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Renato Cartesio – Vita e le Meditazioni Metafisiche

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Vita

Nel bruno seicento si insinuava una mente geniale, grande mente, più che un bel corpo. Probabilmente la strada era segnata tanto dalla storia quanto dalla sua vita personale: Cartesio nasce a La Haye in Turenna nel 1596. Non era ancora il periodo della rivoluzione francese, ma esistevano già i parlamenti in Francia. I parlamenti erano degli organi differenti da quelli coi quali noi usualmente indichiamo le assemblee col potere di promulgare leggi. I parlamenti francesi erano organi dediti alla gestione delle tasse e ne esisteva uno per regione. Essi erano offici pubblici accessibili esclusivamente a coloro che avevano un titolo nobiliare. Infatti, solamente dopo qualche tempo, s’iniziò a vendere le cariche pubbliche consentendo una certa, seppure molto parziale, mobilità sociale.

Ad ogni modo, il padre di Cartesio, Joachim Descartes, era un parlamentare e svolgeva la sua carica nel mentre che il figlio iniziava i suoi studi al liceo dei gesuiti di La Fleches, dove rimarrà fino al 1613.

I gesuiti, figli primogeniti della controriforma cattolica, erano un ordine giovane ma con una vitalità straordinaria. Da subito si impegnarono nell’importante ruolo di educatori della classe dirigente e in ciò furono tanto fedeli alla romana chiesa quanto al paese in cui si trovavano. Di fatti, la religione cattolica ha sempre saputo sin dal vangelo che si può benissimo amputare una mano, ma certamente non la testa. Così, dopo lo sconquassamento in Europa, dovuto a quel rivoluzionario religioso che fu Martin Lutero, bisognava prendersi le dovute precauzioni. E i gesuiti furono: dall’ingegnosa immaginazione di un guerriero devoto, Sant’Ignazio di Loiola, del quale ci sono scritti che denunciano una certa propensione al fanatismo, l’ordine si fondò a partire dalla regola della preghiera e l’assoluto asservimento al papa e aveva come compito, appunto, quello dell’educazione. I gesuiti furono rinomati maestri ovunque e si impegnarono più di tutti nella caccia ai territori dominati dagli “eretici” protestanti. Giocavano a risiko con i territori non di maggioranza cattolica e facevano le loro avanzate non certo con tiri di dado ma con tiri educativi.

Il caso della Francia fu esemplare in questo senso: dopo un secolo di scontri furibondi nei quali il più famoso, non il più significativo, fu quello della notte di san Bartolomeo, la Francia fu ricondotta alla ragione di una sola e unica fede, credas ut intelligas, diceva qualcuno. Infatti la Francia sino alla metà del regno di Luigi XIV era divisa tra cattolici e calvinisti, più qualche altro ereticuccio qua e là, poco importante solo per il numero… Le politiche dei vari re, sin dalla guerra dei tre Enrichi, erano state a sfavore della fazione più debole solo perché meno numerosa ( un paio di milioni su venti ): i calvinisti. La fine, come Dio volle, arrivò finalmente dopo la campagna militare di Luigi XIV che distrusse anche l’ultima roccaforte del potere calvinista e fece esiliare più di duecentomila ugonotti.

Ma il clima del periodo è abbastanza noto e la Francia era un grande paese, il più grande d’Europa: così dove c’è grandezza c’è anche la speranza che venga fuori anche qualcosa di buono per il resto dell’umanità. E Cartesio incomincia i suoi studi proprio nel clima gesuitico e del suo secolo. In questo senso, non si può proprio negare che fu figlio dei suoi tempi.

La politica di Richelieu mirava a eliminare quello “stato nello stato” ( espressione coniata proprio da lui ) che erano i calvinisti. D’altra parte, anche nel resto d’Europa la situazione era molto tesa sia all’interno degli stati che tra gli stati stessi. Gli stati stavano infatti iniziando quella riorganizzazione delle forze che arriverà a toccare tutte le piccolezze della vita quotidiana degli individui. Ma questa riorganizzazione doveva prima passare tanto per le forze sociali e ridurle, per semplificarle, e tanto per la mentalità. Così, i risultati più tangibili di questo sforzo erano, non a caso, in questo periodo da ricercare proprio in quelle istituzioni dove non c’erano grosse opposizioni: nella chiesa cattolica. I gesuiti erano proprio un ordine fondato sulla disciplina e sulla omologazione precisa ad un complesso di regole che, oggi, chiameremo “la causa della normalità”.

Il nostro Cartesio, nel mentre che tutti questi eventi storici facevano il loro corso, studiava tutti quegli elementi che invece seguono una sorta di storia parallela, o, secondo alcuni, non ne seguono affatto. Forse è anche per questa sua applicazione nello studio di cose eterne che il suo pensiero risulta ancora così fresco e godibile come pochi d’altri. Gli studi dai gesuiti furono intensi e precisi: quattro anni di grammatica, un paio di retorica e due di filosofia. La filosofia era chiaramente, in sostanza, la filosofia scolastica. E forse fu proprio perché la sua epoca vedeva “stati negli stati” che Cartesio arrivò a concepire la filosofia aristotelica ( allungata da elementi cristiani ) come uno “stato nello stato” della conoscenza.

Finiti gli studi gesuitici nel 1613 fu la volta dell’università. Si recò ad una città simbolo del cattolicesimo e della Francia, probabilmente per tutti coloro che non sono francesi: Poitiers. In quella stessa città nei cui pressi la leggenda vuole che la spinta araba si concluse drammaticamente a favore dei popoli cristiani grazie a Carlo Martello, Cartesio compie studi di diritto. Nominato baccelliere, fu licenziato in diritto nel 1616.

A questo punto è probabile che da un filosofo così amante della precisione e della coerenza, ci si aspetti che, ultimati gli studi proprio in diritto, proprio in ciò che è richiesto per le cariche pubbliche, si accontentasse di una vita tranquilla in qualche posticino comodo offerto dalla sua prestigiosa condizione sociale. Oppure qualcuno avrà pensato che si sarà ritirato in una soffitta piena di libri e polvere a leggere e scrivere. E invece no, perché oltre che amante del movimento del pensiero, evidentemente, fu anche amante degli spostamenti e di una certa vita attiva: si arruola nell’esercito di Maurizio di Nassau nel 1618, data di inizio della guerra dei trent’anni.

La guerra dei trent’anni fu un evento paragonabile ad una guerra mondiale, per l’Europa dell’epoca: gli stati furono tutti impegnati in un feroce massacro. Dopo che la Boemia e la Germania, o meglio, quel coacervo di domini feudali che era l’Impero, avevano smosso le acque con qualche defenestrazione e qualche massacro, tutta l’Europa decise di lanciarsi in spedizioni più o meno ragionevoli nel territorio sgombro da un potere politico serio e da una seria opposizione sociale. E non dobbiamo dimenticarci quanto le questioni religiose fossero un punto caldo nella politica estera e interna degli stati e della stessa chiesa romana. Così furono anni di massacri religiosi e non. Ci vollero, appunto, trent’anni di distruzione, dalla quale diversi paesi d’Europa ne uscirono del tutto devastati, per far cessare i conflitti religiosi tra le varie nazioni europee. E in effetti si può proprio dire che il collante dell’Europa, più che la religione cattolica o, in generale, cristiana, fu piuttosto il caldo e appiccicosiccio sangue di tutti gli uomini di religione e, soprattutto, non solo, morti in nome della fede o del denaro o, forse, in nome di qualche loro personale morale.

Da parte sua, Cartesio doveva aver pensato che combattere fosse una cosa bella ma sino ad un certo punto, in quanto divideva se stesso tra mente e corpo: la prima era dedita a riflettere e sognare nuove scienze, l’altro si impegnava nella lotta armata. Così egli fu uno spirito combattivo tanto nella filosofia, con cui doveva scontrarsi in modo decisivo con l’aristotelismo imperante, tanto nella vita delle armi.

Ma dopo qualche tempo, si rese conto che, forse, era meglio andare a controllare che i suoi patrimoni fossero a posto e così, nel 1622, ritorna nella sua casa natia per definire con certezza le questioni inerenti al suo patrimonio.

Non era tuttavia uno di quegli spiriti sedentari tipici di altre zone: si sa, per esempio, che Kant non si spostò che per poche miglia dalla sua Konigsberg. Ma Cartesio preferiva viaggiare e così si recò in Italia per qualche anno ( 1623-1625 ). Dopo aver trovato il tempo per ritornare a Parigi e parlare con qualche suo confidente illustre, si stabilisce stabilmente in Olanda, nel 1629 e lì vi rimarrà per una ventina d’anni, sino a quando, nel 1649, su richiesta della regina di Svezia, si reca a Stoccolma.

Ma Cartesio era un uomo schivo e riservato, aveva giustamente il gusto della solitudine e della compagnia sceltissima. Sicuramente oggi sarebbe stato un solitario a scapito di tutti quelli che vedono nell’asocialità un difetto. Egli era di gusti difficili e aveva sicuramente un pubblico altrettanto scelto. Le stesse Meditazioni Metafisiche, un testo grandioso di portata universale, non le fece che uscire prima come testo per pochi intimi, per soli dotti e dotti scelti, e solo dopo come pubblicazione filosofica.

Imparò anche a proprie spese come non ci sia nulla di tanto relativo che i vari costumi sociali tra popoli diversi. Forse non rifletté abbastanza sul clima, perché l’essenza matematica delle realtà coinvolte nella sua definizione sono probabilmente troppe per essere comprese dalla mente finita di cui Cartesio diceva di essere dotato, inoltre è improbabile che egli si mise anche a riflettere sulla sua condizione fisica particolare.

Fu così che morì a Stoccolma solo dopo un annetto scarso che era accorso ai richiami della regina. Nonostante si sapesse che spesso ricevesse dentro una stufa la svedese poco avveduta di filosofia, il suo cuore smise di battere, i suoi nervi di tendersi e la parte del cervello in relazione con la mente di comunicare, una volta per sempre. E tuttavia ancora io penso, dunque esisto.

Dossografia essenziale

Data Evento
1596 Nasce a La Hye, in Turenna. La famiglia è di piccola nobiltà. Un anno dopo la nascita muore la madre.
1607-1616 Compie l’intero corso di studi al liceo dei gesuiti a La Fleches.
1616 Consegue il diploma di diritto all’università di Poiteiers.
1618-1619 Soggiorna in Olanda e si arruola nell’esercito di Maurizio di Nassau. Incontra Isaac Beeckman, un fisico che lo stimolerà agli studi della “nuova scienza”.
1619-1620 Viaggia per l’Europa durante la guerra dei trent’anni. Cambia anche esercito e si arruola nelle milizie di Massimiliano di Baviera. Nella notte tra il 10 e 11 novembre del 1619 racconterà di avere avuto dei sogni che lo indirizzeranno verso una maggiore consapevolezza del suo ruolo nella storia della conoscenza.
1623-1625 Torna prima in Francia e poi viaggia per l’Italia.
1625-1628 Tornato in Francia, frequenta il circolo di intellettuali riuniti attorno alla figura di padre Martin Mersenne, un gesuita che sarà molto caro a Cartesio. E’ in questo periodo che Cartesio “scopre” la geometria analitica.
1628 Si trasferisce definitivamente in Olanda.
1633 Avuta la notizia della condanna di Galileo, decide di non pubblicare “Il mondo”, già in via di conclusione.
1643 Inizia la corrispondenza con la principessa Elisabetta del Palatinato.
1645 Il magistrato di Utrecht vieta la pubblicazione di scritti pro o contro Cartesio. Le polemiche non si fermeranno a Utrecht.
1649 Si trasferisce a Stoccolma, presso la corte reale, cedendo alle insistenze della regina Cristina.
1650 Muore di polmonite.
1663 Le sue opere sono inserite nell’Indice dei libri proibiti.

Opere

Regulae ad directionem ingenii ( 1627-1628 ) –incompiuto-.

Il mondo o trattato della luce e dell’uomo ( 1630-1633 ).

Discorso sul metodo ( 1637 ).

La ricerca della verità –incompiuto-.

Meditazioni Metafisiche –in latino- ( 1641 ).

Principi di filosofia ( 1644 ).

Meditazioni Metafisiche –in francese- ( 1647 ).

Le passioni dell’anima ( 1649 ).

Ricostruzione delle Meditazioni Metafisiche a partire da ( piccoli passi del ) le “Meditazioni Metafisiche”.

 

Tutte le parti delle meditazioni sono tratti da

“Meditazioni metafisiche”, Descartes R., tradotte da Landucci S., editori Laterza ( puoi vedere anche i riferimenti sotto ).

Meditazione I. Di che cosa si debba dubitare

Schema prima meditazione.

  1. Io ho una serie di vecchie opinioni che prendo per vere pur non avendo di esse alcuna sicurezza.
  2. Il fine di tutte le meditazioni è espresso sin dalla prima: pervenire alla definizione di una verità certa.
  3. Uno dei criteri della verità è l’indubitabilità: tutto ciò che è vero è indubitabile mentre quel che è dubitabile può essere tanto vero che falso. Così, per il momento, prendo come affermazione metodologica che una affermazione è vera se e solo se è indubitabile ed è falso tutto il resto.
  4. Enunciazione di tutti i dubbi intorno alle mie opinioni:
    1. I sensi spesso mi ingannano.
  1.                                                               i.      I sensi mi mostrano delle immagini delle cose. Di essi posso benissimo dubitare in quanto ciò che spesso stimo grande da lontano, si dimostra poi enorme da vicino. Dunque la conoscenza delle cose che mi viene dai sensi è dubbia, così, a partire dall’affermazione metodologica ( è vero solo ciò che è indubitabile ) devo inferire che la conoscenza dei sensi è falsa.
  2.                                                               i.      Posso benissimo concedere che le immagini a partire dai sensi sono dubbie, dunque al di fuori del vero. E tuttavia potrei dire che le cose che vedo esistono: infatti seppure mi sbaglio sulla loro realtà, posso affermare che esse esistono.
  3.                                                             ii.      Tuttavia se posso affermare che esse esistono non potrei dubitarne: ma si dal caso che non esista criterio certo per distinguere la veglia dal sonno. Ciò comporta che se vedo una cosa non posso dire che di certo essa esista perché io spesso quando sogno vedo cose che poi non ci sono. Dunque se non posso dire che ciò che contemplo con l’immaginazione esiste al di fuori di ogni ragionevole dubbio, allora non posso dire che esso è fuori di dubbio. In ultima analisi, l’esistenza delle cose che vedo fuori di me è dubbia e devo quindi considerarla come una conoscenza falsa ( apparente, per il momento ).
  4.                                                           iii.      C’è anche un altro dubbio insinuato, ma subito negato, l’unico eliminato in questa meditazione. E’ il dubbio di essere dei folli che vedono cose che non ci sono. Cartesio scarta la possibilità in quanto egli ritiene che tali pazzi siano privi di intelletto, ovvero di facoltà conoscitiva. Se fossimo privi di intelletto, dunque privi di ragione, dei pazzi, insomma, non saremmo davvero in grado di pervenire ad alcuna verità. E l’unica cosa che noi potremmo seguire è l’immaginazione e la sensibilità. Ma questo “modello” deve essere scartato in quanto non posso certo prendere come regola ciò che è un’eccezione.
  5.                                                               i.      Infatti, posso dire che, nonostante ciò che percepisca come particolare spesso mi inganni, come mi posso ingannare su ciò che penso come esistente e in realtà non lo è, posso però dire che se non altro possono esistere superfici, colori e forme, ovvero posso comunque ammettere che esistono le proprietà dei corpi intese in generale.
    1. Pensiamo a quando sogniamo: io vedo una serie di forme e colori così che seppure non posso dire che gli oggetti esistano, posso però dire che esistono i colori e l’estensione.
  6.                                                             ii.      Eppure anche di questo posso benissimo dubitare. Se penso infatti che può esistere un genio maligno che mi inganna ogni qual voltaal di fuori di ogni ragionevole dubbio, allora non posso dire che esso è fuori di dubbio. , in ultigno vedo cose che poi non ci io vedo, sento, percepisco qualcosa in generale. Dunque anche quando penso ai colori e alle estensioni posso dubitare. Devo inferirne che anche quando concepisca gli oggetti secondo le loro proprietà più generali non posso dire che sia una conoscenza indubitabile e per il momento la prenderò per falsa.
  7.                                                               i.      Infatti quando sommo due al tre e ottengo il cinque, compio un’operazione che, se è vera, è vera sia che sogni o che sia veglio.
  8.                                                             ii.      Ma non posso avere nemmeno di ciò certezza: infatti può benissimo esistere un Dio che mi ha fatto in modo tale che, dalla sola mia definizione ( natura in Cartesio ), mi inganni sistematicamente. In questo modo anche sulle operazioni matematiche non posso dirmi tutelato dal dubbio.
  9.                                                           iii.      A chi volesse obiettare che Dio, in quanto è buono, non può ingannarmi, rispondiamo che dalla sola bontà divina non può discendere la sua veracità: posso benissimo pensare che Dio, un Dio che può tutto, a fin di bene mi inganni ogni volta percepisca, esperisca e rifletta.
  10.                                                           iv.      In ultima analisi, tutto ciò che perviene dai sensi, sia direttamente che indirettamente è da considerarsi dubbio e, dunque, falso.
    1. Non sono in grado di distinguere il sogno dalla veglia.
    1. Un genio maligno che mi inganni ogni qual volta percepisco qualcosa.
    1. Un Dio può ingannarmi ogni qual volta compio operazioni matematiche.
Oggetto del dubbio Facoltà dalla quale traggo l’oggetto del dubbio. Ragione del dubbio.

