delle migliori rendite d’Irlanda.

Per varie ragioni, tra le quali la solita provvidenza che provvide a fargli percepire una cospicua somma da un testamento di una tizia dalla quale Berkeley non si aspettava tanta considerazione (giacché, altrimenti, non avrebbe certamente scomodato la provvidenza per la spiegazione di un atto che doveva essergli apparso abbastanza irragionevole); il nostro filosofo salpa con la consorte per la volta di Rhode Island, vicino a Newport, in America. E qui conosce altri spiriti percepenti, tra i quali anche un certo Johnson con il quale poi avrà un certo scambio epistolare, oggi prezioso per riuscire a ricostruire la mutevole fantasia del nostro fantasioso poco autorevole autore.

Ma il colpaccio questa volta arriva: i soldi che sarebbero stati dovuti investire per il progetto “Bermuda”, che non era per far comprare i pantaloni al nostro filosofo che pare, nella fretta di immaginare sempre tutto, andasse spesso in giro in mutande…, com’era logico aspettarsi, non sarebbero mai arrivati. E così il nostro filosofo torna al suo paese.

Ma il 1729 iddio lo delizia della nascita del suo primogenito, Henry. E dopo tre anni, pubblica una nuova opera, questa è di teologia ed ebbe in questa, guarda caso, un certo successo: tre pubblicazioni in un solo anno! Nel 1733, ormai preso dall’entusiasmo, autoconvintosi di dire grandi verità, scrisse anche un altro trattato, forse per festeggiare anche la nascita del secondo figlio, George. Il nome è dovuto, penso, ad una caduta della sua fantasia.

Senz’altro però è il 1734 che è l’anno della sua affermazione: il 19 maggio, nella chiesa di san Paolo a Dublino, quella stessa che in altro momento non lo aiutò, venne consacrato vescovo. Se avesse un avuto un po’ di immaginazione, certamente avrebbe avuto anche i fuochi d’artificio… ma si accontentò di prodigarsi per il benessere dei suoi parrocchiani. Il suo zelo, su questo punto, arrivò addirittura a portarlo a cercare panacee per i mali dei fedeli della sua diocesi. Lo trovò ed è quello stesso rimedio che oggi noi utilizziamo per curare qualsiasi cosa: l’acqua di catrame. Si, proprio quello sciroppo, oggi aromatizzato all’essenze di agrumi, che serve per curare tutte le malattie.

C’è da dire che era un po’ la tendenza del tempo, in medicina, quella di cercare le soluzioni per le malattie del mondo e, almeno in questo, Berkeley non è da guardare più di tanto con scetticismo. Credeteci, erano in tanti all’epoca, a cercare e trovare simili rimedi.

Ad ogni modo, mette in pratica questo suo medicinale negli anni del 39-40, a seguito di una triste epidemia di vaiolo e di dissenteria (per la quale si poteva morire) nella quale perse anche la figlia, Sarah, nata quello nello stesso anno.

Nel 1744, dopo un po’ di tempo dall’ultima opera di un certo rilievo, pubblica Siris, l’opera che ebbe il più grande successo, durante la durata delle sue percezioni, e non solo tra i lettori occasionali, ma anche nei circoli di letterati. Tra l’altro, l’argomento è proprio quella dell’esaltazione della sua panacea.

Molti si sono interrogati sul motivo di tanto, apparentemente inspiegabile, successo: c’è chi ha detto che era per il suo gusto peculiare, anticipatore del romanticismo, chi invece ha sostenuto che fu dovuto al fatto che era perché si cercavano risposte concrete ai problemi medici, ancora lontani dalla soluzione. La più plausibile sembra essere quella che opere del genere erano assai diffuse nell’epoca e il contesto culturale, unito a cause particolari, favorirono la diffusione dell’opera.

Nel 1745 Berkeley, a seguito di una rivolta giacobita, cioè sostenitrice del re, raduna uno squadrone di cavalleria, in nome dell’innato senso di pacifismo che anima il cristianesimo, e scrive due lettere ai protestanti e ai cattolici della sua diocesi, invitandoli a non sostenere la causa degli Stuart.

L’ultimo brutto colpo fu assestato dalla sorte: “Ero un uomo schivo –dice in una lettera per il vescovo Benson- alieno dalle distrazioni della politica, dalle visite e da tutto ciò che il mondo chiama piacere. Avevo un piccolo amico, cresciuto costantemente sotto i miei occhi, la cui pittura m’incantava, la cui musica mi ispirava, e il cui spirito vivace e gaio era per me una continua festa. Dio ha voluto sottrarmelo. La pietà di Dio mi ha privato di questa bellezza, di questo piacere, di questa gioia. Il suo ingegno e la sua persona, la sua innocenza e la sua devozione, il suo rispetto e la sua obbedienza, il suo particolare, non comune affetto per me, mi avevano del tutto conquistato. Non ero solo entusiasta di lui, ne ero fiero. Mi ero attaccato troppo a lui – forse più di quanto si dovrebbe amare qualcosa in questo mondo”. Berkeley aveva perso il primogenito.

Il suo spirito cessa di percepire per un colpo fulminante di apoplessia.

Data Evento
1685, 12 luglio George Berkeley nasce presso la città di Kilkenny, di famiglia inglese.
1696 Entra al Kilkenny College. Vi rimane quattro anni.
1700 Immatricolazione al Trinity College di Dublino, dove, quatto anni dopo, consegue il titolo di Bachelor of Arts: studia matematica, logica, filosofia e letteratura classica.
1700 Studia Malebranche, ma sicuramente conosce anche Descartes, Hobbes, Gassendi, Locke, Molyneaux, Newton.
1706-1708 Berkeley redige due quaderni di appunti, registrando commenti di lettura, spunti, argomenti di discussione.
1707 Compone una Arithmetica e pubblica una miscellanea mathematica. Consegue il titolo di Master of Arts e diventa tutor.
1709 Viene nominato bibliotecario e diacono. Pubblica, a Dublino, An essay towards a new theory of vision.
1710 Riceve gli ordini sacerdotali, diviene vescovo di Clogher e vice-cancelliere del Trinity College, durante un’assenza dell’arcivescovo.

Pubblica sempre a Dublino, A treatise concernine the principles of human knowledge: scarso successo dell’opera, giudicata “ridicola” all’unanimità.