Particolari

Sensibilità

La sensibilità tal volta mi inganna.

Oggetti corporei ( fuori di me )

Immaginazione

Non sono in grado di distinguere il sogno dalla veglia.

Colori e superfici

Astrazione intellettuale.

Può esistere un genio maligno che mi inganni ogni qual volta io creda di vedere colori e superfici prese in generale.

Estensione, quantità, ovvero matematica e geometria.

Intelletto.

E’ radicata in me una vecchia opinione: che c’è un Dio che può tutto e che può anche ingannarmi ogni qualvolta sommo il due al tre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Meditazione I.

Passi fondamentali.

 

Dichiarazione metodologica: il dubbio come criterio di selezione del vero e del falso.

« La ragione ci persuade che a quanto non sia del tutto certo e indubitabile si deve rifiutare l’assenso non meno che a quanto è manifestatamene falso, per respingere tutte quelle vecchie opinioni  sarà sufficiente che per ognuna di esse io trovi una ragione di metterla in dubbio ». P 27 ( corsivo mio ).

Il primo dubbio: sull’inganno dei sensi.

« Ordunque, finora ho ammesso come vero, anzi come vero per eccellenza, tutto quel che ho ricevuto o dai sensi o per mezzo dei sensi. Mi sono però anche reso conto che talora essi ingannano; e prudenza vuole che non ci si fidi mai del tutto di chi ci abbia ingannati anche solo una volta ».

P. 29. ( Corsivo mio ).

N.B: ciò che è ricevuto direttamente dai sensi sono le singole sensazioni, dalle quali ci costruiamo poi delle immagini. Ma ciò che è “per mezzo dei sensi” è l’immaginazione, ovvero la facoltà di costruire nuove immagini a partire da sensazioni prese dai sensi e conservate dalla memoria. In quanto le percezioni devono passare per forza dalla sensibilità, ecco perché il “per”.

Il dubbio messo tra parentesi: se io fossi pazzo…

« E per nessuna ragione si potrebbe mai negare che esistano davvero le mie mani, e tutt’intero questo corpo che è mio, a meno che io non mi consideri simile a certi pazzi che hanno il cervello così sconvolto (…) da sostenere fermamente di essere dei re, mentre sono dei poveracci. (…) Ma costoro sono fuori di senno, e non mi sembrerebbe di esserlo di meno se mai li prendessi ad esempio per concepire me stesso ».

P. 29.

Il secondo dubbio: il dubbio sull’esistenza delle cose esterne.

« Come se non fossi un uomo, e, quando di notte dormo, nei sogni non mi venissero le stesse fantasie che a quei dementi quando sono desti, e talora anche più inverosimili! In effetti, quanto mai spesso nel riposo notturno mi persuado di quel che mi è abituale, e cioè appunto che sono qui, in vestaglia, seduto accanto al fuoco, mente invece sono svestito e disteso sotto le coperte.

Però –si insisterà- è di certo con occhi ben svegli che ora guardo questo foglio (…) niente di così distinto potrebbe mai accadere a chi dorma (…)

Ma davvero? (…) Così, riflettendoci (…) non è mai dato di distinguere la veglia dal sonno con criteri certi, [ tanto ] da rimaner[n]e attonito; e proprio questo stupore mi porta quasi a credere di star sognando anche ora ».

Pp. 29-31. Corsivo mio.

Terzo dubbio e quarto dubbio: genio maligno e Dio ingannatore.

« Tuttavia si deve ben riconoscere che quanto si vede nei sogni è simile a delle immagini pittoriche (…) così non saranno immaginarie, ma esisteranno per davvero, almeno delle entità come occhi, testa, mani e l’intero corpo, presi in generale. (…) … devono essere veri, di sicuro, almeno i colori con i quali lo rappresentano; e analogamente –anche nel caso che fossero immaginari enti come occhi, testa, mani e simili, pur se presi in generale- tuttavia non si può non riconoscere che allora sarebbe vero anche qualcos’altro, ancor più semplice e universale, da cui (…) sarebbero formate tutte quelle immagini di cose che –vere o false che siano, tali immagini- si trovano nel nostro pensiero. Di tal genere appaiono essere, in effetti, la natura corporea, considerata in generale, e l’estensione di essa; la figura di quel che è esteso; la quantità, ossia la grandezza e il numero delle cose estese; il luogo in cui esse si trovano; il tempo in cui durano, e così via. (…) … [ qualcosa di ] indubitabile l’hanno l’aritmetica, la geometria e le altre discipline di questo genere (…). In effetti, tanto che io sia desto quanto che dorma, la somma di 2 e 3 sarà sempre 5, e il quadrato non avrà più di quattro lati… (…).

E tuttavia nella mia mente è radicata una vecchia opinione: che c’è un Dio, che può tutto, e che da lui io sono creato quale ora esisto; e, allora, come posso sapere se egli non mi abbia fatto in modo che non ci siano affatto terra, cielo, cose estese, figure, grandezze, luoghi, e non di meno, tutte queste cose mi sembrino esistere non diversamente da come mi sembrano ora? (…) come posso sapere se Dio non abbia fatto in modo che anch’io mi inganni ogni qual volta che sommo 2 e 3, o conto i lati di un quadrato, o , se si riesca a immaginarlo, in qualcosa di ancor più facile? ».

Pp. 31-33. ( Corsivo mio ).

N.B. In questo passo non vi è fatto cenno al genio maligno, ma è colui che può ingannarmi sui colori e sulle figure prese in generale. Solo Dio, in quanto il mio creatore, può avermi fatto in modo tale che mi inganni quando sommo due e tre. Infatti la matematica e la geometria, che per Cartesio sono interfacciate ( si ricordi la natura della geometria analitica cartesiana… ), scaturiscono direttamente dalla mia mente, senza che esse siano dedotte da altro che da idee innate. La matematica e la geometria non nascono per astrazione. In questo senso, il genio maligno, essere di gran lunga più potente di me, può sì ingannarmi che il colore e l’estensione delle cose sia, quando invece non è, ma non può assolutamente ingannarmi sulle verità logiche e matematiche. Ma Dio sì. Così per la concezione del genio maligno, si veda l’esplicitazione che Cartesio da più avanti: « Supporrò che, anziché un Dio ottimo, fonte di verità, vi sia un genio malvagio, che, sommamente potente e astuto, ce la metta tutta per ingannarmi. Riterrò quindi che cielo, aria, terra, colori, figure, suoni e tutto il resto di esterno a me non siano che illusioni oniriche con cui quel genio tenda trappole alla mia credulità; considererà me steso come se non avessi mani, occhi, carne, sangue né alcun senso, e quindi falsa l’opinione di avere queste cose ».

 

Riassunto discorsivo.

La prima meditazione si apre con la dichiarazione dell’esistenza di vecchie opinioni, chiaramente inadeguate ma mai dimostrate realmente false. Il fatto stesso che io non sono in grado di indicare la ragione della loro falsità, indica che le prenda ancora per vere, in questo senso però, data la natura della conoscenza, devo accertarmi se quelle sono effettivamente da credere o no, se siano degne di fiducia o meno.

La prima domanda è: come faccio a distinguere una conoscenza certa, da una che è semplicemente possibile? Il certo[1] è ciò che è necessario, che deve essere e non può essere che non sia, in altre parole, che non può in alcun modo esser falso. In questo senso, tutto ciò che è indubitabile è vero, mentre quel che è dubitabile può essere tanto vero quanto falso. Il dubbio infatti è un’asserzione di possibilità sulla realtà, tanto definitoria quanto presenziale, di una cosa: una cosa può esistere o no, può essere fatta o no in un certo modo, può avere proprietà e non averle e così via.

Cartesio opera una scelta radicale: se ciò che è dubbio è semplicemente possibile, se sono sicuro che una cosa è vera quando non può essere che non sia, allora prendo per falso tutto ciò di cui si può ragionevolmente dubitare. Il dubbio è ragionevole se e solo se posta l’affermazione di cui si intende dubitare, se ne pone un’altra, di per sé altrettanto possibile, che nega l’affermazione. Il dubbio pone quindi un interrogativo: una cosa è possibile, dunque può essere e non essere ma non possono essere le due possibilità contemporaneamente. Insomma, il dubbio pone il problema della contraddittorietà di una cosa e così se essa risulta essere contraddittoria è falsa, se non lo è, è vera. E così siamo arrivati alla definizione del metodo: ciò che è al di fuori di ogni ragionevole dubbio è senz’altro vero, ciò che è dubitabile non lo posso quanto meno affermare con certezza.

Cartesio semplifica così il problema riconducendo alla sola indubitabilità la certezza. Egli infatti non manca mai di sottolineare che gran parte delle cose di cui ho un’opinione non è detto che siano false, anzi, che esse siano altamente probabili. Ma sulla probabilità non si costruiscono certezze, anche perché spesso, poi, accadono cose che appaiono quanto mai improbabili.

Cartesio ha in mente la filosofia e la fisica aristotelica, una fisica non matematizzata e descrittiva. Cartesio invece ha una visione molto più moderna e precisa della fisica e si rende conto che essa può aspirare alla verità, assimilabile a quella della matematica e della geometria, se si arriva a dimostrare che essa si fonda su cose al di fuori di ogni dubbio. La fisica diventa così il vero scopo della metafisica cartesiana, scopo e fine anche nel senso letterale: perché ci vorranno ben sei meditazioni per giungere alla definizione della conoscenza dei corpi esterni.

Cartesio ha un’idea molto chiara sulla fisica: che essa non si può fondare in alcun modo sui sensi. In alcun modo perché nessuna conoscenza, diretta e indiretta dei sensi, può essere al di fuori di dubbio. Si deve tenere presente però che il paradigma aristotelico era dominante e, appunto, concepiva tutta la conoscenza definita dalla sensibilità, direttamente o indirettamente. Insomma, l’aristotelismo era una forma di empirismo.

Prima di tutto la conoscenza perviene attraverso gli organi di senso che ricevono i dati sensibili. In un secondo momento quelle immagini vengono conservate dalla memoria. Siccome mi faccio molte immagini ed è una delle proprietà della parte della mente quella di poter associare o dissociare immagini, a partire da quelle posso creare nuove immagini, alcune di cose realmente esistenti, altre di cose del tutto inesistenti. Da queste posso poi astrarre alcune proprietà generali, come l’estensione, la grandezza, il colore e le figure, insomma, quelle definizioni tipicamente della geometria e della matematica. In fine abbiamo i numeri e la descrizione delle grandezze secondo dei principi logici.

Questa è, in gran parte, la concezione della conoscenza del mondo tanto aristotelica che, di riflesso, della scolastica. Tutto viene dai sensi, tutto, comprese le verità matematiche. E queste verità sono, per altro, predicate solo della matematica. La matematica ha una logica sua, che non ha corrispettivi nel mondo esterno, ed anzi è appunto indotta da quello.

La fisica aristotelica era descrittiva e la descrizione avveniva attraverso l’attribuzione agli eventi delle quattro cause, tutte contemporaneamente presenti: causa materiale, causa efficiente, causa formale e causa finale.

La causa materiale era la ragione per cui un corpo era fatto di quello che era fatto. Il bronzo è una lega di stagno e rame così che lo stagno e il rame sono la causa materiale del bronzo. Ogni cosa, ogni singola cosa, è una sostanza a sé, ovvero, un sostantivo al quale si attribuiscono una serie di predicati. Una sostanza reale si definisce così a partire dai suoi attributi.

La causa efficiente è l’antecedente causale di un evento: una palla di biliardo si muove perché ce n’era un’altra che, scontrandosi con quella, ne ha trasmesso il moto. Tutto ciò che si muove, ha una causa efficiente ( “che fa-fare” ) che lo produce e senza causa efficiente non c’è nemmeno lo spostamento.

La causa formale è la ragione per cui da una serie di postulati scaturiscono poi i teoremi. Che un triangolo rettangolo abbia l’ipotenusa lunga come la somma dei quadrati dei cateti sotto radice quadrata, è una inferenza scaturita da delle premesse. Senza premesse ( cause formali ) non ci sarebbe alcuna conseguenza.

La causa finale è ciò in vista di cui una cosa agisce. Ogni cosa, secondo questa causa, tende naturalmente a compiere un fine, che sia quello semplicemente di tendere a ciò che è la natura della cosa stessa, piuttosto che di indirizzarsi verso qualcosa è lo stesso. Per esempio, la causa finale di una pietra è quello di tendere ad andare verso la terra in quanto la sua natura è costituita dalla terra. Allo stesso modo, il fine di un seme è quello di diventare una pianta e così quello del filosofo di riflettere e così via. Ma bisogna anche tener presente che questo “finalismo” aristotelico non è solo inteso come “ciò in vista di cui…” una cosa o non fa una certa cosa. Il fine infatti coincide col meglio: una pianta tende al massimo bene per la pianta, la pietra al massimo bene per la pietra e così via. Ed è in ciò, molto di più che nella tendenza allo svolgimento, che si può trovare una forma di antropomorfismo nella fisica aristotelica. Aristotele stesso non negava la possibilità di una descrizione esclusivamente meccanicista di un fenomeno, ma, e questo è importante, esso non esauriva tutto il problema: in questo modo è difficile, per esempio, arrivare alla descrizione di un seme se non si dice che esso è una pianta in potenza. E si tenga presente che ancora oggi nella biologia le descrizioni anatomiche, ma anche cellulari, sono del tutto impensabili senza la descrizione funzionale: e la funzionalità è proprio la definizione di ciò che è fatto in vista di cui… Ma quel che Aristotele fece era, appunto, qualcosa di più: unire lo scopo alla fine. Infatti, sarebbe bastato che egli si fosse limitato all’esposizione della fine, come finalità, che difficilmente si sarebbe avuto molto da dire, al limite che la conoscenza del fine segue sempre quella del meccanismo. Ma il fatto fu quello di unire la finalità ad uno scopo positivo. In questa concezione ogni singola cosa ha una causa finale.

Cartesio conosceva bene tanto la concezione aristotelica di come arriviamo a farci un’idea del mondo, sia di come il mondo vada descritto. Da un lato c’era il mondo, da un altro c’era il pensiero astratto. Dunque, se le cose stavano così, il pensiero “puro a priori” non sarebbe mai giunto alla conoscenza del vero delle cose, ma solo dalle cose sarebbe potuta pervenire. Cartesio rovescerà questa concezione. Per farlo tuttavia deve mostrare che ciò da cui traiamo la vera conoscenza non sono i sensi. Ma non trascurerà manco di eliminare un paio di cause dall’elenco di Aristotele e lo farà in modo molto astuto, ma non andiamo troppo oltre.

La prima cosa da fare è sottoporre il paradigma aristotelico al dubbio sistematico: tanto, se è davvero padre di una conoscenza certa, non avrà nulla da temere. La conoscenza delle cose viene dai sensi, e siccome questi mi mostrano le cose con una straordinaria limpidezza, mi rendo subito conto che a tale limpidezza deve essere predicata verità. Eppure spessissimo io mi inganno proprio su ciò che credo certo: come una cosa molto che mi appare molto piccola da lontano e che, invece, da vicino è enorme. Basti pensare alla visione delle cose che si può avere dall’aereo quando si decolla.

Come non mi posso fidare di chi mi ha fregato una volta, allo stesso modo non mi posso fidare più ciecamente (!) dei sensi. Ma seppure mi inganno delle percezioni singolari, devo però ammettere che esistono delle cose fuori di me: l’altro giorno mi si sono rotti gli occhiali e io, che sono miope, sono diventato una talpa. Mi guardavo intorno e vedevo un sacco di persone: seppure le vedessi male, non mi sono certo posto il dubbio se esistessero o no. Eppure, quando vado a dormire, mi sogno spesso intorno a oggetti e persone come se fossi sveglio. Devo ammettere che quando dormo sono a contatto con persone vere e oggetti reali? No di certo. Ma come faccio ad essere sicuro che, in questo momento che ascolto Mozart e batto al computer non stia a mia volta sognando? Come faccio a distinguere la veglia dal sonno? Non ho modo e dunque posso dubitare dell’esistenza delle coese esterne.

E’ vero, non so se sogno o son desto, ma che sia sveglio o no, comunque devono esistere delle figure e dei colori. Infatti sono io che li vedo e li percepisco, allo stesso modo, quando immagino le cose, riconosco delle cose in generale, delle proprietà comuni che, per quanto non siano predicabili di cose singolari, ciò non di meno esistono per me e li deduco dalle stesse percezioni, anche se false, che ho dai sensi o dall’immaginazione. Eppure, può esistere benissimo un genio maligno, molto più potente di me, che mi inganni ogni qual volta ho delle percezioni vagamente colorate e concepisca cose estese.

Si, va bene, ammetto che non sono sicuro che questo signore malvagio non esista. Ma posso benissimo dire che 2 + 2 = 4 a prescindere dal fatto che veda o senta qualcosa, dal fatto che sia sveglio o no o che esistano le cose fuori di me. Infatti la matematica è concepita per astrazione e non è predicabile delle cose reali. Ma la matematica o viene da me o viene dalle cose fuori di me, per astrazione. Se viene dalle cose fuori di me, allora è semplicemente dubitabile, dal momento che dubito di tutto ciò che viene direttamente o indirettamente dai sensi. Ma se viene da me, come faccio ad essere sicuro che Dio mi abbia fatto bene e che non mi sbagli ogni qual volta io sommi il 2 al 2? Infatti posso benissimo concedere che il mio creatore sia molto buono e provveda per me. Ma non so se egli mi ha fatto anche in modo che la mia natura sia fallace: forse, secondo i suoi fini, è conveniente che io mi sbagli ogni qual volta sommi il due al quattro e il due al due e così via.

Insomma, posso dubitare di tutto, e non ho una sola idea certa. La ricerca della certezza, della prima verità dalla quale partire, arriverà solo dalla seconda meditazione. La prima è un manifesto di scetticismo al fine di una fondazione di una scienza certa. Ma la strada da percorrere è ancora lunga, molto lunga.

 

Seconda meditazione: la mente umana, e come la si conosca meglio che i corpi

Schema generale seconda meditazione.

  1. Il fine della meditazione è quello di dimostrare che la conoscenza della mente è più accessibile e sicura di quella dei corpi.
  2. Al principio segue un breve riassunto dei dubbi posti nella prima meditazione al fine non solo di servire da promemoria, ma pure per fare il punto della situazione. A partire da quelle verità, ormai accettate dall’intelletto, bisogna far seguire una nuova e più adeguata conoscenza.
    1. I dubbi sono riassumibili a due: il primo è ciò da cui noi traiamo la nostra conoscenza, dubbio sulla nostra facoltà conoscitiva ( la sensibilità e l’immaginazione e la matematica ), il secondo è la possibilità che esistano corpi esterni.
  3. Se si riflette, si giunge alla verità indubitabile: io penso, dunque esisto.
    1. Se io penso dunque esisto. Infatti per il solo fatto che io penso, qualunque cosa, non può essere che io non sia accertata la mia esistenza. Qualsiasi atto mentale-conoscitivo implica la mia presenza giacché non si da pensiero senza soggetto e soggetto senza pensiero.
    2. Si può anche procedere in modo inverso: se io negassi che possa esistere, dunque metta in dubbio la mia stessa esistenza, ciò non di meno, ciò mi indicherebbe la mia stessa esistenza. Il dubbio infatti è un modo stesso del pensiero, è una sua forma o attitudine, un suo modo. Dunque, se io dubito allora penso, ma se penso allora sono e quindi se penso allora esisto.
    3. Se penso allora esisto è una frase condizionale dove la principale è io esisto. In questo senso, io penso è una condizione necessaria ma non sufficiente ad attestare la mia esistenza. Così solo se io penso allora posso dire di esistere e, viceversa, solo se io esisto allora penso. In questo senso, il mio pensiero è garanzia della mia esistenza.
    4. Tale ragionamento è a priori, ovvero l’asserzione “io penso” non implica in alcun modo il concorso dei sensi: io posso benissimo pensarmi anche senza un corpo, ma non posso non pensarmi. Da qui, io non posso esistere senza pensare.
  4. Io penso, io sono è una verità al di fuori di ogni dubbio.
    1. La dimostrazione per affermazione a partire anche dalla negazione ( io affermo di esistere anche nel momento in cui dubito sulla mia esistenza ) ricorda la dimostrazione aristotelica del principio di non-contraddizione: se io non voglio ammettere il principio di non-contraddizione, io mi contraddico ovvero riaffermo il principio anche dalla negazione ( se io dico non è vero il principio di non contraddizione implico già che il principio di non contraddizione o sia vero o sia falso, in altre parole, ammetto che possa sottoporre a non contraddizione il principio di contraddizione. Ma ciò non fa che riaffermare ciò che stavo negando e dunque non posso che ammettere che esso sia vero ).
    2. Io penso, io sono è una verità al di fuori di ogni ragionevole dubbio. Infatti tanto che si parta dall’affermazione che dalla negazione il risultato è lo stesso. Ma ciò significa che l’asserzione ha passato la prova del dubbio, dunque è vera.
    3. Da questa verità possiamo trarre almeno due considerazioni: la prima è sul criterio di verità negativo, il dubbio; la seconda è sulla ragionevolezza di un eventuale dubbio successivo. Il criterio di verità che Cartesio ha fino ad ora individuato ( ne proporrà anche altri due ) è uno e negativo: è vero solo ciò che non è dubbio. Tale asserzione è vincolante per tutte le verità e, vedremo, anche per tutte quelle cose che, per ora, sono state messe tra parentesi.
    4. La seconda constatazione è che, finalmente, abbiamo trovato una verità che è effettivamente al di fuori di ogni ragionevole dubbio. Essa infatti potrebbe essere rimessa in discussione o perché non mi ricordo per quale ragione sono arrivato a dimostrare la sua indubitabilità ( motivo psicologico ) oppure perché non mi sembra vera ( ma ciò non è possibile ). Dunque, quando ho eliminato il dubbio, non significa che, in assoluto, non possa poi rimettere la verità in discussione, tanto non cambierebbe il risultato, semplicemente non ha più senso indugiare sulle ragioni che hanno dimostrato la sua veracità.
  5. Il ragionamento per la definizione dell’io è del tutto opposto a quello aristotelico, e Cartesio lo mostra attraverso qualche esempio.
    1. Infatti io, nella definizione di me come cosa pensante, non ho dovuto chiedere aiuto ad alcuna cosa esterna, o che fosse in qualche modo collegata con ciò che mi appare mostrarmi cose esterne, sensibilità e immaginazione. Così la verità dell’io non è passata attraverso i sensi.
    2. Già da questo si potrebbe notare come la conoscenza dell’io, non mediata dai sensi, sia di gran lunga più chiara e distinta di quella della conoscenza a partire dai sensi, ma ciò lo si constaterà meglio più tardi.
    3. A questo punto, bisogna solo tener presente che l’“io come cosa pensante” è si una “cosa” ( res ) nel senso che è qualcosa e non un mero niente. Da ciò non va però associato all’io la necessità di un corpo: “io come cosa pensante”, “io sono una cosa pensante” non significa affatto “io sono un corpo pensante”, cosa che, al limite, Aristotele avrebbe anche potuto in una certa misura concedere. “io come cosa pensante” implica che io sono appunto identificato col mio stesso esser-pensante, ovvero col mio pensiero.
  6. A questo punto il problema sta nell’analizzare la natura della mente e constatare se in essa ci sia qualcos’altro che possa pensare chiaramente e distintamente.
  7. L’io penso è definito a partire dalle sue proprietà.
    1. Io sento e immagino, comprendo e intendo, voglio e desidero, giudico.
  1.                                                               i.      Che io possa sentire non è in dubbio, ciò che è in dubbio è che io, attraverso il mio sentire le cose, possa effettivamente dire che esse sono qualche cosa. In questo senso, non è fuori di dubbio che io abbia la facoltà di avere delle sensazioni, non che queste sensazioni mi dicano qualcosa di vero o falso.
  2.                                                             ii.      Ciò che è detto per la sensibilità, è valido per le immagini. Ciò che io vedo può essere vero o falso ma ciò non toglie che io lo vedo.
    1. Tanto per la sensibilità che per l’immaginazione, Cartesio si limita ad utilizzare, di fatto, un criterio di verità che indichi l’intersoggettività di ciò che è predicato vero. E’ vero solo ciò che è per tutti vero. Così immaginazione e sensibilità non indicano cose universalmente vere, ma sono certamente riconosciute dal soggetto quelle immagini e sensazioni.
  3.                                                           iii.      Io comprendo e intendo si devono intendere come “ciò che io penso attraverso il mio intelletto” ovvero a partire dalla ragione. Che io abbia tale facoltà è un dato di fatto: non si può nemmeno metter in dubbio ( ricordiamo il problema sulla follia ). La natura dell’intellezione è quella di discernere il vero dal falso e di riuscire a definire le cose a partire dalla loro effettiva essenza.
  4.                                                           iv.      Io voglio e desidero è l’espressione della mia volontà. La volontà è la facoltà della mente di scegliere, ovvero di optare tra una affermazione e una negazione, tra il fare e il non fare. La volontà non è una facoltà conoscitiva, essa non è interessata alla verità e ciò è mostrato dal fatto che io posso volere e desiderare cose affatto vere.
  5.                                                             v.      Il giudizio è la possibilità di asserzione o negazione di qualcosa. Solo del giudizio si può predicare verità o falsità, come si vedrà più avanti. In questo senso, la facoltà del giudicare segue sempre alla facoltà del conoscere e alla facoltà del volere giacché io giudico vero solo se intendo correttamente, e la volontà, in ciò non può far altro che acconsentire. Ma se io giudico errando allora la volontà avrà parlato a partire da una conoscenza oscura e confusa. E tuttavia si poteva anche tacere.
  6.                                                               i.      Itinerario aristotelico: io vedo una candela. Essa mi si presenta con un certo colore, al tatto sarà liscia e avrà un certo odore, quando la colpisco farà un certo rumore sordo. Poi la guardo meglio e noto che ha una certa figura e una certa superficie. Così arrivo alla sua definizione.
  7.                                                             ii.      Ma a questo punto io accendo il fuoco sulla candela ed essa progressivamente si scioglie e perde tutte quelle qualità che mi sembrava gli competessero.
  8.                                                           iii.      Come faccio a dire che quella cosa bollente, sciolta, priva di forma sia la stessa cera che poco priva contemplavo con la stessa chiarezza? Come faccio a partire dalle sole sensazioni e dalle sole immagini a dire che quelle due così apparentemente sono in realtà così diverse.
  9.                                                               i.      Dunque la sensazione è una percezione soggettiva che si attribuisce all’oggetto quando è solo il soggetto a percepirla.
  10.                                                             ii.      La sensazione non è una cosa che si possa mai predicare per vera in quanto non implica una intersoggettività né è fuori di dubbio e, per quanto sia limpida, non implica mai una chiarezza e distinzione per l’intelletto.
  11.                                                           iii.      La sensibilità non è una facoltà utile al fine della conoscenza reale degli oggetti.
  1. La definizione delle varie attività della mente è, dunque, a prescindere dalla possibilità che io stesso possa o no ingannarmi. Ciò che ho dedotto come proprietà a partire dalla mia sola natura, non possono essere dubbie, ma sono senz’altro vere.
  2. La mente è irresistibilmente portata ad asserire ciò che contempla come vero, anche se falso, ed è incapace di non asserire il vero, può invece sospendere giudizio quando una cosa non la contempla come vera.
  3. Anche a partire dalla stessa concessione alla sensibilità della sua limpidezza ( in Cartesio si usa comunque chiarezza e distinzione, come attributi della sensibilità. Io preferisco usare limpidezza per distinguere quel senso di evidenza della conoscenza –chiara e distinta- da quella falsa chiarezza che è propria della sensibilità. D’altra parte, Cartesio è molto probabile che non abbia usato una terminologia più distintiva per questioni di retorica e di scelte argomentative ), comunque non arrivo alla definizione reale degli oggetti.
    1. Prendiamo l’esempio di una candela e cerchiamo di seguire come penso, a partire dai sensi, di conoscerla.
    1. Cartesio arriva dunque a porre il problema della definizione degli oggetti anche ammettendo ( e non concedendo ) che la conoscenza effettiva delle cose mi giunga attraverso i sensi. In questo esempio, viene mostrato che ciò che io penso siano proprietà degli oggetti, non sono tuttavia proprietà essenziali degli oggetti ovvero non ne definiscono affatto la natura. Posso stare anche ora a descrivere un fiore e tutti i suoi particolari senza mai giungere ad una definizione adeguata della sua natura.
    2. A questo punto si deve notare che da una parte queste sensazioni che io ho degli oggetti, esistono. Ma devo, contemporaneamente, ammettere che tali sensazioni non riescono a farmi pervenire alla definizione adeguata delle cose.
  1. Cartesio riassume le conoscenze fino ad ora acquisite:
    1. Io penso, io esisto.
    2. Io sento, immagino, intendo e voglio, giudico.

Meditazione II.

Passi fondamentali.

Ripresa dei singoli dubbi.

« Dopo la meditazione di ieri sono in preda a tanti dubbi, di cui non posso più scordarmi, e non ho idea se ci sia mai modo di risolverli. Ne sono sconcertato, come se, caduto all’improvviso in un gorgo profondo, non mi riuscisse né di poggiare il piede sul fondo né di risalire alla superficie ».

P. 39.

Dal dubbio alla definizione dell’Io penso.

« Suppongo dunque che tutto quel che vedo ora sia falso, e anche la memoria mi inganni, ossia che non sia mai esistito niente di quel che essa mi rappresenta; e cioè suppongo di non avere affatto i sensi, e che siano chimere il corpo, la figura, l’estensione, il movimento e il luogo. Allora, che cosa sarà vero? Forse –dicevo- soltanto che non c’è niente di certo. (…) Non vedo proprio perché mai dovrei crederlo, dal momento che potrebbe pur darsi che a produrli sia io stesso. Ma, allora, non sarà qualcosa almeno io? E’ a questo punto che rimando incerto, perché è vero che ho supposto di non avere affatto sensi né corpo, e tuttavia –mi chiedo- sono forse io così legato al corpo e ai sensi da non esistere senza di essi? (…) No di certo! Esistevo di certo, se mi sono persuaso di qualcosa! Ma se ci fosse un non so quale ingannatore, quanto mai potente ed astuto, che si dia da gare ad ingannarmi sempre? Ebbene, nel caso che lui mi inganni, allora non c’è dubbio che esisto anch’io; (…) l’asserto io esisto è impossibile che non sia vero, ogniqualvolta io lo pronunci o lo concepisca mentalmente ».

Pp. 39-41.

Definizione dell’anima e corpo a partire dai pregiudizi delle vecchie opinioni.

« … di certo, mi veniva in mente che avevo un volto, delle mani, delle braccia e tutto quel congegno di membra, quale si vede anche in un cadavere, che chiamavo corpo. Ma poi mi veniva in mente anche che mi nutrivo, camminavo, sentivo e pensavo; e per la verità, riportavo queste azioni a quel che chiamavo anima… (…) per corpo intendo tutto quanto sia suscettibile di essere delimitato da una figura e circoscritto in un luogo, di riempire uno spazio in modo da escludere ogni altro corpo, di venire percepito con il tatto, la vista, l’udito, il gusto o l’odorato e di venir mosso in molti modi (…) »

P. 43.

Ciò che si da anche senza corpo, dunque che è manifestatamene chiaro e distinto: definizione dell’essenza della mente.

« Il pensare, in fine? Qui sì, ho trovato: è il pensiero quel che cercavo, ché questo solo non può esser separato da me. Io esisto, certo; ma sino a quando? Finché penso, di certo; ché, se mai cessassi di pensare, potrebbe darsi che con ciò stesso cessassi interamente di esistere. Ora non ammetto se non quanto sia vero necessariamente: sono dunque, precisamente, soltanto una cosa che pensa, e cioè una mente, o un animo, o un intelletto, o una ragione; parole di cui prima d’ora ignoravo il significato.

Sono quindi una cosa vera, veramente esistente; ma quale cosa? L’ho appena detto: una cosa che pensa ».

Pp. 43-45.

Definizione dell’immaginazione.

« … immaginare non è che la contemplare la figura, o, appunto, l’immagine di qualcosa di corporeo ».

P. 45.

Definizione di tutte le proprietà della mente.

« So dunque che cosa sono: una cosa che pensa. Ma che cos’è una cosa che pensa? Di certo una cosa che dubita, intende intellettualmente, afferma, nega, vuole non vuole, e anche immagina e sente ».

P. 47.

Esempio antiempirista della cera.

« Di tutte le cose, consideriamo dunque quelle che comunemente si ritiene di comprendere più distintamente, e cioè i corpi che tocchiamo e vediamo ( e non i corpi considerati in generale (…) ). Prendiamo, per esempio, questa cerche, appena tirata fuori dall’alveare, ancora non ha perso del tutto il sapore del miele e mantiene un po’ dell’odore dei fiori da cui è stata raccolta: il suo colore, la sua figura e la sua grandezza sono lì, tutti evidenti; è dura, è fredda, la si può toccare senza problemi, e , se la si batte con un dito, emetterà un suono; insomma si ha tutto quel che sembra necessario perché un corpo possa essere conosciuto il più distintamente possibile. Ma ecco che, mentre io sto parlando, essa viene avvicinata al fuoco: scompare quanto le rimaneva di sapore, l’odore svanisce, il colore cambia, vien meno la figura, la grandezza cresce e la cera si fa liquida, calda, a fatica la si può toccare, e, se la si batte, non emetterà più alcun suono. Ebbene: rimane ancora la stessa cera di prima? Lo rimane, certo; nessuno lo nega, nessuno ritiene che non lo rimanga. Ma che cos’era allora che in essa veniva compreso, prima, tanto distintamente? »

P. 49.

Conclusione della seconda meditazione.

« Ed eccomi così arrivato alla conclusione a cui volevo arrivare: ora che so, infatti, che, a parlare propriamente, neppure i corpi vengono percepiti con i sensi o con la facoltà immaginativa, bensì soltanto con l’intelletto, ossia non ciò perché toccati o visti, bensì soltanto perché concepiti appunto con l’intelletto, conosco palesemente che niente può essere percepito da me con maggiore facilità ed evidenza che la mia mente. Poiché però non ci si riesce a liberare tanto presto dell’abitudine alla vecchia opinione contraria, è il caso che per oggi mi fermi qui, affinché questa scoperta io la possa imprimere più profondamente nella mia memoria, con un’assidua meditazione ».