1713 E’ lettore di greco al Trinity College. Pubblica, a Dublino, l’opera Passive obedience, nella quale condanna in modo assoluto la ribellione all’autorità politica, anche se tirannica, riesce a guadagnarsi la fama di giacobita.
1713 Si trasferisce a Londra, dove in maggio pubblica i Three dialogues between Hylas and Philonous, un’esposizione più accessibile alla sua filosofia.
1713 La frequentazione di alcuni club di deisti e liberi pensatori, gli offre lo spunto per i saggi di argomento religioso e morale apparsi sulla rivista “The Guardian”, edita da Steele dopo la fine del “Tatler”.
1713 Su proposta del suo amico, Johnatan Swift, autore del celebre Gulliver, viene scelto come cappellano da Lord Peterborough, nominato a sua volta ambasciatore straordinario dalla regina Anna per l’incoronazione del duca di Savoia a re di Sicilia. Partita da Londra il 5 novembre, l’amasceria si trattiene a Parigi per circa un mese.: Berkeley annuncia di avere l’intenzione di far visita a Malebranche. Non si sa se l’incontro sia effettivamente avvenuto.
1714 Berkeley visita Genova e Torino; si ferma cinque mesi a Livorno, dedicandosi a migliorare il suo italiano e a visitare la Toscana. Ritorna a Londra senza essere giunto in Sicilia (!!).
1716 Accompagna il figlio di Gorge Ashe in un Grand Tour sul continente. Il viaggio durerà quattro anni.
1717 Viene nominato Senior Fellow.
1720 Di passaggio in Francia, a Lione gli giunge la notizia di un concorso bandito dall’Academie des Sciences per una dissertazione sul movimento: compone in latino il trattato De motu, che non vince il premio.
1721 A Londra, pubblicazione del Demotu e di un Essay towords preventing the ruine of Great Britain: la corruzione morale, sociale e religiosa del paese è attribuita in gran parte ai liberi pensatori. Berkeley diventa lettore di teologia al Trinity College.
1723 Viene nominato lettore di ebraico.
1723 In una lettera espone per la prima volta il progetto di fondare un collegio filosofico-missionario alle isole Bermuda, dove educare gli indigeni e i figli dei coloni.
1728 Alla morte di una signora ricca, Berkeley riceve a sorpresa una consistente eredità: la considera un segno della Provvidenza, che gli permette di partire il 6 settembre, alla volta di Rhode Island. Lo accompagnano la sposa e alcuni gentiluomini.
1729-1731 Soggiorno Di Berkeley in America.
1731 I previsti (!!) finanziamenti del parlamento non arrivano e Berkeley è costretto a tornarsene a casa.
1732 Pubblica a Londra A sermon bifore the Society for the Propagation of the Gospel in the foreign parts  e Alciphron: or the minute philosopher … containing an apology for the Christian religion. Quest’opera fu elaborate durante il soggiorno Americano, ed ebbe tre edizioni nello stesso anno.
1733 Pubblica a Londra The theory of vision or visual language shwing the immediate presence … of a Deity vindicated and explained.
1734 Diviene vescovo di Cloyne, cittadina a venti miglia da Cork, centosessanta miglia a sud di Dublino, dove risiederà quasi ininterrottamente fino alla morte.
1735 Pubblica a Londra A defence of free-thinking in mathematics e a Dublino Reason for not replying to Mr. Walton’s full answer e la prima parte del Querist.
1737 Berkeleysi reca a Dublino per pronunciare, alla camera dei Lords, A discorse addressed to the magister … occasioned by the enormous licence, and irreligion of the times, pubblicato l’anno successivo.
1739-1740 Carestia in Irlanda, seguita da epidemie di vaiolo e dissenteria: Berkeley comincia a sperimentare le virtù mediche dell’acqua di catrame.
1744 BerkeleyPubblica a Dublino Siris: a chain of philosophical inquires concerning the virtues of tar-water. E’ l’opera che ebbe più successo durante la sua vita, anche negli ambienti dei letterati.
1745 Berkeley raduna uno squadrone di cavalleria e scrive due lettere ai protestanti e ai cattolici della sua diocese, invitandoli a non sostenere la causa degli Stuart. Rifiuta il ricco vescovato di Cloegher, offertogli da Lord Chesterfield.
1749 Pubblica a Dublino A word to wise, or an exhortation to the Roman catholc clergy of Ireland.
1751 Morte del suo più caro amico e del suo adorato figlio primogenito.
1752 Berkeley parte per Oxford con la famiglia, allo scopo di presiedere agli studi e alla vita (alquanto dispendiosa) del figlio Gorge, immatricolato al Christ Church College: si stabilisce a Holywell Street.
1753 La sera di domenica 14 gennaio, Berkeley muore di apoplessia istantanea, mentre la famiglia, riunita all’ora del tè, ascolta la lettura di un sermone, eseguita dalla moglie. Viene sepolto nella cappella del Christ Church College. Gli sopravvivono solo tre dei suoi sette figli: Henry, Gorge, Julia.

           Opere.

Arithmetica absque Euclide e Miscellanea mathematica 1707
Introduction on Principles of Human Knowledge 1708
An Essay Towards a New Theory of Vision 1709
A Treatise Concerning the Principles of Human Knowledge 1710
Passive Obedience 1712
Dialogues between Hylas & Philonous 1713
Saggi sul “Guardian” 1713
Advice to the Tories Who Have Taken the Oaths 1715
Essay towards Preventing the ruins ofGreat Britain 1721
De motu 1721
Proposal for the Better Supplying of Churches in our Foreign Plantations 1725
Alciphron 1732
Theory of Visual Language Vindicated & Explained 1733
The Analyst 1734
Reasons for Not-Replying to Mr. Walton 1735
A Defence of free-thinking in Mathematics 1735
The Querist 1735-1737
Discourse to Magistrates 1738
Philosophical Reflexions & Inquiries concerning the Virtues of Tar-Water 1744
On Siris & It Enemie, Letter Thomas Prior, Second Letter to Tomas Prior, Letter from the Author of Siris, Futher Thoughts on Tar-Water 1744-1752
Discourse to the Clergy, Discourse to Roman Catholics 1745
A Word to the Wise 1745
Miscellanies 1752

Schema di ragionamento

Ipotesi 1B(erkeley): essere è essere percepito.

Specifica a: l’essere è ciò che io penso esista.

Specifica b: in questa asserzione, l’essere, l’ente al di fuori della nostra soggettività, è identificato con la sua stessa percezione. In questo modo, l’essere per noi, è lo stesso modo attraverso cui noi arriviamo a conoscerlo. “Essere-percepito” è il modo attraverso cui noi giungiamo a conoscere l’oggetto. La questione epistemologica è posta in modo chiaro: l’oggetto della conoscenza è la nostra stessa percezione, e ciò implica anche il modo stesso attraverso cui noi conosciamo: se l’essere è l’essere percepito, se l’“essere percepito” è un modo di conoscenza, allora in questa formula è già definito tanto l’oggetto della conoscenza che il modo attraverso cui noi la raggiungiamo.

Specifica c: secondo Berkeley non esiste conoscenza più certa e indubitabile della conoscenza che ci perviene attraverso i sensi. La sua filosofia giungerà di fatto a negare tanto una visione innatista come quella cartesiana, ma anche una possibile distinzione tra idee primarie e secondarie, come voleva la concezione lockeana.

Specifica d: questa asserzione, secondo Berkeley, non è ulteriormente oggetto di ragionamento, è una verità intuitiva, autoevidente. Essa si può dire il “punto archimedeo” dell’intera visione filosofica berkeleiana.

Inferenza. Se l’essere è essere-percepito,  se la percezione implica una mente che percepisce allora “l’essere è essere percepito da una mente”.

Tesi BI: dunque “l’essere è essere-percepito da una mente”.

Specifica a: in questo senso, per Berkeley, è un’ovvietà altrettanto autoevidente l’esistenza di un soggetto. Egli non ha problemi di dubbio perché la percezione è assurda, priva di senso, se non si postula l’esistenza di un soggetto conoscente. Non c’è da stupirsi che Berkeley non si impegni né a dimostrare il suo principio, né l’esistenza del soggetto. D’altra parte, l’esistenza del soggetto è già da supporre dalla tesi epistemologica dell’essere percepito.

Inferenza. Se l’essere è essere percepito, se l’essere percepito implica una mente, se le idee astratte sono prive di particolari, allora ciò che esiste sono la mente e le idee particolari.

Tesi BII: dunque tutto ciò che esiste sono la mente e le idee particolari.

Specifica a: tutto ciò che è concepito come “astratto” non è da assimilare alla nozione “generale”. L’astratto è ciò che è privo di particolari, come l’idea di sostanza, o di triangolo considerata a prescindere da qualsiasi percezione del triangolo. In quanto prescinde da particolari, per Berkeley qualsiasi idea astratta è insensata, inesistente. Secondo lui, sarebbe un ottimo modo per risolvere i problemi filosofici, quello di eliminare tutta la questione delle idee astratte dal linguaggio.

Specifica b: come Berkeley si autoricorda nei suoi appunti, bisogna sforzarsi di associare ad ogni nome un significato. Per Berkeley, tale suggerimento, implica associare ad ogni nome un valore particolare, dunque non svincolato dalle percezioni.

Corollario I: dunque non esistono idee astratte.

Inferenza. Se non esistono idee astratte, se tutto ciò che esiste sono la mente e le idee particolari, se la mente può percepire o immaginare, allora le percezioni devono venire da un essere superiore, Dio.

Tesi BIII: dunque le percezioni devono venire da un essere superiore, Dio.

Specifica a: la mente è definita nei limiti delle sue facoltà conoscitive che implicano la sua passività qualora percepisca, ed implicano la sua attività qualora immagini. Ma la mente non è in grado di “produrre” nulla al di là di ciò che ha percepito. L’immaginazione è una produzione di idee assai più “rarefatte” di quelle che ci provengono dalla percezione diretta ed immediata delle cose. Così la mente non può essere causa delle sue stesse percezioni. Senza la mente non ci sono percezioni, ma non è lei stessa criterio sufficiente, mentre è senz’altro criterio necessario.

Specifica b: d’altra parte, non è possibile supporre l’esistenza di corpi esterni, essendo quelli impossibili da conoscere, anche ammettendo che esistano. Ma non esistono proprio, per ciò non gli si può attribuire la causa delle nostre sensazioni, come faceva Cartesio.

Specifica c: Dio è lo spirito che causa in noi le percezioni.

Inferenza. Se Dio è causa delle nostre percezioni, se le percezioni sono intuite dalla mente, se la mente conosce per idee, se le idee sono fasci di percezioni, se noi conosciamo delle leggi di natura allora le leggi di natura sono i modi attraverso cui noi costruiamo le nostre percezioni.

Tesi BIV: dunque le leggi di natura sono i modi attraverso cui noi costruiamo le nostre percezioni.

Specifica a: le leggi di natura, eliminati i corpi, non possono che attestare una “forma di regolarità” dei nostri fasci percettivi. In questo modo Berkeley riesce in qualche modo a tenere in piedi la scienza, senza farla del tutto crollare su se stessa (il che sarebbe però andato non a discapito della scienza ma della sua stessa filosofia).

Specifica b: d’altra parte, questa impegnativa conseguenza della sua filosofia, porta Berkeley a polemizzare con alcuni punti imprescindibili, oggi come ieri, del metodo scientifico, in questo caso dell’apparato matematico della scienza: il concetto di moto, il concetto di infinita divisibilità sono tutte cose che Berkeley non può accettare e così, anche nel suo Trattato, si impegna a criticare per sradicare il presunto pregiudizio.

Specifica c: in altre parole, il principio non fa che attestare che i tre principi della dinamica non sono inerenti ai corpi ma ai modi attraverso cui vediamo: sono, se così si può dire, delle leggi “dell’ottica”, non della “fisica”.

Inferenza. Se le leggi di natura sono i modi attraverso cui noi costruiamo le nostre percezioni, se le percezioni sono determinate direttamente da Dio, allora ciò che noi vediamo può essere interpretato come un linguaggio divino attraverso cui Dio ci mostra se stesso.

Tesi BV: dunque ciò che noi vediamo può essere interpretato come un linguaggio divino attraverso cui Dio ci mostra se stesso.

Specifica a: per ciò Berkeley arriva a dire che gli scienziati sarebbero molto più portati a scoprire grandi cose sulla natura se si impegnassero a ricercare le cause finali delle cose, più che arrovellarsi su questioni di cause efficienti.

Specifica b: concludiamo dicendo che l’impegno di Berkeley è rivolto soprattutto a negare le possibilità di scetticismo e di irreligiosità degli uomini. Egli arriva a negare la materia anche perché era sua convinzione l’idea che fosse causa di scetticismo ( in quanto tutto lo scetticismo verteva sulla possibilità di dubitare sull’esistenza dei corpi esterni o comunque sulla nostra possibilità di conoscenza di quelli ) e di irreligiosità ( in quanto, i materialisti si professavano atei proprio perché ritenevano che la materia fosse più che sufficiente a spiegare il mondo e giustificavano un certo libertinismo proprio perché non timorosi della religione ).

Così quando si studia Berkeley non si può dimenticare quali fossero i suoi intenti: come Cartesio era portato a concepire la sua metafisica come fondazione della scienza fisica, come Locke era intento a dare ragioni politiche, così il nostro Berkeley era impegnato in una apologetica della religione.

Filosofia

La filosofia di Berkeley ha alcuni punti forti, che, al di là di ogni possibile ironia, vanno tenuti in considerazione: la prima è l’essenzialità e semplicità delle tesi, che si possono, di fatto, ridurre al solo principio dell’essere come essere percepito; il secondo è l’esplicitazione di una delle sensazioni diffusissime nel senso comune, l’idea di una specie di verità puramente soggettiva ( vedremo in che senso ); il terzo è che è assai semplice da capire, a patto di non avere pregiudizi.

Vediamo in che senso la filosofia di Berkeley acquista una sua credibilità. L’affermazione di base è che l’essere è essere percepito. In questo senso, qualsiasi cosa che venga percepita esiste, e tutto ciò che non è percepito è inesistente. Così, poniamo il caso, una retta, definita come una linea infinita, non è di per sé pensabile, come idea astratta. Una regione estremamente lontana dell’universo non essendo percepita, per noi non esiste e così via.

Questa è una verità indubitabile per chi presti fede esclusivamente alla sensibilità. La sensibilità, in quanto facoltà dedita alla ricezione delle percezioni, non è in grado di vedere o sentire più di ciò che ella vede o sente. In questo senso, il fascio di percezioni è tutto ciò che possiamo dire esistere, qualora ci soffermiamo su ciò che noi abbiamo dai sensi.

Berkeley ha operato una riduzione della facoltà conoscitiva umana, definendola semplicemente come facoltà sensibile: tutto ciò che noi conosciamo sono particolari percezioni. Le idee che abbiamo delle cose sono le nostre stesse sensazioni intorno a qualcosa. In questo senso, il solo potere della mente umana, è quello di registrare informazioni a partire dalla sensibilità, oppure quella di creare associazioni di sensazioni a partire dalla facoltà immaginativa. Per questa ragione la mente umana, per Berkeley, è essenzialmente passiva, in quanto, il suo essere è quello di percepire. Ma la percezione, come già Cartesio e tutti gli altri sapevano bene, non è una cosa dipendente dalla nostra volontà, noi non decidiamo di vedere quel che vediamo quando apriamo gli occhi.

Così le idee della mente sono idee particolari e non idee astratte. E così Berkeley arriva a criticare due concetti, passati di fatto nella nostra tradizione filosofica: le idee generali astratte e la distinzione lockeana tra idee secondarie e primarie. Ricordiamoci sempre che tutto ciò che noi sappiamo ci perviene attraverso i sensi e la nostra sensibilità, quindi cerchiamo di sospendere ogni ragionamento e focalizziamo l’attenzione, come ci avrebbe suggerito Berkeley, sulla nostra sola sensibilità. Cosa abbiamo? Un puro e continuo, costante e regolare fascio di percezioni. Vediamo gli oggetti e ne notiamo i particolari, ne riconosciamo le sfumature e le forme. Ma se usiamo l’immaginazione cosa vediamo? Sempre idee di particolari oggetti, che hanno perso però di vivacità, si sono impoverite di particolari. Dunque, in ogni caso, non abbiamo mai idee astratte e generali, ma solo idee di particolari.

A questo punto, Berkeley sembrerebbe arrivare ad un risultato, di fatto, assurdo: se abbiamo idea solo di particolari, come arriviamo alla definizione generale degli oggetti? Sicuramente, vale il solito principio, tale per cui se e solo se è possibile percepire l’oggetto, si può dire che esiste. In secondo luogo ciò che non è pensabile è un’idea priva di qualsiasi particolare, non un’idea generale. Un’idea generale è un’idea particolare presa come esempio. Quando facciamo un esempio, infatti, noi non siamo facendo altro che generalizzare un particolare e usarlo come se tutti i particolari fossero simili. Questa operazione, come è evidente, non disperde particolari e, dunque, è lecita.