P. 55.

 

Riassunto discorsivo

La seconda meditazione si apre rievocando i dubbi posti nella prima meditazione. I dubbi sono quelli relativi alla conoscenza sensibile e alla nostra possibilità di avere una qualche certezza sul mondo e sulle cose, piuttosto che su di noi stessi.

In effetti, il panorama che si apre non è dei più incoraggianti: tutto ciò che abbiamo sempre creduto non è degno di fede. E soprattutto la certezza più ovvia deve essere messa tra parentesi e, per il momento, contemplata per falsa: l’esistenza dei corpi esterni. Essi infatti non sono stati in grado di resistere al dubbio sogno/veglia. Ma io contemplo il mio stesso corpo come ad una cosa fuori di me, mio in qualche modo, eppure è anch’egli, in quanto corpo da mettersi tra parentesi.

Ma a questo punto la domanda vien da sé: ma se tanto i corpi quanto ciò che da essi viene è ritenuto dubbio, può esistere qualcosa di cui non si può in alcun modo dubitare?

Se ci mettiamo riflettere sulla natura del dubbio, arriviamo subito ad una risposta: se il dubbio è un modo del pensiero, è un nostro atteggiarci ad un oggetto, allora se dubito è sicuro che penso. Ma se penso allora esisto. Infatti tanto che io dubiti tanto che non dubiti penso e il mio pensiero non può esistere senza di me. Così il dubbio sul pensiero non può che essere, a sua volta, un pensiero. Tanto che io dubiti di esistere o no, io esisto per certo.

Abbiamo finalmente trovato un pensiero che sia effettivamente al di là di ogni ragionevole dubbio: io penso, io esisto. La verità quindi di tale pensiero è evidente. Bisogna comunque tener conto che questa verità è, per Cartesio, una verità comprensibile a chi ci presti attenzione e non è il risultato di un sillogismo ( dove la premessa maggiore è “tutte le cose che pensano esistono”, così “io penso” dunque “io esisto” ), essa è una verità certa che non abbisogna di alcuna dimostrazione per l’affermazione della sua verità. In ciò, Cartesio concepisce effettivamente la verità come un’intuizione intellettiva che non richiede un ulteriore conferma per la sua verità.

A questo punto c’è da chiedersi se oltre all’Io penso possa conoscere altro con altrettanta certezza e indubitabilità. Intanto non si darà conoscenza certa di ciò che conosco attraverso i sensi: oltre ai dubbi già detti, si può anche notare che ciò che vediamo è così spesso soggetto al cambiamento che non si capisce come una stessa cosa che cambia, a partire dai sensi, possa essere definita allo stesso modo.

Da ciò comprendiamo due cose: che la verità soggettiva non è verità e una delle caratteristiche della verità è proprio l’intersoggettività; che la sensibilità pone delle sensazioni che noi attribuiamo agli oggetti quando siamo invece noi stessi ad attribuirle. Così della sensibilità, sul piano della conoscenza certa degli oggetti non ci possiamo certo fidare.

Ma in effetti s’è trovato qualcosa che possiamo a pieno titolo chiamare “verità certa e indubitabile”: la definizione dell’Io come cosa che pensa. A questo punto non sarebbe cosa così fuori dal buon senso vedere se, da questa sola verità, non se ne possa derivare qualche altra: innanzi tutto, è fuori di dubbio che le attività dell’Io penso sono effettivamente indubitabili. Infatti anche della sensibilità non posso dubitare in quanto seppure posso aver qualche dubbio sull’oggetto della sensibilità, le sensazioni, non posso certo nutrire dubbi sul fatto che io ho quelle sensazioni. Allo stesso modo dicasi per le immagini provenienti dall’immaginazione. A questo punto posso dire che l’Io pensa, sente, intende e vuole.

Il sentire è già chiaro cosa significa. Che l’io intenda è dato da sé, dal fatto stesso che pensa e riesca effettivamente a giungere alla dimostrazione di qualche verità, se non altro del fatto che egli stesso pensi. In fine è cosa di per sé evidente che desideri o no.

Se la sensibilità ha un ruolo negativo nell’ambito della conoscenza del mondo, così come l’intelletto ha un ruolo affermativo, la volontà nell’ambito epistemologico non ha alcuna rilevanza ( se non per il fatto che essa è la causa delle asserzioni, quindi del vero e del falso, come si vedrà nella terza meditazione ). Infatti che io desideri una cosa vera o una cosa falsa non è dato alla volontà discernere il suo oggetto. Essa non è in grado di aggiungere nulla alla nostra conoscenza dell’oggetto proprio perché dipende da noi e non è a partire dall’oggetto né ha i mezzi per riconoscere il vero e il falso.

A questo punto possiamo anche concludere un po’ più soddisfatti che alla prima meditazione: abbiamo capito che non esiste verità che viene dai sensi. Non ci rimane che percorrere la strada più promettente: quella dell’intelletto, ovvero dell’io pensante.

 Terza meditazione: l’esistenza di Dio.

Schema riassuntivo della terza meditazione.

  1. Rievocazione delle certezze fino ad ora trovate ( e non dei dubbi! ):
    1. Io penso, io esisto.
    2. La natura del mio pensare, che nulla ha a che vedere con le immagini che mi inducono i corpi o che io penso come se fossero i corpi.
    3. Definizione delle proprietà della mente.
  1.                                                               i.      Io sento.
  2.                                                             ii.      Io immagino.
  3.                                                           iii.      Io intendo.
  4.                                                           iv.      Io voglio.
  5.                                                             v.      Io giudico.
  6.                                                               i.      Cartesio non definisce mai esplicitamente che si debba intendere per chiarezza e distinzione ma per nostro uso e consumo potremmo provarci:
    1. La chiarezza è l’evidenza, la forza persuasiva che un’idea ha in noi. Siccome al vero noi non possiamo sottrarre l’assenso, esso è anche estremamente chiaro. Potremmo anche dire che la chiarezza è quello che oggi, spesso, è inteso come “semplicità” o “eleganza” nelle definizioni scientifiche e matematiche, ovvero quell’assenza di complicazione che sembra già essere garanzia di verità.
    2. La distinzione è la possibilità che noi abbiamo di concepire una cosa senza pensare ad altre. Così è un criterio di individuazione: se io riconosco una cosa allora so anche indicarlo indipendentemente dalle altre cose.
      1. Un esempio, che Cartesio avrebbe sicuramente sottoscritto, è l’idea che possiamo avere a partire dalla definizione di triangolo: essa è chiara in quanto dal solo fatto di sapere che è un poligono di tre lati e tre angoli possiamo riconoscere che in essa non c’è alcuna contraddizione o asserzione parziale che possa farci storcere il naso. Essa è distinta in quando siamo in grado benissimo di pensare al triangolo come una forma geometrica definita a prescindere dalla definizione delle altre forme geometriche definibili.
  7.                                                             ii.      Il ragionamento attraverso cui Cartesio giunge a definire l’idea vera come chiara e distinta è questo: se “io sono una cosa pensante” è la mia idea di me, se la mia idea di me è vera perché è indubitabile, se la mia idea di me è chiara e distinta allora tutte le idee che avranno la stessa forma dell’idea di me saranno vere. Ma la forma della mia idea di me è definita dalla sua chiarezza e distinzione dunque tutte le idee che saranno chiare e distinte saranno vere.
    1. A questo punto abbiamo due criteri di verità: uno positivo e uno negativo. Il dubbio ci dice solo se una cosa non è sicuramente vera, ma non che caratteristiche positive abbia un’idea vera.
    2. Un’idea è vera se e solo se è chiara e distinta. Se l’idea non è vera, allora non può anche essere chiara e distinta.
    3. Siamo giunti al secondo criterio per distinguere il vero dal falso: il vero è chiaro e distinto, il falso è confuso e oscuro ( anche se vedremo come anche nell’idea oscura e confusa non tutto sia falso, ma si può trovare in essa qualcosa di vero ).
  8.                                                               i.      Il problema di Dio per Cartesio è una questione molto delicata che deve risolvere per almeno due ragioni: primo perché deve dimostrare che le idee possono essere anche vere, a patto che io giudichi a partire dall’intelletto; in secondo luogo perché deve anche dimostrare che tutto ha una causa.
  9.                                                             ii.      In questo senso il Dio cartesiano è il criterio stesso di esistenza stessa della possibilità della verità, prima che di tutto il resto. Per ciò a Cartesio preme in modo particolare riuscire a dimostrare l’esistenza di Dio. Senza Dio, come Cartesio stesso dirà, non c’è modo di sapere se noi perveniamo ad una conoscenza adeguata del mondo o se la nostra natura di esseri umani non sia completamente fallace.
  10.                                                               i.      Ovvero, non è dalla volontà che si genera l’errore ma dalla conoscenza confusa di qualcosa giudicata come chiara e distinta, quindi affermata. La volontà, in un certo senso, è una facoltà senza né arte né parte in quanto, anche quando compie qualcosa di positivo, non dipende propriamente da lei.
  11.                                                             ii.      Tuttavia l’errore si può sempre dire volontario, seppure non sia stata la volontà ad averlo generato. L’oggetto del volere, lo si è detto, non è in relazione alla volontà e la volontà si limita a desiderarlo o meno. Ma ciò che la volontà poi va ad affermare anche quando noi non sappiamo bene cosa sia, in ciò consiste l’errore.
  12.                                                           iii.      Giudicare a partire dall’ignoranza, in ciò sta la natura dell’errore secondo Cartesio. Di fatti, se noi potessimo trattenerci dall’esprimere giudizi su cui non abbiamo certezza di verità, potremmo benissimo non sbagliarci mai.
  13.                                                               i.      Infatti ciò che io giudico a partire dalla sensibilità è una sensazione e la sensazione, come sappiamo, è una predicazione di una qualità secondaria che non è dell’oggetto ma ad esso gli è attribuita dal soggetto. Così l’apparenza degli oggetti è un che di prettamente soggettivo. Il giudicare gli oggetti a partire da questa facoltà sembra essere un vero e proprio errore.
  14.                                                             ii.      Di fatti, le sensazioni sono degli errori materiali delle idee: il loro contenuto mentale non è riferibile agli oggetti esterni, bensì sono solo delle nostre sensazioni. In questo senso, attribuire ciò che noi sentiamo a ciò che effettivamente è, è un’operazione indebita e, dunque, sbagliata.
  15.                                                               i.      A parte che nel concetto di falsità materiale dell’idea.
  16.                                                             ii.      Così se io sospendessi il giudizio ogni qual volta non ho una conoscenza adeguata dell’oggetto potrei benissimo non sbagliarmi mai.
  17.                                                               i.      Le idee avventizie sono involontarie.
    1. Ovvero non dipendono dalla mia volontà in alcun modo. Che io apra gli occhi e veda una sedia non è dato dalla mio desiderio. Così che spesso si vedano cose brutte piuttosto che bello non è colpa della nostra sensibilità, piuttosto della cruda realtà dei fatti!
  18.                                                             ii.      Le idee fattizie sono incorreggibili.
    1. Anche nel momento in cui io riesco a capire che una mia sensazione mi ha allontanato dalla verità, una volta conosciuta, non posso correggere quella sensazione.
      1. E’ l’esempio del sole. Che io possa vedere il sole grande come una moneta era una realtà di fatto che già qualcuno aveva detto con una certa insolenza o ironia. E tuttavia il sole è molto più grande che una moneta, anzi, è molto più grande di me, di noi e della terra. So, infatti, attraverso calcoli matematici che è molto più grande e di ciò non posso più dubitare.
      2. Eppure, nonostante sappia che la grandezza del sole non è come quella della terra ma molto di più, non posso fare a meno di aprire gli occhi e vedere il sole grande come una monetina da un euro.
      3. Così le sensazioni sono indipendenti da noi sia nel senso che sono involontarie sia nel senso che sono incorreggibili.
  19.                                                           iii.      Le idee avventizie non dipendendo solo da me implicano l’esistenza di qualcos’altro.
    1. Infatti se io non sono causa adeguata di quelle idee, da qualcosa esse devono pur venire. Dei corpi non possiamo ancora proferirci.
    2. Per il momento ci limitiamo a constatare che tali idee esistono e che sono provocate da qualcosa di esterno da noi.
  20.                                                               i.      Se le idee fattizie sono idee che partono da composizioni di sensazioni-percezioni, se le idee che mi giungono a partire dai sensi sono confuse, va da sé che pure le idee fattizie siano idee confuse e affatto chiare. L’esempio ricorrente di idea fattizia che Cartesio riporta spesso è quello della chimera.
  21.                                                             ii.      Non bisogna scambiare le idee fattizie con le conseguenze delle idee innate: i teoremi di geometria o l’analisi matematica scopre delle idee già esistenti delle quali io non sapevo l’esistenza. Eppure tale esistenza era già nella mia mente! Così quando scopro nuove verità non sto facendo altro che pensare a delle idee che avevo già e che pure ignoravo ancora dentro di me.
    1. Da qui l’idea platonica della reminiscenza.
    2. Diciamo solo di passaggio che Cartesio era molto vicino all’aspetto epistemologico della dottrina delle idee di Platone, col quale era d’accordo tanto sulla natura della matematica, in grado di conoscere l’essenza vera delle cose, sia sulla conoscenza universale a partire dai concetti universali e non da quelli particolari.
    3. Tuttavia era col grande greco in disaccordo sulla visione della sensibilità. Per Cartesio la sensibilità svolge un importante ruolo pratico, per Platone e era solo negativo. Certamente, tra i due filosofi, i punti di contatto sono senz’altro maggiori e più significativi che i punti di disaccordo.
  22.                                                               i.      La forma dell’idea di triangolo è la sua partecipazione ad altre cose triangolari.
  23.                                                             ii.      Il contenuto dell’idea del triangolo è l’insieme delle proprietà del triangolo stesso.
  24.                                                               i.      Io ho un’idea di Dio.
    1. Ciò è un dato di fatto. Infatti tanto che io pensi a partire dalla vecchia opinione, o che pensi dal mio solo pensiero, mi ritrovo ad avere quest’idea.
    2. L’idea di Dio è l’idea che ha il massimo contenuto, ovvero è la definizione di quell’essere di cui si predica ogni perfezione. E la perfezione è semplicemente affermazione d’essere ( Dio è infinito, Dio è onnipotente, Dio è… ). Dio è, per definizione, quell’essere dotato di ogni somma perfezione, così la sua idea ha molta più realtà che la mia stessa idea di me, in quanto io mi concepisco come imperfetto e limitato, mentre Dio lo concepisco come perfetto e illimitato.
  25.                                                             ii.      L’idea che ho di Dio contiene molta più realtà oggettiva dell’idea che io ho di me.
    1. Come detto sopra. La realtà oggettiva è semplicemente il contenuto mentale di un’idea. Come sappiamo infatti, un’idea è costituita da due realtà: la formalità e l’oggettività.
      1. La realtà formale è la proprietà degli oggetti del mondo, a differenza di come potremmo intendere oggi la parola, la proprietà formale di un’idea è la sua stessa capacità di rappresentare qualcosa del mondo.
      2. La realtà oggettiva è il contenuto dei singoli stati mentali. Per Cartesio, naturalmente, non si può usare propriamente il concetto di “stato mentale” che, in una certa misura, implica una descrizione funzionalistica o comunque più recente della mente. Per stato mentale si può semplicemente intendere, nel gergo cartesiano, “idea”.
      3. L’idea ha dunque sia la realtà formale che la realtà oggettiva: la realtà formale le compete in quanto possiede una certa forma, mentre la realtà oggettiva le compete in quanto possiede un certo contenuto.
  26.                                                           iii.      La causa di tale idea è Dio.
    1. Da che altro posso avere tale idea? Questa prima dimostrazione è più sintetica della seconda ed è più chiara la seconda della prima per il semplice fatto che vengono esplicitati i passaggi sott’intesi.
    2. Possiamo comunque fare questo ragionamento: se io penso, io esisto; se io sono una cosa pensante, se io ho l’idea di Dio, se l’idea di Dio ha molta più realtà oggettiva del mio stesso pensiero, allora tale contenuto deve venire da qualche parte. Non viene da me in quanto pensiero, non viene da altro in quanto non lo derivo da alcuna sensazione né da alcuna combinazione di immagini, dunque l’idea di Dio è a me innata ed è da lui stesso infusa.
      1. Da ciò possiamo trarre la considerazione che l’idea che ho di Dio è innata ed è come il marchio di fabbrica. Io ho l’idea di Dio per il solo fatto di esser stato creato da lui in un certo modo. Da tale modo dipende la stessa idea di Dio.
  27.                                                               i.      Io penso, io esisto.
  28.                                                             ii.      Io ho un’idea di Dio.
  29.                                                           iii.      L’idea che io ho di Dio è un’idea che mi sorpassa quanto a perfezione.
    1. Il punto è che io, essere finito, pervengo alla conoscenza di ciò che è a me più perfetto a partire dal concetto stesso di massima perfezione. Infatti non arrivo alla definizione dell’infinito dalla negazione del finito, piuttosto il contrario.
    2. Io non saprei dell’esistenza del finito se non in quanto esiste l’infinito e non viceversa. In questo senso, io non posso derivare la definizione di Dio da qualcosa al di fuori di me, ma solo guardando in me ritrovo la chiarezza e distinzione di quella sostanza assolutamente potente che è Dio.
      1. In questa concezione dell’infinito e di Dio, Cartesio va contro tutta la tradizione scolastica: dell’infinito si poteva avere solo un’idea negativa, a partire cioè dalla negazione del finito. Infatti, stando all’empirismo ( aristotelico ) dai soli dati d’esperienza non si può giungere alla definizione dell’infinito, dal momento che io sono un essere limitato.
      2. E la conseguenza è che per grandissima parte del pensiero cristiano, di Dio non si poteva che parlare in senso negativo: Dio non è limitato, non è brutto, non è alto ecc.. Sia per la deriva platonica, che tendeva al misticheggiante, che per quella neoperipatetica, che tendeva ad un razionalismo negativo, di Dio non si poteva affermare nulla di negativo. Anche perché, colui che arrivava a conoscerlo, a prescindere dal come, non poteva riportare in un linguaggio umano quell’esperienza tanto piena e appagante che si poteva avere dall’incontro con la natura divina.
      3. Cartesio non solo ci tiene a dimostrare l’esistenza di Dio, ma arriverà anche ad una definizione positiva di Dio stesso. E vedremo come e perché.
      4. Notiamo in fine come le due dimostrazioni dell’esistenza di Dio sono entrambe funzionali alla definizione delle idee: si parte sempre dal cogito per poi arrivare alla veracità del cogito. E in questo cammino si oltrepassa la dimensione puramente singolare dell’Io passando dall’idea di Dio. Sino ad ora, infatti, si sta parlando di “idee”. Questa constatazione non è ovvia e serve a capire che, proprio da questa problematica conoscitiva, si basa la necessità cartesiana della dimostrazione dell’esistenza di Dio. In un certo senso, c’è chiaramente una circolarità: dalle idee si giunge all’idea di Dio ( non a Dio… ) per poi tornare all’Io. Tuttavia, va compreso che tale circolarità è un po’ la conseguenza del pensiero stesso di Cartesio che, portato alle estreme conseguenze, mostra come la conoscenza sia solo interna alla mente del soggetto e non ammette, di fatto alcuna apertura: è l’Io che conosce e conosce perché esistono delle idee innate. Le idee innate sono precedenti all’io stesso, nel senso che esse non sono ottenute per alcuna inferenza o ragionamento, esse l’Io le porta con sé sin tanto che pensa. La dimostrazione dell’esistenza di Dio serve sia a confermare la veracità delle idee innate, sia a dimostrare che tali idee innate ci fanno effettivamente conoscere la realtà extrasoggettiva. Dio dunque fa da ponte tra la chiusura del mondo dall’Io e dell’Io dal mondo. Se non ci fosse infatti un Dio verace, non si potrebbe mai sapere se siamo di fronte al mondo come ad una nostra rappresentazione soggettiva mai vera delle cose, stando alla convinzione e ai ragionamenti di Cartesio. Dio infatti ha creato l’essenza delle cose secondo principi matematici. La matematica e la geometria sono effettivamente non la descrizione delle cose, ma la loro stessa essenza, che noi comprendiamo in quanto la matematica e la geometria sono in noi come le cose sono nel mondo. Essenza delle cose del mondo e essenze matematiche sono una stessa cosa e noi siamo così in grado di conoscerle perché Dio ha disposto le une uguali alle altre. Per ciò non ha senso rivolgersi ai sensi e all’immaginazione per capire, anche perché Dio ha sì garantito la nostra possibilità conoscitiva delle essenze delle cose, ma attraverso la conoscenza della matematica e della geometria, non attraverso la conoscenza sensibile. Così la dimostrazione stessa di Dio è il raccordo tra interno ed esterno del soggetto, tra mondo e Io che sono essenzialmente strutturati allo stesso modo. Ma se non dimostrasse l’esistenza di Dio, Cartesio mai giungerebbe a riallacciare il mondo e l’Io perché, per come sono state definite le due sostanze ( anche solo fino a questo punto ) sono così diverse e alternative che non si vede da dove possano giungere i punti di contatto.
  30.                                                           iv.      Tutto ciò che esiste ha una causa.
    1. Cartesio di questo principio, che non è poi suo, non s’interessa di dare dimostrazione perché è noto per “lume naturale”. E’ un principio a tal punto evidente che non c’è bisogno che venga dimostrato ulteriormente da alcun ragionamento.
    2. Eppure, sarà per il mio indomabile scetticismo al principio di causalità esterna alla coscienza, ma non mi sembra che tale principio sia così autoevidente da non aver necessità di conferma alcuna. Bisogna però vedere tale principio calato ai suoi tempi: prima di tutto anche la teoria aristotelica concepiva il tutto come descritto compiutamente dal complesso di cause che lo aveva determinato. In secondo luogo, la stessa scienza moderna si muove alla ricerca di principi primi e semplici che, in ultima analisi, divengono assimilabili a cause: il principio del moto non è altro che una forza trasmessa da un corpo in moto ad un altro. “Principio” è sia “causa” sia “origine” che “regola” del movimento ma non “principio-come fine”. Si tenga presente di tutto questo perché da questa concezione della causalità, divenuta chiara e definitiva con Spinoza, che tutti hanno amato nonostante nessuno l’avesse potuto dire.
    3. Tutto ciò che esiste ha una causa vuol dire che tutto ha una ragion d’essere tolta la quale non c’è più un determinato effetto. Ciò vale, appunto, per tutto: dalle idee ai corpi. Si tenga conto che se non fosse così anche per le idee, sarebbe prima di tutto difficile stabilire da dove queste provengano, in secondo luogo, come da queste si potrebbe risalire alla conoscenza delle cause al di fuori di noi. In questo principio notiamo l’isomorfismo tra realtà mentale innata e realtà delle essenze degli oggetti del mondo.
  31.                                                             v.      Nulla nasce dal nulla.
    1. Questo principio sembra una cosa ovvia, ma non lo è. Infatti lo sarebbe stato, in una certa misura, per tutto il mondo greco e la sua cultura. I greci non concepivano il vuoto se non come altra forma d’essere dell’essere ( per esempio in Democrito il vuoto è una forma dell’essere, uno dei criteri stessi dell’esistenza del moto tale che, tolto il vuoto non ci sarebbe stato alcun movimento ). Ma, a parte per il pensiero degli atomisti, che comunque non avrebbero mai detto che gli elementi atomici fossero creati dal nulla, non abbiamo altri pensatori che sostengono l’esistenza del nulla: tutto nasce da qualcosa, la “massa si conserva” e “nulla è interamente distrutto perché tutto, al limite, cambia di forma ma non scompare”. Per i cristiani invece il Dio onnipotente crea effettivamente dal nulla e fa ciò che egli vuole ma, sempre, a partire da sé e basta.
      1. A margine possiamo notare come la concezione del cristianesimo di Dio sia, in un certo senso, qualcosa di desolante: esso è lì, immobile ed eterno, chiuso in se stesso. Egli crea per creare, per sovrabbondanza di amore che non va da nessuna parte senza il creato. Il creato, che è prodotto da lui, conserva proprio queste caratteristiche di glaciale solitudine senza senso. La visione del mondo del cristianesimo, in quando concepita a partire da un Dio solitario, amorevole perché solo e non perché, in un certo senso, già pienamente appagato, è una visione estremamente pessimista della divinità.
      2. A pensarci bene, è molto più credibile un ente che crea per sovrabbondanza ( l’uno plotiniano ), o perché è un motore immobile già compiuto e appagato in sé stesso ( il Dio aristotelico ), piuttosto che per un “atto d’amore”. Il fatto stesso che Dio abbia creato gli uomini in modo tale che la loro sofferenza sia garantita, almeno sin tanto che essi sono in vita, non sembra essere un Dio molto gentile, amorevole e pieno di cura. Tanto è, che non deve affatto stupire che il Dio ebraico, del vecchio testamento, non è affatto un Dio “pienamente buono” con tutto il genere umano. Il Dio è vendicativo, giudice assoluto del bene e del male, un Dio punitore e esattore del giusto e dell’ingiusto. Ma a me sembra che un tale Dio, ammesso che di un Dio del genere si possa parlare, o che si possa parlare di Dio in generale, non sia affatto buono, ma sia piuttosto il Dio che chiede ad Abramo di uccidere il figlio perché, sostanzialmente, di Abramo non si fida, un Dio che mette alla prova un essere debole, sfruttando le sue debolezze, non è un Dio dolce, ma è spietato e semplice proprio perché senza scrupoli. E seppure la visione cristiana riabilita, in una certa misura e non sempre, la concezione antropologica ( e solo perché Cristo è stato uomo non perché il Dio, in fin dei conti, cambi troppo la sua opinione… ) questa visione leggermente più ottimista non è stata così interpretata dalla storia che ci ha insegnato bene che i cristiani hanno guardato al corpo come ad una cosa sudicia e peccaminosa che tenta l’anima non si sa bene perché. Ora, un Dio che mi induca a peccare, che cerchi di sfruttare le mie debolezze e che mi giudicherà per il mio comportamento in modo a tal punto definitivo da rendere la sua decisione eterna, non mi sembra che sia proprio un Dio così buono e benevolo come, per altro, Cristo vorrebbe presentarcelo ( e pure lui, solo alla fine, concede a tutta l’umanità una possibile redenzione, visto che egli si rivolge soprattutto al popolo ebraico ). Così non mi sembra affatto che il Dio cristiano sia buono, ma un giudice supremo.
      3. D’altronde, non può stupire che la stessa natura dell’uomo dai cristiani sia concepita in gran parte negativamente: l’uomo è per natura sua peccatore, ovvero che tende al male. Tra bene e male, senza Dio, l’uomo fa sistematicamente il male. La libertà è solo quella di non-fare come dice Dio e così se si fa il bene, in un certo senso, è grazie solo a Dio che ci fa fare il bene. Non c’è manicheismo non perché c’è solo il bene, ma perché alla natura umana ( non alla natura divina ) c’è solo male.
      4. Dio così diventa una sorta di giudice spietato e imparziale ( giacché agli occhi di Dio siamo sempre peccatori vista la nostra natura fallace e imperfetta ): egli è solo un altro uomo che ci guarda soppesando i nostri difetti. Le nostre buone azioni sono chiaramente irrilevanti se non fatte a partire dal Dio stesso.
    2. Cartesio ripropone la visione “greca” della causalità: il principio di causalità è pervasivo. Ogni cosa, idea o no, ha una sua causa tolta la quale è tolto l’effetto. Ad una causa compete un effetto che ne conservi la sua natura oppure tra l’effetto e la causa c’è una sorta di dissipazione: la causa dunque o è eminente o è formale.
      1. E’ detta eminente quella relazione di causa ed effetto dove l’effetto mantiene intatta la natura della causa.
        1.                                                                                                                                       i.      Un esempio di causa eminente è espresso chiaramente dal principio della conservazione della quantità di moto o del terzo principio della dinamica detto di azione e reazione.
        2.                                                                                                                                     ii.      Posto un sistema fisico macroscopico definito da un insieme di corpi in movimento, la quantità di moto del sistema rimane costante. In altre parole, in un modello così definito, l’insieme delle forze che agiscono e definiscono il sistema rimane invariato nonostante la variazione degli urti dei vari corpi e, dunque, posta l’insieme di cause, gli effetti manterranno inalterata la natura delle cause.
        3.                                                                                                                                   iii.      Se un corpo in movimento urta un corpo in quiete, il corpo in movimento riceverà una forza uguale e contraria a quella che dell’urto.
        4. E’ detta formale quella relazione di causa ed effetto dove l’effetto non mantiene inalterata la natura della causa.
          1.                                                                                                                                       i.      In questo caso bisogna pensare all’idea del principio di ragion sufficiente: una causa o determina un solo effetto che conserva la natura della causa o determina una pluralità di effetti che tutti insieme mantengono la natura della causa ma presi per sé non conservano la natura della causa se non parzialmente.
          2.                                                                                                                                     ii.      Il principio di causa è interpretato secondo due momenti diversi: esistono due eventi distinti riuniti da un’unica definizione. Il primo evento di un fenomeno è chiamato causa, il secondo evento è chiamato effetto. Tra causa ed effetto esiste una relazione doppia implicazione dove la relazione mostra i vincoli tra i due eventi: un effetto se e solo se una causa. D’altra parte, una causa non esiste senza effetto.
            1. Il principio di causalità può essere concepito in due modi: o a partire dall’evidenza che tra due eventi esiste una discontinuità ( la causa è sempre diversa, almeno nella sua composizione modale, dall’effetto ) o a partire dall’evidenza che esiste una continuità tra i due eventi e, dunque, che ciò che sussiste non sono due eventi distinti ma uno solo che si svolge secondo una certa e determinata continuità
            2. E’ chiaro che Cartesio pensa al principio di causalità come a due eventi distinti che mantengono intatte una serie di proprietà. Ovvero l’evento che chiamo causa è definito a partire da una serie di proprietà che sono conservate interamente o parzialmente dall’effetto: se le proprietà vengono conservate interamente siamo di fronte alla causa eminente, se parzialmente siamo di fronte alla causalità formale.
            3. Ancor oggi, in fisica, si possono distinguere cause formali e cause eminenti, se si vuole. Nel senso che a partire da una causa segue sempre una molteplicità di effetti. Se si guarda all’effetto principale, allora contempleremo quella causa come causa eminente, se contempleremo il complesso di effetti, allora contempleremo quella causa come causa eminente.
            4. Il più tardo principio di ragion sufficiente, tale che posta qualsiasi cosa deve esistere una ragione sufficiente per la sua spiegazione, è una riduzione del più ampio principio di causa alla sola relazione di causa-effetto eminente: se esiste una causa ed esiste un effetto allora quell’effetto è descritto adeguatamente dalla sua ragion d’essere. Per esempio, per far bollire l’acqua è sufficiente scaldarla sino a che arrivi a cento gradi.
  32.                                                           vi.      Io non posso essere la causa adeguata dell’idea di Dio.
    1. Infatti abbiamo detto che tutto ciò che esiste ha una causa e nulla nasce dal nulla. Per ciò, un’idea deve avere una causa adeguata. Le cose sono due: o sono io la causa della mia idea di Dio o è Dio a produrre in me tale idea.
      1. Io non posso essere la causa adeguata della mia idea di Dio. Infatti Io in quanto cosa pensante mi definisco come imperfetto e illimitato, quando il contenuto dell’idea che ho di Dio è invece perfetto e illimitato. Se io fossi perfetto e illimitato potrei causare in me un’idea di un essere perfetto e illimitato. Ma ciò non è ( e vedremo anche che non posso proprio a rigor di logica esserlo ) e dunque non sono io la causa dell’idea che ho di Dio.
      2. Nemmeno mi può giungere dai sensi ovvero dalle cose fuori di me, di cui ho, tra l’altro, un’idea assai parziale e confusa, certo affatto perfetta.
      3. Dunque se non da me, se non dai corpi, se tutto ciò che esiste ha una causa, da dove altro potrei ricavare l’idea che io ho di Dio se non da Dio stesso? Ovvero dal solo fatto che Dio mi ha creato in modo tale da avere quell’idea?
  33.                                                         vii.      Deve esistere una causa adeguata dell’idea che io ho di Dio.
    1. Vien da sé dall’analisi posta prima.
  34.                                                       viii.      Dio è la causa dell’idea di sé in me.
  35.                                                               i.      Di Dio si può senz’altro predicare che sia una sostanza in quanto non si può pensare che esista nulla che lo ponga ad essere.
  36.                                                             ii.      Diciamo di sfuggita che, proprio secondo il principio di causalità è predicato di tutte le cose, e siccome Dio non può avere in altro la ragione di sé, ecco che Dio è concepito come causa di sé.
  37.                                                               i.      Come dirà qualcuno “sostanza è ciò che esiste in sé ed è concepito per sé”…
  38.                                                               i.      Se concepisci il contrario allora ti contraddici perché hai già definito Dio come l’essere dotato di ogni somma perfezione, così, sembra difficile pensare ad un Dio deficiente e, contemporaneamente, perfetto.
    1. ( Anche se oggi, visto che l’idea di Dio è derivato dal modello assoluto che l’uomo si costruisce di sé, e dal momento che molti concepiscono l’uomo perfetto come assolutamente deficiente, non è più così contraddittorio pensare ad un Dio perfetto e sommamente deficiente ).
  39.                                                               i.      Un non-potere di Dio sarebbe un’imperfezione, perciò non può essere predicata di colui che è sommamente perfetto.
  40.                                                             ii.      Cartesio porta al massimo dell’estensione questo principio affermando non solo che Dio avrebbe potuto creare qualcosa di diversissimo da questo mondo, ma anche le stesse essenze matematiche e il principio di non-contraddizione sarebbero potuti essere diversi.
  41.                                                           iii.      Questa concezione della libera creazione delle verità eterne del Dio di Cartesio è una delle sue originalità più clamorose e non sarebbe mai stata elaborata da un aristotelico.
  42.                                                               i.      Ma si faccia bene attenzione che il “tutto” è da intendere come “l’estensione” e non come l’insieme dei singoli corpi. L’estensione si articola oralmente, dunque secondo forme. E così Dio non deve essere pensato come il creatore di ogni singola cosa, ma dell’estensione tutta. E così Dio non è più il motore immobile o causa prima del mondo, ma il diretto creatore del tutto ( e pure colui che fa sì che tutto si conservi ).
  43.                                                             ii.      Si faccia caso che nella forma dell’estensione, secondo la concezione che Cartesio doveva averne a partire dalla geometria e della matematica ( lo spazio euclideo come una grandezza numerica qualunque ), tutto era divisibile per due e, dunque, in linea di principio, poteva esistere anche per via causale il regresso all’infinito ( vedremo più in seguito, magari, più chiaramente, questo punto ).
  44.                                                               i.      Peano è effettivamente riuscito a dare una definizione convincente di numero naturale e non per ciò è riuscito a enumerare l’infinità dei suoi numeri.
  45.                                                               i.      Dunque, quando faccio fisica, mi devo attenere ad una spiegazione rigorosamente afinalistica e meccanicistica del mondo.
  46.                                                               i.      Anche per Aristotele ciò che è in atto è più completo di ciò che è in potenza: una pianta è più perfetta del suo seme in quanto il suo seme ha la finalità di raggiungere la perfezione, compiutezza della pianta e non viceversa.
  47.                                                             ii.      Poter-essere non è essere-ora, così poter-avere non è avere e così via.
  48.                                                               i.      E’ lo stesso ragionamento espresso prima: se io conosco limitatamente, anche se tendo all’infinito, non sono comunque in grado di raggiungerlo.
  49.                                                               i.      Il ragionamento è il seguente:
    1. La forza per crearmi è la stessa richiesta per conservarmi.
    2. Sono consapevole delle mie forze.
    3. Se avessi la forza per crearmi allora ne sarei consapevole.
    4. Non ho la consapevolezza della forza per la mia creazione.
    5. Dunque non ho né la forza per crearmi né per conservarmi.
    6. Dunque non posso essere io il creatore di me stesso.
  50.                                                               i.      Il ragionamento è il seguente.
    1. Io sono creato dalla materia ( dai miei genitori ) senza il concorso di Dio.
    2. Io sono creato dai miei genitori che a loro volta sono creati da altro ( regresso all’infinito possibile ).
    3. Ciò che mi conserva nell’esistenza ( senza Dio ) dovrebbe essere una serie infinita di cause.
    4. La serie infinita di cause mi conserva al presente ( regresso all’infinito impossibile perché nell’istante T0 non può essere che ci sia un concorso infinito di cause ).
    5. Non esistendo nulla che mi conservi, dovrei smettere di esistere e ciò è assurdo.
    6. Dunque, Dio deve esistere come mio creatore.
    7. Dunque, non sono determinato esclusivamente dalla materia all’esistere.
  1. Se io penso è una conoscenza chiara e distinta allora è dell’idea vera l’esser chiara e distinta.
    1. L’idea è un qualsiasi contenuto mentale. In generale infatti tutte le idee esistono nella mia mente ( concezione inaugurata da Cartesio ) e di esse non si può predicare né che sono vere né che sono false ( si vedrà poi cosa si intenda per un’idea materialmente falsa ).
    2. L’idea può essere chiara e distinta o oscura e confusa. L’idea dell’io sappiamo che è vera perché è indubitabile. Di essa tuttavia sappiamo anche che è chiara e distinta. Così possiamo inferirne che tutte le idee chiare e distinte sono anche vere.
  1. Io posso anche ingannarmi nelle operazioni matematiche e geometriche se e solo se esiste un Dio ingannatore.
    1. Ovvero di un Dio che mi ha fatto in modo che le mie idee innate siano del tutto fallaci.
    2. L’idea del Dio ingannatore è l’idea che il nostro stesso intelletto sia fatto in modo fallace, ovvero che da sé scaturisca, a prescindere da ciò che produce in noi un’idea, sempre un concetto falso.
    3. Solo quando riusciremo a dimostrare che Dio non è ingannatore riusciremo anche a dimostrare che egli non può avermi fatto in modo tale che mi inganni ogni qual volta pensi. Infatti può benissimo essere che l’oggetto del pensiero sia falso, in quanto, per esempio, recepito male. Ma non può essere che a partire dal mio stesso pensiero e non da altro possa anche sbagliarmi.
  1. Se Dio non è ingannatore allora io non mi inganno delle verità matematiche.
  2. Se voglio dimostrare la possibilità della verità devo dimostrare l’esistenza di Dio e della sua veracità.
  3. Prima di passare alla dimostrazione di Dio devo domandarmi in cosa stia la natura dell’errore.
  4. L’errore è errore di giudizio: una predicazione di verità di una cosa che non è vera. Un’asserzione di presenza ( “esiste nel mondo X” ) quando quella presenza non c’è.
    1. L’errore non è determinato dalla volontà.
    1. L’errore è valutare e asserire un’idea dell’immaginazione come vera anche fuori di me.
    1. L’errore sta solo nel giudizio.
  1. Ciò che io conosco non è a partire dai sensi, ma da qualcosa di più chiaro in me.
  2. Le idee sono di tre generi: innate, avventizie e fattizie.
    1. Le idee innate sono idee che io ho a partire dalla mia stessa natura. Sono a me antecedenti, nel senso che non sono successive alla mia esperienza. Io non me le sono fatte né me le sono cercate e le scopro di volta in volta ( vedremo poi che le scopro di volta in volta come vere ).
    2. Le idee avventizie sono le idee che mi giungono a partire dai sensi. Esse sono così oggetto del dubbio iperbolico e sono, nonostante la loro limpidezza, confuse e oscure.
    1. Le idee fattizie sono idee che partono da sensazioni ma che sono composte da più immagini. Di fatto, le idee fattizie sono tutte le possibili immagini che possiamo avere a partire, per esempio, dalla nostra fantasia.
  1. Le idee hanno una forma e un contenuto.
    1. La forma delle idee è ciò che hanno in comune con l’ideato, ciò che è concepito dall’idea.
    2. Il contenuto dell’idea è la sua rappresentatività di qualcosa.
  1. Dio esiste: dimostrazione dell’idea di Dio.
    1. Prima dimostrazione dell’idea di Dio.
    1. Seconda dimostrazione dell’idea di Dio.
  1. Critica alle idee secondarie, parziali, soggettive e inadeguate.
    1. Definiamo le idee secondarie come tutte quelle sensazioni che ho a partire dalla sola percezione delle cose.
    2. S’è detto in che senso le idee secondarie ( prendendo il prestito il gergo lockiano ) siano delle attribuzioni indebite che il soggetto fa ai corpi esterni.
    3. Esse sono parziali perché non definiscono mai l’oggetto.
    4. Esso sono soggettive in quanto sono attribuite dal soggetto all’oggetto e, dunque, non sono dell’oggetto.
    5. Esse sono inadeguate perché sono prima di tutto soggettive, in secondo luogo perché non definiscono mai l’oggetto. In questo senso, sono inadeguate al solo scopo della conoscenza.
  2. Definizione della falsità materiale di un’idea.
    1. La falsità materiale di un’idea è il contenuto soggettivo attribuito dal soggetto all’oggetto.
    2. In altre parole la falsità materiale è la stessa percezione del soggetto che fa dell’oggetto.
    3. Un’idea, presa di per sé, non è né vera né falsa e sappiamo che l’errore è sempre nel giudizio: dire che una cosa esiste anche al di fuori di me, anche quando non è che in me, è chiaramente un errore e la causa di tale errore è proprio da ricercare nella falsità materiale dell’idea soggettiva.
  3. Definizione di Dio: Dio è una sostanza infinita, indipendente ( esistente di per sé ), sommamente intelligente, onnipotente, creatore di tutto.
    1. Dio è una sostanza ovvero una cosa che non abbisogna di altro per esistere.
    1. Dio è una sostanza infinita, nel senso che ad egli compete ogni possibile grado d’essere, ovvero ogni affermazione positiva e, dunque, ogni perfezione.
    2. Dio è indipendente perché è una sostanza.
    1. Dio è sommamente intelligente.
    1. Dio è onnipotente per la stessa ragione che è sommamente intelligente.
    1. Dio è creatore di tutto in quanto a tutto deve esistere una causa adeguata.
  1. L’infinito non può essere definito a partire solo da me.
    1. Come si è già detto, la definizione non giunge per negazione del finito ( l’infinito non è valore negativo, non è ciò che non-finito ) ma è il finito che giunge dalla negazione dell’infinito.
    2. Io sono finito perché non sono infinito e lo scopro successivamente. Viene prima di tutto, per Cartesio, l’idea che il soggetto sia effettivamente infinito e illimitato, mentre non lo è e questa sua mancanza è conosciuta solo successivamente alla conoscenza positiva dell’infinito.
    3. Cartesio ribalta la concezione sino ad allora concepita della conoscenza del finito e dell’infinito facendo di quest’ultimo un attributo a tal punto indice di perfezione che solo la sostanza assolutamente infinta, per usare i termini di Spinoza, è, appunto, infinita. E appunto Spinoza riprenderà tale concezione per portarla alle sue logiche conseguenze.
  2. Di Dio posso avere un’idea chiara e distinta ma non posso comprenderla in tutti i suoi aspetti.
    1. Io arrivo a concepire Dio chiaramente e distintamente, non è vero, quindi, che di lui ho una conoscenza esclusivamente negativa.
    2. Ma non sono in grado di conoscere adeguatamente e distintamente ogni sua conseguenza: la mia mente è finita e, dunque, non può che fermarsi alla constatazione dell’infinità, ma non a tutte le sue possibili conseguenze.
    1. Tra le varie cose che non posso concepire di Dio, v’è la sua finalità: infatti egli è troppo al di là per la mia mente finita per comprendere i suoi fini. Così, esprimermi sulla finalità divina in fisica, è una cosa inopportuna e indebita che finirebbe inevitabilmente tra quei falsi giudizi che esprimo a causa di una conoscenza oscura e confusa, non intellettuale.
  1. Funzione l’obiezione dell’antropomorfismo divino?: non è che io attribuisco a Dio caratteristiche che competono a me, come soggetto?
    1. Intanto non può essere perché io non sono perfetto e di ciò mi rendo conto chiaramente. Infatti se si può concedere che la mia perfezione possa tendere all’infinito ( come è quella che io attribuisco a Dio ), non posso affatto concedere che essa raggiunga l’infinità. E già solo per il fatto che mi esprima in termini di “potenziale” è indice di imperfezione.
    1. Da una conoscenza infinita non si perviene mai dal finito: come sappiamo, ciò vale anche per concetto in generale.
    1. Un’idea con tanto contenuto ( l’idea di Dio ) non può essere determinata da un essere che abbiamo accertato essere in potenza ( io ): essa è infatti in atto mentre l’essere in potenza non-è ancora.
  1. Da ciò ne consegue che io non posso essere causa dell’idea di Dio allo stesso modo che possa attribuire a lui caratteristiche mie.
  2. Altro problema sull’esistenza di Dio: posso io concedere che Dio non esista e io sia creato dal caso?
    1. Intanto, se io fossi il creatore di me non mi priverei di nessuna perfezione.
    2. In secondo luogo, dovrei avere una forza per crearmi una volta e per mantenermi nell’esistenza. Infatti non solo una cosa esiste ma si conserva. Ma la forza richiesta dalla creazione della cosa è la stessa necessaria per la sua conservazione. Se io avessi tale forza sarei anche consapevole di averla. Eppure non ho alcuna coscienza di quella così io non ho nemmeno la forza per crearmi.
    1. Tra l’altro in ciò c’è anche la ragione per cui non può essere provenire solo da una ragione meccanicista la mia esistenza: se io fossi determinato nell’esistenza esclusivamente dalla materia, senz’altro dovrei esserne da essa anche conservato. E tuttavia, se così fosse, dovrebbe esserci una concomitanza di cause che fosse così. Ma se posso concepire chiaramente che posso essere generato da altro a sua volta prodotto da qualcosa e così via, non posso fare questo ragionamento al presente. Così, ciò che mi conserva al presente non può che essere Dio stesso e non la materia.