Quel che non è lecito è oltrepassare il principio dell’essere come percezione possibile: un poligono che ha tre lati e tre angoli non esiste se non lo immagino nella mia mente. Un oggetto quadrato vuoto all’interno non lo conosco se non lo penso esistente. Un piano non esiste senza un colore, che sia bianco, nero, grigio ecc.. Questa critica dunque è rivolta a tutte quelle idee prive di qualsiasi particolare.

Ma a questo punto, potrebbe essere già chiaro perché Berkeley non ammetta distinzione tra idee secondarie e primarie. Le idee primarie sono quelle idee che non dipendono dal soggetto o da come egli si faccia un’idea del mondo: la forma, l’estensione, la grandezza sono tutte proprietà dell’oggetto che il soggetto conosce a partire dalla conoscenza adeguata dell’oggetto; esse non sono qualità soggettive, dipendenti dal soggetto. Mentre è così per le qualità secondarie: colore, odore, gusto ecc.. Questa era la distinzione proposta da Cartesio, che definiva addirittura false, perché pienamente soggettive, le qualità secondarie dell’oggetto, e ridefinita da Locke.

Berkeley, riconducendo tutta la conoscenza ad un fatto percettivo, dunque puramente soggettivo, non poteva certo ammettere una distinzione reale tra qualità primarie e secondarie, nel momento in cui è sempre un soggetto che percepisce tanto qualità primarie che secondarie. D’altra parte, non è affatto una cosa ovvia che si dia una forma senza un colore, anzi, secondo Berkeley, ciò è proprio assurdo. Dunque, è il soggetto stesso a porre l’esistenza tanto delle qualità primarie che secondarie.

A questo punto possiamo dire che tutto ciò che esiste è un fascio continuo di percezioni. Ma si deve a questo punto fare attenzione: solo due organi di senso ci danno effettiva conoscenza degli oggetti. Solo il tatto e la vista sono in grado di farci “vedere” le qualità degli oggetti: infatti la vista e il tatto, seppure mostrano due oggetti diversi ( in quanto la qualità delle percezioni implica differenza essenziale tra oggetto-del tatto e oggetto-della vista ) sono i soli due sensi che entrano effettivamente in contatto con i corpi. La vista infatti vede direttamente gli oggetti ( e oggi sappiamo, grazie alla teoria della relatività, e alla nostra aggiornata concezione della luce, che nemmeno questo è vero ), allo stesso modo il tatto entra in con-tatto immediato con il suo oggetto. Non è così per quel che riguarda l’udito, per esempio: quando sento una melodia non dico certo che conosco il violino! Mentre dico di conoscere il violino nel momento in cui lo guardo e lo tocco.

Essere è essere percepito ( diciamo pure col tatto e con la vista ). Ma ci deve essere qualcuno che percepisce qualcosa, una mente, passiva o attiva, che è soggetta a percezioni. Per Berkeley, tanto l’essere come percezione, come il soggetto come colui che compie tali percezioni, sono due verità intuitive e non ulteriormente soggette a ragionamento, sono propriamente i due assiomi della sua filosofia.

Non posso dubitare che le percezioni debbano essere assorbite da un soggetto, così come non posso nemmeno dubitare che ciò che esiste sia anche ciò che è percepito. Ma dalla sola definizione di percezione, deriviamo che essa è sempre relativa ad un soggetto, anche soltanto possibile ( il dire che esiste un cratere sulla faccia della luna che non si vede dalla terra, non implica la sua non-esistenza solo per il fatto che io non lo vedo, significa dire che un potenziale altro soggetto può effettivamente percepire quel particolare cratere a me invisibile. Seppure per me, effettivamente, rimane oggetti di dubbio sulla sua esistenza… ). A questo punto però rimangono due domande almeno: prima di tutto, se non esistono idee generali astratte, non può esistere neanche la materia, intesa come sostrato, oppure esiste? In secondo luogo, se non esiste la materia, da dove vengono queste mie percezioni?

In primo luogo, la materia, in quanto idea generale astratta, effettivamente non esiste. Se ci si pensa bene, quel che noi predichiamo come “materiale” è effettivamente oggetto di conoscenza in quanto percezione. Nel luogo comune, scadente autorità filosofica, si usa molto spesso “materiale” come sinonimo di “percepito”. Dirò di più, ha ragione Berkeley a far notare che nel senso comune ciò è inteso con “materia”, con “concretezza”, con “ciò che esiste realmente” è effettivamente ciò che noi “conosciamo attraverso i sensi”, ciò che vediamo e tocchiamo, prima di tutto il resto. Quante volte mi sono sentito dire “cosa significa che l’essere è? A cosa serve la filosofia?” e associavano a queste profondissime parole il dolce “toc, toc” del pugno battuto sul legno del tavolo! E questo “toc, toc” non voleva dire altro: “questo lo vedo, lo tocco, lo sento; il resto che non vedo e non sento non esiste e ciò è talmente ovvio che mi pare un’offesa all’intelligenza sostenere il contrario”[2]. Insomma, ciò che è materiale, nel senso comune, è ciò che è inteso come “percepibile”. Ma in questo modo, la materia intesa come estensione, infinita e criterio di esistenza delle singole cose, non è oggetto di percezione, dunque non esiste.

Pensiamo infatti a quando definiamo gli oggetti nello spazio: ci serviamo sempre di altri oggetti per darne delle specie di coordinate dalle quali poi trarre la nostra immagine “virtuale” dello spazio. In questo modo ci costruiamo delle percezioni di cose, delle costellazioni di idee, che ci pongono una serie di particolari esistenti. Ma in ciò non c’è affatto la definizione di qualcosa che esista a prescindere da ogni possibile percezione. In questa “descrizione” noi non facciamo altro che usare il linguaggio come tramite per comunicare le nostre percezioni, nient’altro.

Da qui l’immaterialismo: della materia non posso dire null’altro che o è costituita di singoli oggetti, oppure non esiste. Berkeley nel suo Trattato dei principi della conoscenza umana, usa consapevolmente  ( perché ce lo dice lui stesso ) “cosa” come sinonimo di “oggetto della percezione” ovvero di “idea”. Ma la mente non conosce altro che percezioni, dunque idee, non “cose” fuori di noi. In questo senso, credere che esista una materia estesa, è semplicemente assurdo nella misura in cui tutto ciò che io possono conoscere è nella mia mente e nella mia mente inizia e finisce. Tutto ciò che esiste è il soggetto e le sue percezioni, punto.

Ma a questo punto sembrerebbe che Berkeley sia uno scettico, cioè che dubiti su una possibile conoscenza esatta del mondo. E invece egli si oppone ad ogni piè sospinto tanto allo scetticismo che all’irreligiosità. Infatti egli non sostiene affatto che la conoscenza non sia possibile, anzi, è, secondo lui, garantita al massimo grado proprio dal fatto che sia esclusiva attività del soggetto e che questi non debba mai postulare esistenza di cose fuori di lui.

Questa soluzione immaterialista e soggettivista non ha solo la conseguenza di eliminare, nel vero senso della parola, la materia e degli oggetti esterni alla mente, ma offre anche il pregevole sostegno ad una difesa della religione: infatti da dove vengono queste percezioni? Non possono essere causate dal soggetto, in quanto, nei suoi atti di percezione, egli è sostanzialmente passivo. Non possono essere fondati al di fuori del soggetto, come faceva Cartesio. Berkeley sostiene che sia Dio stesso a produrre in noi una molteplicità di percezioni. E ciò sarebbe anche il motivo per il quale le nostre percezioni sono così vivide, regolari e costanti. Dio stesso, spirito attivo per eccellenza, si impegna nella produzione di fasci percettivi.