Meditazione III.

Passi fondamentali.

Ripresa elementi precedenti.

« Ora chiuderò gli occhi e le orecchie, metterò da parte anche gli altri sensi, eliminerò dal mio pensiero persino le immagini delle cose corporee, o comunque (…) le considererò vane e false… (…)

Sono, dunque, io una cosa che pensa, vale a dire che dubita, afferma, nega, intende con l’intelletto (…), ignora (…), vuole, non vuola, ed anche sente e immagina ».

P. 59.

Definizione della verità come chiarezza e distinzione.

« Di sicuro in quella conoscenza, che ho per prima, non c’è altro che una percezione chiara e distinta di quel che affermo (…) mi sembra già di poter stabilire come regola generale che è vero tutto quel che io percepisco molto chiaramente e distintamente ».

Pp. 57-59.

Rievocazione del dubbio divino sulle idee matematiche.

« …mi veniva in mente che potrebbe darsi che un Dio mi abbia dotato di una natura tale che io mi inganni anche a proposito di quanto mi sembri chiarissimo… »

P. 59.

Sulle caratteristiche della mente.

« …io concepisco bensì sempre qualcosa come oggetto del mio pensiero, ma, oltre a questa rappresentazione di qualcosa, nel mio pensiero è compreso anche altro; e questi altri pensieri sono chiamati, rispettivamente, volontà, affetti e giudizi.

Ma per quanto riguarda le idee, se le si considerano in sé sole, senza riferirle ad altro, è impossibile che siano mai false, in senso proprio; ché, sia che io immagini una capra sia che immagini una chimera, non è meno vero che immagino questa di quanto lo è che immagino quella. E neppure nella volontà, in quanto tale, oppure negli affetti, è da temere che si trovi alcuna falsità; che, per quanto io possa desiderare delle cose cattive, o magari anche delle cose che non esistono affatto, tuttavia non perciò è meno vero che le desidero. Quindi non restano che i giudizi, nei quali io debba guardarmi dall’ingannarmi ».

P. 61.

La natura dell’errore.

« L’errore (…) consiste nel giudicare che le idee che si trovano in me siano simili, o conformi, a cose fuori di me… »

P. 61.

La distinzione delle idee.

« Delle idee, poi, alcune mi sembrano innate, altre avventizie ed altre fatte da me ».

P. 63.

Le idee avventizie.

« … delle idee che considero derivare da cose fuori di me, si hanno da considerare, qui, le ragioni che mi inducono a ritenerle somiglianti a tali cose. Esse sono due: mi sembra che ciò me lo insegni la natura, ed inoltre faccio esperienza che tali idee non dipendono dalla mia volontà, e quindi non da me stesso, dal momento che spesso mi si presentano anche mio malgrado (…) ».

P. 63.

L’esempio del sole.

« Così, per esempio, trovo in me due idee diverse del Sole: una, che si presenta come se derivasse dai sensi ( un buon esempio delle idee che chiamo avventizie ), per la quale il Sole mi appare come alquanto piccolo, ed un’altra, derivata dai calcoli astronomici, e cioè da talune conoscenze innate in me (…) dalla quale il Sole mi è mostrato come parecchie volte più grande della terra; ma di certo, allora, non possono essere entrambe somiglianti al Sole che si trovi fuori di me, ed anzi la ragione mi persuade che semmai gli somiglia meno proprio quella che invece sembra derivare direttamente da esso ».

P. 65.

Qualificazione delle idee.

« Senza dubbio, infatti, quelle che mi rappresentano delle sostanze sono qualcosa di più, o, per così dire, contengono in sé più realtà “oggettiva”, che non quelle che mi rappresentano soltanto dei modi, ossia degli accidenti… ».

P. 67.

Dimostrazione dell’esistenza dell’idea di Dio.

« … fra le idee di sostanze, a sua volta quella con cui concepisco un Dio sommo (…) di certo ha in sé più realtà “oggettiva” che non le idee che mi rappresentano sostanze finite.

D’altra parte, è manifesto per luce naturale che in una causa efficiente totale ci deve essere almeno tanta realtà quanta ce ne sia in un suo effetto (…) Ne segue che è impossibile che nulla sia prodotto dal nulla, e quindi neppure che quel che sia maggiormente perfetto, e cioè contenga in sé più realtà, sia prodotto da quanto ne contenga di meno. (…) è chiaramente vero (…) anche delle idee, considerando adesso la realtà “oggettiva” contenuta in esse (…). …che vi sia almeno altrettanta realtà “formale” quanta è la realtà “oggettiva” che l’idea stessa contiene; ché, se si supponesse che nell’idea si trovi alcunché che non si trovi già nella sua causa, allora lo avrebbe dal nulla (…). Ma alla fine cosa concluderò? Questo: che, se in qualcuna delle mie idee ci fosse tanta realtà “oggettiva” che io sia certo che non possa darsi che in me ci sia altrettanta realtà né “formalmente” né “eminentemente”, quindi che non può darsi che la causa di tale idea sia io stesso, ne seguirebbe necessariamente che nel mondo non ci sono soltanto io, ma esiste anche qualche altro ente, che è la causa di quell’idea ».

Pp. 67-69.

La falsità materiale.

« Infatti, ho bensì notato sopra che la falsità, intesa in senso proprio, o formale, non si può trovare che nei giudizi; e tuttavia nelle idee c’è di certo un’altra falsità, che si potrebbe dire materiale, allorché esse rappresentino una non-cosa come se fosse una cosa. Per esempio, le idee che io ho del caldo e del freddo sono così poco chiare e distinte che da esse non posso apprendere se il freddo sia soltanto privazione del caldo, oppure se sia il caldo ad essere privazione del freddo, oppure se siano entrambi qualità reali, oppure se non lo siano né l’uno né l’altro ».

P. 71.

La soggettività delle idee secondarie.

« Per tanto, non è necessario, sicuramente che a idee di questa natura io assegni altro autore che me stesso (…) ».

P. 73.

Definizione positiva di Dio.

« Ora, per Dio intendo una sostanza infinita, indipendente, sommamente intelligente, sommamente potente, e dalla quale siamo creati sia io stesso sia tutto quanto d’altro esista (…) ».

P. 75.

Il problema dell’infinito.

« dal momento che sono finito, l’idea di una sostanza infinita non sarebbe in me se non mi venisse da una sostanza che infinita lo sia effettivamente ».

P. 75.

Sull’idea di Dio.

« … l’idea di Dio è quanto mai chiara e distinta e contiene più realtà “oggettiva” di qualsiasi altra ».

P. 75.

Problema delle attribuzioni indebite a Dio di ciò che compete a me.

« … e tutte quelle perfezioni che attribuisco a Dio siano in me in potenza, in qualche modo, anche se finora non si siano date a vedere passando in atto? ».

P. 77.

Se non fosse Dio il creatore di me stesso. E risposte.

« In tal caso, dunque, a chi dovrei di esistere? E’ semplice: lo dovrei o a me steso, o ai miei genitori, o a qualsivoglia altro ente meno perfetto di Dio dal momento che niente si può pensare, anzi neppure fingere, di più perfetto, od anche altrettanto perfetto, che lui.

Ma, se di esistere io lo dovessi a me stesso, non dubiterei, non desidererei, ecc., perché non mi mancherebbe assolutamente niente, in quanto mi sarei dato tutte le perfezioni di cui ci sia in me un’idea, e così proprio io sarei Dio. (…) se dovessi a me stesso quel che è di più, e cioè appunto di esistere, non mi sarei negato non soltanto quel che si può avere più agevolmente, ma neppure niente di tutto il resto che percepisco nell’idea di Dio ».

P. 79.

Da dove viene l’idea che ho di Dio.

« … non l’ho derivata dai sensi, perché non mi si è mai presentata mentre non me l’aspettavo (…), e neppure l’ho costruita io stesso, dal momento che non mi è affatto possibile di toglierle o di aggiungerle alcunché; per cui non resta se non che sia innata a me (…) ».

 

Riassunto discorsivo

Nella prima meditazione Cartesio pone in campo tutte le ragioni di dubbio sulle vecchie opinioni, prima di tutto sull’idea che la mia conoscenza delle cose al di fuori di me passi attraverso i sensi. Senz’altro questa tesi empirista non solo non è accettata da Cartesio, ma è pure l’idea stessa da combattere.

Nella seconda meditazione eravamo riusciti a giungere alla prima verità: l’esistenza dell’io e di alcune caratteristiche della mia natura. Io infatti penso, ma non posso dubitare del fatto che il mio pensare consista in atti volitivi ( io voglio, desidero ), in atti cognitivi ( io intendo ), in atti sensitivi ( io sento e immagino ).

Ma la strada per la verità e, soprattutto per una possibile conoscenza delle cose esterne è molto lunga. Infatti non si deve mai dimenticare che il secondo dubbio, connesso al primo, è proprio sulla esistenza delle cose esterne e sulla loro eventuale conoscenza ( primo dubbio ). La dissoluzione del dubbio sulle cose esterne arriverà solo quando avrò la certezza non solo della loro esistenza, ma anche della loro possibile conoscenza esatta. L’obbiettivo di Cartesio è quella di fondare una scienza del mondo del tutto a priori, fondata sulla concezione fondamentale che le cose siano composte da essenze matematiche. Se l’impostazione di fondo mira a questo risultato, allora a Cartesio servono la dimostrazione tanto della possibilità di conoscere effettivamente le cose fuori di noi, in primo luogo, in secondo che tali cose esistono e, in fine, ne abbiamo una conoscenza certa.

Ma dove si può fondare questa certezza?, una indubitabilità assoluta? Ci vuole un ente che sia garante tanto della mia realtà mentale che di quella extramentale. Quindi da un lato che io sia creato in modo da non ingannarmi ogni qualvolta io penso, da un lato, ma che anche le cose che siano fuori di me siano proprio come io le penso. In poche parole, deve esistere Dio, un Dio che mi ha creato in maniera tale che non mi inganni a partire dal mio solo uso dell’intelletto e che abbia anche fatto le cose fuori di me.

Prima di passare alle due prove dell’esistenza di Dio, facciamo caso che il Dio cartesiano ha una funzione duplice, da un lato è il criterio stesso e punto fondante della conoscenza certa, è il criterio stesso e punto fondante di tutte le cose che esistono e della loro conservazione. Da qui si intuisce chiaramente che Dio è garante tanto dell’essenza che dell’esistenza delle cose. E’ da questa concezione che si vede chiaramente come la conoscenza e l’esistenza, l’essenza e la presenza possano essere compatibili e sovrapponibili, per Cartesio. Tutto ciò a patto di conoscere chiaramente e distintamente.

Ma Dio esiste? Per il momento ho solo il mio buon Dio della vecchia opinione del quale non so se sia o non sia ingannatore. Ma si deve sempre partire dal noto per andare verso l’ignoto e non dall’ignoto al noto: intelligas ut credas! Così io sono sicuro della mia esistenza, allo stesso modo, è anche fuori di dubbio che io abbia in me l’idea di Dio. L’idea che io ho di Dio ha molta più realtà “oggettiva” ( contenuto dell’idea ) dell’idea che io ho di me stesso, in altre parole, l’idea di Dio implica una realtà, un essere di gran lunga maggiore che io stesso. Ma ciò significa che io non posso essere causa adeguata dell’idea che io ho in Dio. Dunque è Dio stesso la causa dell’idea che io ho di lui.

La seconda dimostrazione è un po’ più articolata ma verte sempre sullo stesso punto. Io ho l’idea di Dio, l’idea di Dio ha una realtà “formale” e una realtà “oggettiva”. Tutto ciò che esiste ha una causa e nulla nasce dal nulla. L’idea di Dio non l’ho formata a partire da altre idee. L’idea di Dio è dunque a me innata. Ma allora chi è la causa adeguata dell’idea che mi sorpassa di gran lunga quanto ad essere? Non posso essere io, altrimenti io potrei essere il creatore di me stesso e ciò non è possibile. Ma non può essere nemmeno un insieme di altre idee giacché delle idee meno perfette, meno complete, dell’idea di Dio non possono essere causa di un’idea di gran lunga, giacché infinitamente perfetta, più positiva-affermativa. La causa, in quest’ultimo caso, sarebbe del tutto inadeguata, giacché da una piccola causa deriverei grandi effetti. Ma io tuttavia sono meno perfetto di Dio eppure ho la sua idea di sé, che è perfetta come lui, mio creatore. Ciò significa che Dio è mia causa eminente, e cioè che la natura della causa si trasmette solo parzialmente all’effetto.

Ma Cartesio, oltre a proporre queste due possibili dimostrazioni di Dio, vuole anche procedere per negazione: ammettiamo ( dubitiamo, per un momento ) che Dio non esista. Di certo io sono qui, in questo momento che penso, dunque esisto. Ma se tutto ha una causa, allora deve esistere anche una causa della mia esistenza. E va da sé allora che, non esistendo Dio, o io sono creato solo dai miei genitori, o sono il creatore di me stesso. Vediamo singolarmente i due casi e iniziamo da me come mio possibile creatore.

Se io sono il mio creatore allora sono con tutte le perfezioni che io predico di Dio. Infatti se fossi stato io l’artefice di me stesso, io che sono in grado di concepire molte perfezioni che mi sorpassano, di certo mi sarei dotato di tutti quegli attributi che io predico non miei ma di Dio. E così, io, proprio perché sono limitato, non sono il creatore di me. Inoltre, per essere il mio stesso creatore, dovrei avere una forza sufficiente tanto per crearmi quanto per conservarmi nell’esistenza. Ma ciò nemmeno è possibile perché sarei consapevole di questa forza. Ma io non ne sono consapevole affatto, e non per nulla: ma perché non c’è. Dunque abbiamo appurato che io non sono creato da me stesso.

Ma poniamo il caso che o il caso o il meccanismo naturale mi abbiano portato ad esistere, potrebbe non esistere Dio e io esistere. Anche in questo caso, però, devo giustificare non solo la mia stessa creazione, ma pure la mia conservazione. Posso infatti benissimo pensare che esista una serie infinita di cause a me precedenti, dove Dio è causa prima nel senso che egli è causa di sé, ovvero egli esiste e si conserva a partire dalle sue sole forze, ma non posso pensare che quella serie infinita di cause sia anche ciò che mi conserva al presente. Infatti io posso pensare ad un passato causale che mi determina al presente l’esistenza, ma non posso pensare allo stesso modo per la mia conservazione attuale: dovrebbe esserci in un medesimo istante una serie infinita di cause che mi conservano. Ma nel solo tempo presente, che è quello che esiste in atto, una serie infinita causale non è semplicemente pensabile. Dunque se la materia può essere la causa della mia esistenza, non può esserlo della mia conservazione. Ciò significa una sola cosa: che la materia non basta a spiegare la mia esistenza.

E così, se non io, se non la materia allora la mia esistenza deve essere dovuto a qualcun altro: Dio. Ed ecco che sia in via di dimostrazione diretta e positiva, che per dimostrazione negativa e indiretta, Dio va affermato allo stesso modo, dunque la sua esistenza è proprio fuori di ogni possibile dubbio giacché tanto dalla negazione che dall’affermazione dell’esistenza si giunge a confermarla. Dunque Dio esiste con la stessa certezza della mia stessa esistenza.

A questo punto non sembra essere fuori luogo guardare dentro la natura della mente e cercare di comprendere quali tipi di idee abbiamo. Intanto abbiamo trovato un secondo criterio di verità: ciò che è vero è anche chiaro e distinto. Infatti, se io penso, io esisto è vero, e ciò lo concepisco chiaramente e distintamente, allora, ogni singola idea se è chiara e distinta si può dire a ragione che è vera.

I criteri cartesiani di verità sono diventati due: il primo era l’esser fuori di dubbio. Ma questa era una caratterizzazione negativa della verità. Essa era solo ciò che non si poteva negare, in buona sostanza. Ma adesso si ha finalmente la concezione cartesiana affermata: ciò che è chiaro e distinto è vero perché quel che riconosco come vero è anche chiaro e distinto.

Nonostante adesso sappiamo che solo due idee sono vere, cioè che io esisto e che esiste anche Dio, possiamo guardare al complesso delle idee per comprendere se ve ne sia qualcuna e di che genere sia.

Intanto partiamo dalla solita sensibilità: essa, lo so per insegnamento naturale, mi indica qualcosa sulla natura dei corpi esterni. E ciò è anche mostrato dal fatto che la sua attività non è a partire dalla mia volontà: io non sono in grado di vedere o non vedere, una volta che apro gli occhi. Allo stesso modo, non posso privarmi di sentire. Queste idee Cartesio le chiama “avventizie”, in quanto sono desunte dall’esterno, non sono a partire dalla mia stessa natura. Esse sono a me successive e, contemporaneamente non determinate da me.

Ma possiamo pensare anche al fatto che dalle idee avventizie, noi ci facciamo una marea di altre idee composite, come le immagini dei quadri sono composte, allo stesso modo noi sommiamo inconsciamente o consciamente sensazioni. Questa è la capacità propriamente di formare immagini composte, ovvero derivate da altre successive a me, per ciò non innate; dunque Cartesio la chiama “immaginazione”.

Certo, sappiamo benissimo che non ci si può fidare né della sensibilità né dell’immaginazione, ma non posso dubitare che io senta effettivamente qualche cosa quando percepisco, né che ho delle immagini, vere o false che siano.

Ma esistono delle idee a me precedenti, delle idee innate. Innate non significa che sono derivate da me dalla memoria ( come per esempio diceva Agostino di Dio ), ma che derivano semplicemente dalla nostra natura. Io penso come penso perché sono fatto così. Innato allora significa semplicemente una conoscenza non-inferenziale, non ulteriormente scomponibile e dalla quale derivano le altre conoscenze. L’innatismo non va interpretato come ciò da cui io conosco per somme o differenze. Infatti io “scopro” le idee innate tramite dimostrazioni, ma quello è solo un modo per giungere ad una chiarezza e distinzione maggiore, ma quando faccio delle dimostrazioni non creo nulla di nuovo. Tutto ciò che si può sapere è già in me perché io sono fatto così.

A questo punto, possiamo tirare le somme di tre meditazioni. Se la prima era puramente distruttiva, in quanto non pone che ragionevoli dubbi sulla natura delle mie vecchie opinioni, se la seconda incomincia a scavare nell’intimità della natura dell’io trovandone una chiara verità, alla terza meditazione giungiamo a scoprire che io non sono solo, ma esiste anche qualcos’altro, un Dio che può davvero tutto, che mi ha creato in un certo modo e che io conosco attraverso l’intelletto.

Dio è così la sostanza assolutamente infinita che mi causa in me la sua idea e, dunque, l’idea stessa dell’infinito. Ed è da questo suo attributo che proprio non posso dubitare della sua esistenza: senza questa idea sua, che implica anche quella di infinito, io in alcun modo potrei arrivare alla conoscenza adeguata dell’infinito, giacché non si arriva mai ad esso per sola negazione del finito.

Ma di Dio non sono in grado di comprendere tutto, proprio perché è infinito. Egli è sommamente perfetto e, dunque, mi sorpassa di moltissimo. Così sarebbe indebito credere di poter capire i suoi fini, per quanto riguarda lo svolgimento della natura. Per conoscere i suoi fini, bisognerebbe avere la sua stessa conoscenza infinita. Ma ciò non è semplicemente possibile.

E così adesso abbiamo qualche nozione in più. Sappiamo che noi esistiamo come cose pensanti, sappiamo che una sostanza creatrice, infinita, sommamente potente e che conosce tutto ci ha creati in questo modo ed esiste, sappiamo che le idee o sono innate, e sono anche vere, chiare e distinte, o sono fattizie o avventizie e, in ogni caso, confuse e parziali, sappiamo che è vero ciò che è fuori di dubbio e ciò che è chiaro e distinto.

Non sappiamo ancora nulla del mondo esterno, a parte che Dio esiste, ma abbiamo finalmente un solido insieme di nozioni dalle quali partire.

 

Quarta meditazione. Il vero e il falso

Schema generale quarta meditazione.