A questo punto, vien da chiedersi, se tutte le scoperte fatte sul mondo materiale e la fisica abbiano un qualche significato. Berkeley sostiene che esse non sono predicabili di cose fuori di noi: le leggi di natura, non esistendo oggetti fuori della mente, non regolano null’altro che le nostre stesse percezioni. La legge di gravitazione non descrive affatto il comportamento dei corpi soggetti alla forza di un campo gravitazionale, né i tre principi della dinamica descrivono il moto di niente, ma sono i modi attraverso noi percepiamo il mondo.

In effetti Berkeley ha ragione a dire che la sua filosofia non cambia assolutamente l’importanza delle scoperte scientifiche nella misura in cui egli non rinuncia comunque a sostenere l’esistenza, in una certa misura, di una cosa indipendente da noi. Egli non fa altro che spostare il problema dalla materia alla semplice percezione, facendo perno solo sul soggetto. Il fatto è che se la sua filosofia non cambia l’importanza delle scoperte scientifiche, non agevola nemmeno la scoperta di nuove. Anche perché poi, con la discussione di alcuni concetti che per Berkeley erano pure idee astratte, dunque inesistenti, si andavano a minare dei concetti importanti della fisica dell’epoca.

La filosofia di Berkeley è dunque riassumibile, come si è visto, quasi per intero nella celebre formula: l’essere è essere percepito, la materia non esiste e Dio è causa delle nostre percezioni, le leggi di natura sono i modi attraverso cui noi costruiamo le nostre percezioni. Rimane una sola cosa da trattare ancora: il linguaggio.

Per Berkeley il linguaggio era una questione convenzionale attraverso cui noi possiamo comunicare e suggestionare altri come noi. Il linguaggio è utile ma anche pericoloso, un po’ come un’arma. Infatti da un lato è veicolo principe di ogni conoscenza ma da un altro è stato spesso usato in modo ambiguo e triviale, causa di innumerevoli dispute. Egli sostiene che il linguaggio deve essere adoperato in modo tale che ciò che venga comunicato abbia sempre un significato, nei termini della filosofia berkeleiana. E allo stesso modo di un linguaggio deve essere interpretata la percezione: un linguaggio divino attraverso cui Dio, artefice di quello, ci parla e comunica. Così non deve stupire che Berkeley sostenga l’importanza della causalità finale in fisica e di come gli scienziati dovrebbero adoperarsi per scoprirne tante e innumerevoli.


Riferimenti

Per quanto riguarda la “vita”, si veda:

“Manuale di storia della filosofia II” di Gregory, Verra e Adorno. Mondolibri editore. Alla voce riguardante il filosofo.

“Opere filosofiche” Berkeley, G.. UTET. A cura di Silvia Parigi. In particolare le note Biografiche Pp. 53-59.

Per quanto riguarda la “filosofia”:

Introduzione a Berkeley, Mario Manlio Rossi. Laterza, collana “I filosofi”.

Trattato sui principi della conoscenza umana. Berkeley, G. UTET. Da “Opere filosofiche” a cura di Silvia Parigi.

Per un utile saggio di “critica” consiglierei “Empirismo e filosofia della mente” di Sellars. Per quanto questo saggio non parli solo di Berkeley, anzi, solo di sfuggita, è molto utile per capire bene quali siano i problemi posti ad una filosofia che si fondi sul “dato” ( sens-data ) la propria credibilità e “pesantezza” conoscitiva.

« So che c’è una potente classe di persone che mi combatteranno, ma posso sperare tuttavia di esser sostenuto da quelli che non hanno la mente così piena di pazzia. Questi sono di gran lunga la maggior parte dell’umanità –specialmente moralisti, teologi, politici. Io sono giovane, sono un villano inurbato, sono pretenzioso, sono vanitoso. Benissimo. Devo tentare di sopportare pazientemente gli appellativi più mortificanti e vituperosi che possa escogitare il loro orgoglio e la rabbia dell’uomo. So però che c’è una cosa di cui io non sono colpevole. Io non attacco la mia fede alla manica di nessun grande. »

Da introduzione a Berkeley, P. 10.

« Ognuno di noi è il giudice migliore di ciò che percepisce e di ciò che non percepisce ».

Ivi. p. 21..

« Stando seduto nel mio studio, odo una carrozza passar per la strada; guardo dalla finestra e la vedo; esco di casa e entro in essa: quindi il modo comune di parlare mi renderebbe incline a pensare che abbia udito, veduto, toccato lo stesso oggetto, cioè la carrozza. Ma tuttavia è ben certo che ognuno dei cinque sensi produce in me idee del tutto distinte tra loro: siccome si è sempre osservato che esse vengono insieme, se ne parla come se si trattasse della stessa cosa ».

Ivi. p. 29.. A sua volta citato dal trattato sulla visione.

« Locke fu in grave errore nel porre fra gli usi e non fra gli abusi del linguaggio il ricordare le nostre idee per mezzo delle parole ».

Ivi. P. 33.

« … quando ci si trova di fronte a tanti pregiudizi, una dimostrazione nuda e cruda non basta. Devo anche soddisfare i dubbi che possono sorgere nella mente della gente in favore delle sue idee preconcette, dimostrare da dove venga l’errore e come si sia diffuso, e finalmente rivelare e sradicare quelle convinzioni erronee che preconcetti precoci possono avere impiantato nella mente ».

Ivi. P. 34.

« S 149. Non voglio ora perdere tempo a trarre corollari delle dottrine fin’ora esposte. Se le prove sono sufficienti, altri potranno, se lo credono opportuno, impiegare la loro mente ad estendere ulteriormente queste dottrine applicandole a qualunque scopo possano servire ».

Ivi. P. 39.

« S 157. Devo confessare che persone d’ingegno sembra abbiano l’opinione che figure piatte o piane siano oggetti immediati della vista che se poi riconoscono che i sinodi non lo sono. Questa loro opinione è fondata su ciò che si osserva nella pittura in cui, essi dicono, le idee impresse direttamente alla mente sono soltanto di piani variamente colorati che un altro istantaneo di giudizio trasforma in solidi: ma se pensiamo un momento, vedremo che i piani di cui si parla qui come oggetti immediati della vista non sono visibili ma tattili, perché quando diciamo che i dipinti sono piani, intendiamo che essi appaiono al tatto lisci e uniformi. Ma questa uniformità, questo liscio (…) ossia questo esser piano nel dipinto non è percepito immediatamente dalla vista perché appare ai nostri occhi vario e multiforme ».

Ivi. P. 42.

« Quindi vediamo piani nello stesso modo con cui vediamo i solidi ».

Ivi. P. 42.

« Far ciò non è davvero possibile, e non sembrerà strano se consideriamo come sia difficile per chiunque udire parole nella propria lingua materna pronunciata a portata del suo orecchio senza capire ».

ivi. P. 43.

« Perché la mente del lettore sia preparata ad intender più agevolmente ciò che segue, ho creduto opportuno premettere alcune cose ».

Ivi. P. 43.

« La grande maggioranza, gente semplice, incolta, non pretende mai di avere nozioni astratte. Si dice che esse sono difficili e non possono venir conseguita senza studio e fatica: potremmo quindi dire che, se pure esistono nozioni astratte, sono un privilegio riservato alle sole persone dotte ».

Ivi. P. 50 Dall’introduzione al Trattato sui principi.

« Sono senz’altro d’accordo con questo dotto autore [ Locke ] sul fatto che le capacità dei bruti non possono in nessun modo arrivare all’astrazione ma se si volesse far di questo la quantità distintiva di tal sorta d’animali, temo che molti, anzi, moltissimi di quelli che passano per uomini dovrebbero essere annoverati tra i bruti ».

Ivi. P. 51.

« Abbiamo, mi sembra, mostrata la impossibilità di idee astratte. Abbiamo esaminato ciò ch’è stato detto in loro favore dai più abili difensori di esse; abbiamo tentato di mostrare che esse non servono affatto agli scopi per i quali si credono necessarie; infine, le abbiamo ricondotte alla sorgente dalla quale scaturiscono e appare evidente che essa è il linguaggio. Non si può negare che le parole siano utilissime poiché per mezzo di esse tutto l’insieme di quelle conoscenze che sono state conseguite dal congiunto lavoro degli studiosi di tutti i tempi e d’ogni nazione, può venire portato a conoscenza d’una sola persone ed entrare in suo possesso. Ma molte parti della scienza sono state così stranamente imbrogliate e oscurate dal cattivo uso delle parole e dal modo generico di usarle, che si può quasi porre il quesito, se il linguaggio sia stato un ostacolo ovvero un aiuto al progresso delle scienze. Dunque, poiché le parole ingannano così facilmente l’intelletto, ho risoluto di farne a meno uso che posso nelle mie ricerche: quali che siano le idee che considero, tenterò di tenerle presenti nude e crude, escludendo dai miei pensieri finché posso quei nomi che sono stati congiunti ad esse strettamente da un uso prolungato e continuo ».

Ivi. P. 56.

« l’esistenza di qualcosa consiste nell’essere percepita ».

Ivi. P. 58. Dal “Trattato sui principi…” citazione da citazione.

« Perché per me è due tutto inconcepibile ciò che si dice dell’esistenza assoluta di cose che non pensano, e senza nessun riferimento al fatto che vengano percepite. L’esse delle cose è un percipi e non è possibile che esse possano avere un’esistenza fuori delle menti o dalle cose pensanti che percepiscono ».

Ivi. P 58.

« Certe verità sono così immediate, così ovvie per la mente che basta aprir gli occhi per vederle ».

Ivi. P. 59.

« … preferisco mi si giudichi prolisso e tedioso piuttosto che omettere qualcosa che possa giovare a scoprire ed estirpare completamente questo genere di pregiudizio ».

Ivi. P. 61.

« A che serve infatti diffondersi su ciò che in una o due righe può venir dimostrato con la massima evidenza a chiunque sia capace della minima riflessione? »

Ivi. P. 66.

« S 23. Ma, direte, certo per me non c’è nulla di più semplice che immaginare che esistano, per esempio, alberi in un parco o libri in un gabinetto [ sic! ] senza che voi lo potete. Che non v’è alcuna difficoltà; ma ditemi che cosa c’è in tutto questo di più che formare nella nostra mente certe idee che chiamate libri e alberi, trascurando invece di formare nello stesso tempo l’idea di qualcuno che le percepisce? »

Ivi. P. 83.

« Solo ciò che non è comune, ossia una cosa che sta a è, fuori dal corpo ordinario delle nostre osservazioni, viene considerata strana o sorprendente ».

Ivi. P. 83.

« In primo luogo, è evidente che gli scienziati si divertono inutilmente quando cercano una qualsiasi causa efficiente naturale che non sia una mente e uno spirito. In secondo luogo, dato che tutta la creazione è opera di un Agente saggio e buono, sembra ( contro l’opinione di alcuni ) che gli scienziati farebbero bene a cercare le cause finali delle cose ».

Ivi. P. 85.

« [ nei Principia di Newton ] si dice che in questioni di fisica dobbiamo astrarre dai nostri sensi perché può darsi che nessuno di quei corpi che ci sembrano in quiete lo siano veramente, mentre ciò che si muove relativamente, può, in realtà essere in quiete ».

Ivi. P. 87.

« Ma nonostante ciò che è stato detto, devo confessare che non mi sembra che ci possa essere altro che moto relativo: così per concepire il movimento devono venir concepiti almeno due corpi. Che variano di distanza o posizione l’uno rispetto all’altro (…) questo mi sembra evidentissimo perché l’idea che ho di movimento coinvolge necessariamente una relazione ».

Ivi. P. 88.

E ciò, detto tra noi, è proprio vero! ( Mi sia lecito rimandare al mio piccolo saggio introduttivo sul “moto visto con gli occhi della scienza” nella scheda degli “spunti di riflessione” di Zenone ).

« … un’idea distinta che possa venir separata da tutte le altre: cosa questa che ha dato origine a infiniti ».

Ivi. P. 91.

« così come aborrisco di tutto cuore l’inquisizione nelle questioni di idee, credo che non abbiate il diritto di istituirne una per la scienza ».

Opere filosofiche. Berkeley Introduzione da citazione. P. 15.

« La verità è il grido di battaglia di tutti e l’impegno di pochi. Chiunque voglia compiere un progresso effettivo nella conoscenza, deve consacrare la vecchiaia così come la giovinezza, la maturità come i frutti precoci sull’altare della verità ».

Ivi. P. 27.

« E’ dunque impossibile, anche nei ragionamenti filosofici e più rigorosi, modificare le tendenze e lo spirito della lingua che si parla, così da non offrire nessun appiglio ai cavillatori, sempre pronti a trovare difficoltà e incoerente. Ma un lettore onesto e imparziale ricaverà il senso generale dallo scopo, dal tenore e dall’articolazione del discorso, sorvolando su quei di esprimersi poco accurati che l’uso ha reso inevitabili ».

Trattato sui principi della conoscenza umana. Berkeley, Ivi. P. 226.

« … quando le parole vengono usate senza alcun significato, le si può unire senza timore di contraddirsi ».

Ivi. P. 239.

« ma, tutto quel dubitare, che tanto disobbedienza e confonde la mente, rendendo la filosofia ridicola agli occhi del mondo, scompare se uniamo un significato alle nostre parole, e smettiamo giocare con i termini (…) »

Ivi. P. 244.

« … diecimila uomini uccisi da un colpo di cannone non sono, in modo, che diecimila percezioni del nostro intelletto; e quando un uomo e una donna generano un figlio, si tratta solo di un’idea che penetra in un’altra idea, dalla quale nascerà una certa idea ».

Ivi. P. 47. Citazione da citazione di Voltaire.

« I principi antichi e radicati si trasformano spesso una volta che quelle che quelle proposizioni abbiano ottenuto la forma e credito do principi, sono ritenute immuni da ogni esame non soltanto in sé stesse, ma anche in ciò che è deducibile da esse. Non c’è nessuna assurdità così grande che la mente umana non possa digerire, quando venga introdotta in quel modo.

Ivi. P. 265. Dal Trattato.

« … si accorgerà che è stata accampata per assecondare la pigrizia della mente, la quale preferisce indulgere in un indolente scetticismo, piuttosto che impegnarsi in un severo esame di quei principi che ha sempre considerato veri ».

Ivi P. 267.

« La volontà viene definita il movimento dell’anima: questa espressione induce a credere che la mente dell’uomo sia simile a una palla in movimento, che gli oggetti dei sensi spingono e determinano con la stessa necessità di un colpo di racchetta ».

Ivi. P. 275.

« La considerazione chiara di queste grandi verità non può mancare di riempire i nostri cuori di una timorosa circospezione e di un santo timore, che costituiscono il maggiore incentivo alla virtù e il miglior deterrente contro il vizio ».

Ivi. P. 282.

Le parti sono tratte più per una scelta stilistica che per esser, nella loro particolarità, essenziali. Ho preferito deliziare il lettore di ciò che c’è di meglio in Berkeley. Infatti, non essendo né particolarmente impegnativa né lunga, anzi, accessibile e piacevole, colui che voglia approfondire può benissimo leggere il filosofo direttamente dalle sue opere, operazione che, per altro, consiglio comunque e per tutti perché vale mille volte una propria idea su di una filosofia, per quanto oscura e parziale, che un’idea di un altro chiara e distinta.

Contenuti speciali

Per la sua peculiare visione della filosofia, Berkeley si ritiene una specie di paladino del senso comune. Spesso egli si rifà ai detti del senso comune come ad una “autorità” più credibile di altre. Questo accade molto più spesso nella comunicazione quotidiana che in filosofia. Ma come mai? Perché ci si rifà al senso comune?

Vorrei a tal proposito citare un passo dello splendido libro di Hobsbawn ( E. “Il secolo breve. 1914/1991”. Bur Storia 1997 ):

« Circostanze meno estreme –per esempio normali rapporti sessuali- potevano comunque produrre una insicurezza e una sofferenza mentale proporzionate alla loro natura. Poteva capitare che l’alternativa a una vecchia convenzione, per quanto irragionevole, non fosse già una qualche nuova convenzione o un comportamento più razionale, bensì l’assenza completa di regole, o almeno l’assenza di un’opinione comune su ciò che si doveva fare ».

Il fatto è questo: che nel senso comune, chiamato anche “buon” senso, si accumulano delle regole morali nate dall’abitudine. Questo non è un fatto negativo, in quanto in questa abitudine si annida una parziale ma utile conoscenza. Quando le persone non possono più rifarsi ad un loro “buon” senso, non sanno che pesci pigliare. In questo senso, il nostro Berkeley si fa carico di questo dato di fatto.

Il secondo spunto di riflessione è questo: ma è proprio vero che basti aprire gli occhi per percepire gli oggetti? Basta aprire gli occhi per vedere? Se si, in che senso?

Per esempio, è un fatto così ovvio che distinguiamo gli oggetti così come li distinguiamo?

Proponiamo questa serie di quesiti:

1) Nella teoria causale [ va bene anche per Berkeley ] della percezione, è veramente pensabile ( nel senso di credibile ) che il soggetto nell’azione dell’esperire, sia così passivo?

a) Aprire gli occhi non basta per vedere, nel senso che non basta per distinguere le cose. Per esempio, spesso non ci accorgiamo di particolari che pure vediamo. In che senso “esperiamo” quei particolari dei quali non ricordiamo nulla?

a.1 [Ex.]) Un pittore deve guardare molte volte ciò che vuole disegnare proprio perché deve ricostruirsi ciò che vede al meglio. L’operazione è ripetuta non solo per le qualità secondarie degli oggetti, ma addirittura per le forme. La questione non è di un “saper-fare” ma proprio del vedere in quanto insieme di percezioni: anche i pittori più esperti necessitano di tale operazione. Il pittore, in quanto soggetto, non è DEL TUTTO passivo ma apprende a vedere e seleziona poi ciò che vede: il disegno che ne uscirà non è la semplice “descrizione” ma una “selezione di descrizioni” impensabile senza una certa attività del soggetto a partire proprio dal livello percettivo.

b) La distinzione di un oggetto dagli altri non è inerente alla sua percezione: l’esperienza della scienza mostra come esistano più oggetti di quelli che normalmente ci sembra di percepire. Ma cosa vuol dire ciò? Che in realtà noi APPRENDIAMO a percepire le cose.

b.1 [Ex.]) Per esempio, i piccioni maschi e femmina non sono distinguibili che da particolari. Se noi ignorassimo che esistono due generi potremmo anche credere che le varie distinzioni siano solo accidentali. Una volta che sappiamo invece che i maschi hanno caratteristiche che le femmine non hanno, allora li “vedremo” in modo diverso.

b.2 ) Nel cinquecento, per esempio, si ignoravano del tutto molte proprietà degli oggetti più comuni, vorremmo forse ammettere che per il solo fatto che esse erano sconosciute non c’erano? Per esempio, sappiamo oggi di molte malattie che un tempo venivano indicate con un solo nome. Oggi le distinguiamo realmente a colpo d’occhio.

c) Ho avuto una certa esperienza:

ho lanciato un pezzo di carne al mio cane il quale, siccome è poco sveglio, non si è accorto di dove quello era andato a finire. Dal canto mio, me ne ero invece accorto. Ho provato ad indicarglielo col dito indice al che, il mio cane, si è messo ad annusare il mio dito. Ora, il mio cane ha senz’altro “percepito” l’insieme dei movimenti del mio braccio e della mano, ma non ne ha distinto la “funzione”.

In conclusione, mi sembra che anche la percezione, in una certa misura, sia soggetta ad una qualche influenza di una conoscenza. L’esempio del mio cane voleva mostrare una mai perplessità: come faccio a vedere senza “interpretare” ciò che vedo? Se infatti non do alcun senso-significato a ciò che vedo, di fatto devo ammettere che la percezione non è né conoscenza concettuale né utile ad una qualche attività senso-motoria, o almeno, così mi sembra.

2) Sempre nella teoria causale della percezione:

Ipotesi 1: II soggetto ha una percezione “P” di “X” se e solo se c’è un “X” che causa “P”.

Ipotesi 2: La percezione “P” di “X” è veridica se e solo se rappresenta effettivamente “X”.

L’ipotesi 2 è stata posta perché sembra che la prima non sia in grado di distinguere i casi di allucinazione ( percezioni false ) dai casi di percezione effettiva. Due oggetti simili potrebbero causare la stessa percezione.

Ma nell’ipotesi 2 si predica una “veridicità” della percezione. Cosa significa? Una percezione è vera solo se rappresenta l’oggetto. La veridicità però è una proprietà linguistica, ovvero, è vero ciò che, secondo un linguaggio, rispetta i principi di verità. Ma la percezione non è una questione linguistica: l’ipotesi 1 non pone la percezione come una questione sintattico/semantica ma secondo una certa catena causale.

La domanda è questa: l’ipotesi 2 pone una distinzione tra percezione “vera” e “falsa” operando come se le varie percezioni fossero parti di un linguaggio. Posta l’ipotesi 1, ciò è possibile?

( A prescindere poi da tutto, non capisco perché debba porsi questo problema: se ho una allucinazione, non posso semplicemente dire che è stata prodotta dalla precedente catena di cause? Dunque non preoccuparmi di questa distinzione? )

3) Ancora in questa teoria:

Quando ho una percezione di “X”, poniamo un dado, cosa significa che di questo posso avere una immagine “adeguata”?

Il dado ha sei facce, non le posso vedere tutte e sei contemporaneamente. In che senso mi posso rappresentare l’oggetto in modo adeguato se comunque ho sott’occhio un numero limitato di possibili percezioni di quell’oggetto? In che senso “vedo-il dado” e non una parte limitata di questo?

Effettivamente, il mio problema nasce dal non capire come dalla percezione del dado ne possa seguire la sua “rappresentazione” esclusivamente a partire da ciò che vedo, dal semplice insieme di percezioni. Del dado, di volta in volta, vedo qualcosa di diverso. Eppure associo delle qualità ad una stessa cosa che ho sotto gli occhi. Dunque ho due parti nella percezione: una rassegna di qualità da un lato, e una sola cosa dall’altro. Ma come posso, stando solo ai dati percettivi, riunire queste due cose insieme ed esser poi convinto di avere di questo una “immagine adeguata”?

4) Come faccio a sapere che un robot che “vede” ed evita gli ostacoli, veda ed eviti gli ostacoli per la stessa ragione per cui io vedo ed evito gli ostacoli? In altre parole, posso anche ammettere che quel robot veda qualcosa, ciò non di meno, mi viene molto più difficile concedere che esso veda secondo principi simili ai miei e così si formi del mondo una immagine simile alla mia.

Per un problema o non esiste soluzione ( falso problema ), o esiste una soluzione, o esistono più soluzioni. Ora, perché non è possibile che esistano più modi di pervenire ad una stessa “immagine”? In questo senso, mi sembra difficilissimo dire, in qualsiasi caso, che una mia ricostruzione di un senso sia identica all’organo di senso solo perché produce lo stesso risultato.

( I comportamentisti in questo avevano semplicemente risposto che è ininfluente il modo con cui pervengo al risultato, ma ciò non è forse un evitare il problema piuttosto che risolverlo? Della serie, mi sembra, con tutto rispetto, un uovo di Colombo… )

 


[1] Logicamente, per quanto plausibile, questa è una mia invenzione ed è una citazione de “Goodfellas”, film di Martin Scorsese.

[2] Curiosamente, queste obiezioni alla filosofia, sono sollevate dalle stesse persone che credono agli oroscopi e alla scienza come alla conoscenza-dei sensi, dimostrando di avere molto approfondita conoscenza della fisica. Non solo, ma anche da persone che dovrebbero dirsi abili nell’ambito scientifico, spessissimo si sentono discorsi di questo tipo: credendo alle dimostrazioni scientifiche, cioè ritenendo che gli esperimenti siano un oggetto dei sensi e non della mente, rivendicano una maggiore “esistenza concreta” delle loro “scoperte sensazionali” rispetto a tutto quel che la loro troppo lungimirante mente è portata a non afferrare.

Un fatto poi curiosissimo è che spesso i filosofi sono accusati di essere personaggi lontani dal senso comune o di essere scettici nei confronti della scienza. Ma sono molto pochi i filosofi che avevano poca fede nella scienza e molta in quelle conoscenze strane e di poco valore, come l’alchimia, astrologia e cose del genere.

Ciò invece non si può dire degli scienziati: in moltissimi, come il grandissimo Newton, era un attento studioso di teologia e astrologia ( cose che, se fosse stato un filosofo, gli avrebbe causato derisioni e ilarità nel troppo progredito cervello di taluni pensatori di oggi ) ma molti si dimenticano di questa “nota negativa”, quando lo devono lodare, mentre la prima cosa che di Leibniz si dice fu che si sbagliò intorno a diverse questioni scientifiche o viene preso in giro quando propose l’idea che si potesse risolvere ogni problema semplicemente creando una “matematica universale”.

Tutti i libri di scienziati di “divulgazione” ( un’arte che davvero ha ben poco a che vedere con la conoscenza ) parlano dei filosofi premoderni come a dei portatori di handicap, deficienti e sprovveduti, che si arrangiavano come potevano per capire il mondo e le cose. Quando devono parlar male di qualcuno, subito usano la parola “filosofo”, quando devono connotare bene un altro, subito usano il connotato di “scientifico”. Aristotele, che a leggerlo non si può pensare che fosse un così “concreto” deficiente è quello che più è oggetti di una critica così serrata e ingiustificabile ( agli occhi della ragione che non nega gli errori ma non gli interessa enfatizzarli ) E in ciò, oltre a mostrare una scarsa conoscenza reale della storia delle idee e della storia in generale, lasciano intravedere molto bene i loro grossolani pregiudizi.

Un conto è essere sostenitori della scienza, un altro conto è voler divinizzare ciò che è terreno come tutto il resto. E qui colgo l’occasione per far notare che la grande rivoluzione tecnologica, implicata dalla scienza, è stata una cosa non voluta: causale.

Al principio, di certo, non si aveva una chiara cognizione dei potenziali scientifici, in termini di miglioramento della vita collettiva. Lo spirito era quello di capire per capire con l’idea che era giusto farlo. La conoscenza era frutto del dovere dell’uomo di fronte alla sua propria ignoranza. La consapevolezza del potenziale della scienza non era presente nei suoi fondatori come lo oggi o come lo era anche solo nell’ottocento. Infatti, che la conoscenza sia utile e utilizzabile è venuta quando già la cosa era abbastanza evidente. Non solo.

In cosa la scienza si differenzia davvero con la filosofia? Per il fatto che è più razionale, che i cervelli che la fanno sono più grandi e potenti, lungimiranti degli altri? Quando si sente il premio nobel per la medicina ( mi sembra ), scopritore del DNA, pontificare sull’esistenza delle razze, si capiscono molte cose. O come dimenticare gli studi operati sugli ebrei nei campi di concentramento, con la giustificazione del “in nome della scienza” ( come in altro momento sarebbe stato in nome di Dio! ), o piuttosto di come il più grande scienziato del secolo scorso abbia aborrito se stesso quando vide gli effetti della bomba A?

La realtà è questa: che i pregiudizi e le deficienze, annidate come sono nell’animo umano, non sono certo poco diffuse anche tra i nostri migliori scienziati che, molto attenti alle cose fuori di noi, non lo sono allo stesso modo per le cose dentro di noi ( etica e conoscenza della natura umana come umana, non come oggetto… ).

La differenza sostanziale tra scienza e filosofia ( poniamo ) sta che la scienza richiede, per la conoscenza del mondo, un alta quantità di tecnologia: è nella stessa analisi scientifica che è richiesto l’uso di invenzioni che, poi, possono trovare anche un uso pratico. Da sempre si è posto il problema dei nostri sensi: la scienza richiede più precisione e maggiore potenza: ecco da dove la ragione della tecnologia. Ma tale uso massiccio di strumentazione sofisticata al di fuori dell’ambito scientifico è certamente successivo al fatto che, nel momento, lo strumento è un accessorio utile per l’indagine del mondo. In questo fatto, apparentemente banale, sta tutta la differenza tra scienza e altre forme di conoscenze.

Tutto quel che si dice intorno al fatto che noi siamo debitori alla scienza è vero, ma deve essere chiaro che molte cose sono un fatto non voluto e le conseguenze pratiche che la scienza ha provocato sono state fondamentali, certamente, ma non sono state programmate. Non sarò certo io, che godo di tutte le più grandi invenzioni dovute alla conoscenza fisica del mondo, a negare il volare e l’importanza della conoscenza scientifica. Ma ne nego intanto il pregiudizio di “purezza da ogni pregiudizio”, in secondo luogo, ne nego l’assoluta “astoricità” così come nego che sia l’unica forma di conoscenza.

Leggevo un buon libro di divulgazione dove veniva vantata la genialità di Newton e di Bernoulli ( Daniel, per carità! ): l’uno ha fatto sì che siamo andati sulla luna, l’altro che voliamo costantemente con mezzi che non cadono a terra ogni giorno. Il fatto è questo: né Newton né Bernoulli avevano minimamente immaginato quelle conseguenze. I due scienziati hanno conosciuto e studiato solo perché volevano capire, poi, che abbiamo aiutato all’invenzione di nuove tecnologie, è tutto un altro paio di maniche. E tra l’altro, in questo, in questo piacere per la conoscenza disinteressata, ravviso molta più intelligenza che non nell’eventuale “finalismo” conoscitivo dei due scienziati.

E si faccia pure caso a un chiaro dato storico: che le grandi munificenze della tecnologia, creduta come panacea universale, non sono che un risultato recentissimo. Prima del 1950, di avantieri, insomma, si viveva quasi dovunque in occidente, come si viveva nell’antica Grecia o poco meglio. E ancora adesso, in gran parte di quei paesi che hanno la bomba H non si vive in modo molto diverso ( a parte per il come si ammazza la gente ) che in quell’avantieri che ci sembra così lontano nel tempo e nello spazio.

Così, facciamo bene attenzione quando si parla di beni assoluti, e prima di detrarre povere, scalcinate plurimillenarie conoscenze per osannare qualche cos’altro. Si rifletta bene sulle proprie parole, prima di scrivere delle pregiudiziali superficialità che, per la loro semplicità, vengono anche credute più vere di altre. Le scemenze, dette da me o da uno scienziato, sempre scemenze sono.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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