  1. Ricapitolazione delle conoscenze indubitabili.
    1. Io penso, io esisto.
    2. Dio è una sostanza indipendente, infinita, onnipotente e onnisciente e creatrice.
    3. La verità è ciò che è indubitabile e ciò che è chiaro e distinto.
  2. Sulla definizione del Dio non ingannatore.
    1. Dio non può ingannarmi perché è perfetto.
  1.                                                               i.      Ed eccoci finalmente approdati al punto nodale di tutte le meditazioni. La definizione del Dio non ingannatore. Egli non deve esserlo perché, se lo fosse, anche sono in linea di principio, non avrei nessuna garanzia di conoscere il vero e il falso.
  2.                                                             ii.      Dio non può ingannarmi perché già solo dall’idea che Dio sia perfetto e che, contemporaneamente, mi inganni segue contraddizione: l’inganno denuncia manchevolezza infatti egli mi ingannerebbe perché lo desidera. Ma come faccio a pensare che Dio desideri qualcosa nella misura in cui di lui si deve predicare ogni perfezione?
  3.                                                               i.      Infatti dal solo fatto che egli non può ingannarmi, perché perfetto, ne discende che allora è verace. Da ora in poi sappiamo che a Dio, oltre ai suoi soliti attributi, compete anche la veracità.
  4.                                                             ii.      Ciò non era una cosa ovvia, come si era fatto notare a suo tempo. Infatti potevo benissimo concepire un Dio buono e ingannatore. Ma ora che contemplo Dio con la mia facoltà conoscitiva, l’intelletto, non può essere che mi inganni: Dio non può essere contraddittorio a meno di non essere perfetto. Dunque la veracità di Dio è garantita dalla sua stessa natura.
  5.                                                           iii.      In questo senso, non è che Dio in linea di principio, e Cartesio lo ha fatto notare già alla prima meditazione, non possa essere ingannatore. Solo dopo la conoscenza chiara e distinta di Dio, come di colui che si predica ogni perfezione, non si può dire che mi inganni senza cadere nell’assurdo.
  6.                                                               i.      L’intelletto è la facoltà che io uso per conoscere. Ciò che conosco mi viene da Dio e, in questo senso, sin tanto che rimango all’interno del mio intelletto finito non può essere che mi sbagli.
  7.                                                             ii.      Infatti se Dio non è ingannatore, se la mia natura è fatta in modo che io non mi inganni, se le idee innate non sono idee fattizie né avventizie e sono, quindi, nel mio intelletto, allora va da sé che l’intelletto non mi conduce mai all’errore.
  8.                                                               i.      L’errore di negazione è una mancanza data direttamente dalla natura della cosa. Per esempio, che io non sia un gatto è dato direttamente dal fatto che io sono un uomo, così non posso lamentarmi se a me non compete la proprietà di cadere sempre in piedi.
    1. L’errore di negazione non è dunque un errore in sé. Una cosa, per quanto limitata, può essere percepita perfetta per sé. Così l’errore di negazione non è un vero e proprio errore in quanto non determina alcun errore, ammesso che io segua la mia natura.
    2. Se io seguissi sempre la mia natura, ovvero la mia ragione, come potrei mai sbagliarmi? Eppure io spessissimo seguo i sentito dire, informazioni parziali che mi giungono dalla vista o dall’udito, mi lascio trascinare dalle emozioni e così sbaglio. Ma tali errori dipendono esclusivamente dal fatto che io mi sono lasciato condurre dagli eventi, invece di seguire ciò che mi diceva la mia ragione.
    3. Questo secondo Cartesio, non è un errore imputabile a nulla che a me stesso, giacché le possibilità per agire saggiamente le ho tutte, non posso poi lamentarmi di altri che di me, se non sono stato capace di agire rettamente.
  9.                                                             ii.      L’errore di privazione è invece quella mancanza in un ente di una proprietà che gli compete.
    1. Per esempio, se io fossi zoppo dalla nascita, il fatto che io inciampi spessissimo non dipenderebbe da me, e questo è invece propriamente errore eventualmente imputabile a Dio.
    2. Il problema, a questo punto è infatti sostenere che Dio non può mai essere causa dei miei errori.
  10.                                                               i.      La libertà d’arbitrio è la libertà di indifferenza. Io sono capace di determinarmi anche quando non sono in grado di capire se una possibilità è meglio dell’altra.
  11.                                                             ii.      Questa libertà, secondo Cartesio, è il grado infimo della libertà in quanto è la stessa causa degli errori ( come vedremo ) e non implica in alcun modo il concorso di me come intelletto, dunque della mia natura.
  12.                                                           iii.      La libertà di arbitrio, o libertà di scelta, si configura come un che di negativo in quanto io scelga arbitrariamente sono nella misura in cui io non posseggo alcuna ragione per decidere in un senso e in un altro. E nella misura di ciò, in un certo senso, lascio che sia il caso a decidere.
  13.                                                               i.      Che l’uomo sia in grado di pensare è dato dal solo fatto di essere un uomo. A pensare non può essere costretto, al limite indotto, ma quando penserà di per sé lo farà a partire dalla sua sola natura.
  14.                                                             ii.      In questo senso, la libertà come spontaneità è legata strettamente alla libertà come assenza di costrizione. In effetti, io faccio spontaneamente quello che faccio, ovvero seguo solo la mia natura, nella misura in cui non sono costretto ad agire altrimenti.
  15.                                                               i.      La libertà come assenza di costrizione è la libertà ammessa dal determinismo. Ovvero, non ha importanza se precedentemente a me, alle mie spalle, esista una catena causale che mi ha portato ad agire in un certo modo, ciò che conta è che quel mio agire sia seguito dalla mia natura e non dalla natura di qualcos’altro.
  16.                                                             ii.      In questo senso, io posso benissimo essere condotto a fare quello che faccio da cause a me antecedenti, ma ciò non significa che quel che faccio non segua la mia stessa definizione.
    1. In questo senso, si può dire che non è libera quell’azione compiuta in contrasto con la mia definizione. Se io sono condotto a pensare in un certo modo, preciso e determinato, sarò anche costretto a pensare e agire in un modo preciso e determinato. Ma questo modo implica che si vada contro la mia stessa convinzione. E dunque io non sono affatto libero di agire e pensare.
    2. In effetti, nella storia coloro che si sono occupati in una certa misura della “Libertà” dei popoli e della loro educazione, si sono sempre mossi per limitare questa “libertà” di assenza di costrizione, generalmente sostituendo pregiudizi con nuovi, non rendendosi conto che non c’è miglior uomo e uomo più tranquillo che quello che pensa secondo ragione e non secondo pregiudizio.
    1. Dio non può ingannarmi perché è verace.
    1. L’intelletto mi è dato direttamente da Dio per comprendere.
  1. Il problema sulla natura dell’errore sorge da sé: se Dio non è ingannatore, perché fa sì che io talvolta mi inganni?
    1. La natura dell’errore può essere suddivisa in due generi: l’errore di privazione e l’errore di negazione.
    1. Gli errori di natura sono di due tipi. Ma solo uno può essere imputato eventualmente a Dio: l’errore di privazione. Si può semplicemente dire che ciò che io concepisco come errato, può essere concepito come perfetto da Dio perché egli ha sott’occhio non la singola cosa, ma l’insieme di tutte le cose. Così il male di uno può significare il bene di molti.
  1.  La natura dell’errore dell’Io implica la volontà e la conoscenza.
  2. L’errore è determinato, secondo Cartesio, dalla volontà e conoscenza. Così senza conoscenza e senza volontà non ci sarebbe l’errore.
  3. La volontà è infinita perché può desiderare tanto il vero quanto il falso.
    1. Già la verità è finita solo per noi menti finite, solo in linea pratica, perché mai saremmo in grado di conoscere tutto, ma è il linea di principio infinita. Ma la falsità è di fatto infinita. E se si sommano due infiniti il risultato non può che essere infinito.
    2. Si tenga pure presente che la volontà è infinita allo stesso modo della volontà divina. In noi non c’è attributo più vicino a quelli divini che la volontà stessa.
  4. La libertà umana è di tre tipi: spontaneità, d’arbitrio, assenza di costrizione.
    1. La libertà come arbitrio è la possibilità della volontà di scegliere tra due possibilità alternative senza che la mente abbia una ragione particolare per propendere da una parte e dall’altra.
    1. La libertà come spontaneità è quella libertà che segue direttamente dal nostro volere che scaturisce dalla nostra stessa natura.
    1. La libertà come assenza di costrizione è la libertà di determinazione dell’azione ovvero io faccio quello che faccio perché sono determinato esclusivamente da me a fare quel che faccio.

Intelletto

Sensibilità

Immaginazione

Libertà spontaneità

X

Libertà come assenza di costrizione

X

Libertà come arbitrio

X

X

  1. L’errore è sempre causato da una ignoranza così, se non voglio sbagliare, allora posso sospendere il giudizio.
    1. L’errore è causato dalla conoscenza unitamente alla volontà.
    2. Io conosco a partire dai sensi idee confuse, io mi formo altre idee confuse a partire dalla mia immaginazione, mentre conosco il vero a partire dalle mie idee innate.
    3. Noi abbiamo diversi modi per intendere qualcosa, dunque, al variare del modo con cui intendo le cose varierà la mia possibilità di sbagliare.
  1.                                                               i.      Se io intendo le cose con l’intelletto, non posso negare l’assenso alle cose che conosco in quanto vere. Dunque la mia volontà è “costretto” a seguire ciò che conosco a partire dalla mia ragione.
    1. Ma questa volontà non è “costretta” ma è libera: infatti io sono libero se segui liberamente la mia natura. Siccome io sono un uomo che pensa e il mio stesso pensiero, come intelletto, è la mia stessa essenza, allora se seguo il mio pensiero non posso andare contro me stesso, ma, viceversa, lo seguirò e sarò in ciò libero.
    2. Inoltre, si faccia caso che le idee dell’intelletto sono le sole vere, ovvero le idee innate. Ma sappiamo bene che le idee innate sono idee che scaturiscono dalla mia sola natura. Seguire le ( mie ) idee innate significa direttamente seguire la mia natura.
  2.                                                             ii.      Se io conosco a partire dai sensi non potrò che avere delle idee confuse e parziali. Ciò non toglie che io effettivamente possieda delle idee siffatte. Sappiamo che è causa di errore contemplare le idee secondarie come se fossero fuori di me ( non posso dire che i colori siano delle cose senza ammettere che non ho una conoscenza adeguata del mondo e delle cose ). Se dunque determino la mia volontà a partire dalla sensibilità posso benissimo affermare una cosa vera, ma, se proprio dovesse capitare ( ché siamo di fronte ad una possibilità remota, seppure possibile ) è grazie alla democrazia del caso e non alla mia adeguata conoscenza.
    1. In questo senso, dobbiamo pensare alla volontà come ad un colpo di dadi. Pensiamo per esempio di essere di fronte al quiz di scuola guida e abbiamo tre possibilità. Se io non sono in alcun modo di avere una conoscenza adeguata della risposta al quesito, pur di rispondere, tiro a caso. Poniamo che io abbia un dado di tre facce ( esiste ed ha una forma piramidale, per chi non lo sapesse! ) e lo tiro. Il numero che tiro sarà la scelta che faccio.
    2. Come è chiaro da questo esempio, noi, se determiniamo la nostra volontà a partire dall’arbitrio, non stiamo compiendo un atto positivo, ma agiamo, in una certa misura, a caso. Agire a caso implica che siamo in balia di forze più grandi di noi, che in una certa misura ci sovrastano e che non comprendiamo. Così ci lasciamo guidare da esse.
    3. Chiaramente Cartesio indica in questa possibile determinazione della volontà, come un che di negativo. Infatti noi non arriviamo ad affermare la nostra volontà, ma agiamo a partire da una nostra incertezza e, quindi, non affermiamo alcun che di nostro, in senso proprio.
  3.                                                           iii.       Se io conosco a partire dall’immaginazione, vale lo stesso discorso fatto per la sensibilità, dal momento che la mia immaginazione è una facoltà conoscitiva che implica altrettanta inadeguatezza e parzialità della sensibilità. Dunque, se determino la mia volontà a partire dall’immaginazione, sarò molto probabilmente condotto a sbagliare.
    1. Tanto per quel che riguarda la sensibilità che l’immaginazione, si tenga conto che esse sono capaci di determinare la volontà, per quanto lo facciano male ( anche se, se utilizzate bene, hanno una loro funzione positiva ) perché sono comunque forme del pensiero e forme di conoscenza.
    2. La conoscenza che abbiamo dai sensi non è pari a zero, ma indica qualche cosa, per quanto questo qualche cosa sia un che di parziali e manchevole, che non riesce mai a definire le proprietà degli oggetti. Dunque noi sbagliamo spesso proprio perché notiamo una sorta di somiglianza tra ciò che percepiamo dai sensi e ciò che pensiamo che esiste.
  4.                                                           iv.      L’errore, fin qui inteso, è l’errore di giudizio. A questo punto va notato che, in quanto per Cartesio ogni atto mentale è un atto consapevole, allora noi siamo in grado di essere consapevoli delle nostre conoscenze adeguate e delle nostre conoscenze inadeguate. Se noi siamo così in grado di discernere ciò che è senz’altro lecito dire e ciò che non lo è, allora siamo anche in grado di non sbagliare. Infatti, se noi, preso atto del fatto che sbagliamo solo quando abbiamo una conoscenza inadeguata, allora basterà sospendere il giudizio ogni qual volta non abbiamo conoscenza adeguata della cosa.
    1. E si faccia caso al fatto che l’errore è sempre implicato dalla volontà, dunque è propriamente sempre volontario. Se io volessi, non sbaglierei mai.
    2. A questa concezione dell’errore è connessa la concezione del peccato. Il peccato è ciò che è determinato dall’ignoranza, giacché, se conoscessi adeguatamente le cose, non potrei certamente mai sbagliarmi.
    3. Ma nella misura in cui mi lascio condurre dalla mia conoscenza parziale, dalle mie inclinazioni e sensazioni allora sarò costretto ad assentire spesso su cose di cui non so una beneamata mazza.

 

Intelletto  Sensibilità/immaginazione

Volontà +

Asserzione vera

Asserzione o vera o falsa.

  1. In conclusione, Dio ci ha messo nelle condizioni di non sbagliare mai e, se sbagliamo, è per colpa della nostra ignoranza. Dunque, dobbiamo riconoscere merito a Dio per averci fornito, di certo, per il momento, almeno due facoltà assolutamente perfette: l’intelletto perché è capace di farci conoscere la natura reale delle cose, e la volontà che per dignità è pari agli attributi di Dio, in quanto infinita. Poi, se noi fossimo sempre sufficientemente lucidi, sapremmo benissimo frenare il nostro assenso di fronte a ciò che non sappiamo, limitandoci di dire sciocchezze.

 

Meditazione IV

Passi fondamentali.

 

Il Dio non ingannatore.

« Per cominciare, dunque, riconosco che non può accadere che Dio mi inganni mai; ché in ogni frode o inganno si trova un qualche genere di imperfezione… »

P. 89.

La definizione dell’intelletto.

« … poiché egli non mi ha  dato una facoltà di giudicare tale che possa darsi che io erri finché ne faccio un uso corretto ».

P. 89.

Problema: se Dio non è ingannatore, allora perché mi inganno?

« Su ciò non rimarrebbe alcun dubbio, se non sembrasse però seguirne allora non può darsi neanche che io erri mai… »

P. 89.

Risposta al problema dell’errore.

« E’ invece quando mi rivolgo a me stesso che constato di essere tuttavia soggetto a innumerevoli errori (…) Così comprendo che l’errore, in quanto è errore, non è alcunché di reale, che dipenda da Dio, bensì soltanto un difetto, e che, quindi, per errare non ho bisogno di una facoltà, che ho da Dio, di giudicare correttamente ».

P. 89.

Riformulazione del problema dell’errore.

«  …l’errore non è una mera “negazione”, bensì una “privazione”, ossia la mancanza di conoscenze che in qualche modo dovrebbero trovarsi in me… (…) Dio avrebbe potuto crearmi tale che io non mi ingannassi mai ».

P. 89-91.

Sulla questione delle cause finali in fisica.

« E questo basta perché io giudichi prive affatto di utilità, in fisica, tutte quelle cause che si sogliono considerare finali, dal momento che non potrei pretendere di indagare i fini di Dio senza peccare di temerarietà ».

P. 91.

Risposta dell’eventualità delle imperfezioni delle opere di Dio.

« … di Dio, non posso negare che, oltre a me, egli abbia fatto, o quantomeno possa fare, molte altre cose, in modo che io abbia appunto la funzione di parte nel complesso delle cose create ».

P. 91.

La natura degli errori.

« … mi rendo conto che dipendono da due cause che vi concorrono insieme: dalla mia facoltà di conoscere e dalla mia facoltà di scegliere, o libertà dell’arbitrio, ossia dell’intelletto e, congiuntamente, dalla volontà. Attraverso l’intelletto, difatti, mi limito a percepire le idee sulle quali posso poi pronunciare un giudizio; e in questo percepire, considerato rigorosamente a sé, non si trova alcun errore, in senso proprio ».

P. 93.

Sull’arbitrarietà.

« … per quanto abile artefice me lo rappresenti, tuttavia non perciò ritengo che avrebbe dovuto porre in ognuna delle sue opere tutte le perfezioni che può porre in alcune. Neppure posso poi lamentarmi di non aver ricevuto da Dio una volontà, o libertà dell’arbitrio, sufficientemente ampia e perfetta; ché constato che essa non è addirittura circoscritta da alcun limite. Mi sembra anzi ben degno di nota che invece nient’altro, di tutto il resto che è in me, sia tanto perfetto e ampio che potrebbe esserlo ancora di più ».

P. 93.

Varie definizioni di libertà.

« la libertà d’arbitrio consiste precisamente nel poter fare oppure non fare –vale a dire affermare oppure negare, perseguire oppure aborrire- una stessa cosa; o meglio nel procedere a affermare oppure negare, o a perseguire oppure aborrire, quanto c’è proposto dall’intelletto, senza sentirsi determinati da una forza esterna. Questa seconda formulazione è quella giusta, in quanto, perché io sia libero, non è necessario che propenda parimenti tanto da una parte quanto da quella contraria; ma, anzi, quanto più propendo per una parte (…) è tanto più liberamente che la scelgo, ché né la Grazia divina né la conoscenza naturale diminuiscono mai la libertà, bensì l’aumentano e rafforzano; e invece quell’indifferenza che provo quando nessuna ragione mi spinge da una parte più che dall’altra è piuttosto il grado infimo della libertà, ma solo un difetto ( nel senso di una “negazione” ) nella conoscenza, ché, se vedessi sempre chiaramente che cosa è vero e che cosa buono, non starei mai a deliberare su che cosa sia da giudicare vero o da scegliere come buono, e così, benché pienamente libero, nondimeno non potrei mai essere indifferente ».

P. 95.

La ragione dell’errore.

« … dal solo fatto che, dato che la volontà è più ampia dell’intelletto, io non la trattengo nei medesimi limiti di questo, bensì la estendo anche a quel che non intendo; e poiché rispetto a ciò essa è indifferente, facilmente deflette dal vero e dal buono, ed è così che io mi inganno o pecco ».

P. 95.

Sull’indifferenza dell’arbitrio.

« Questa indifferenza –si noti- non riguarda soltanto ciò di cui l’intelletto non ha alcuna conoscenza affatto, ma si estende, in generale, a tutto ciò di cui l’intelletto non abbia una conoscenza sufficientemente chiara… »

P. 97.

Sulla sospensione del giudizio: un buon modo di evitare l’errore.

« Quando, dunque, io non percepisca con sufficiente chiarezza e distinzione che cosa sia vero, se mi astengo dal dare un giudizio, è chiaro che allora agisco correttamente e non mi inganno… ».

P. 97.

L’errore visto con gli occhi di Dio.

« Quella “privazione”, invece, nella quale soltanto consiste l’essenza della falsità e della colpa, non ha affatto bisogno del concorso di Dio, perché in sé non è niente di reale, e, se invece la si riferisce a Dio come a causa di essa, allora non deve essere detta “privazione”, bensì meramente “negazione” »

P. 99.

Riassunto discorsivo

Da dove viene il nostro errare? Infatti non c’è bisogno di argomentare che si sbagli, tanto è frequente il fatto che lo facciamo.

Intanto, esso di sicuro non può derivare da Dio direttamente infatti Dio non può essere ingannatore. Dopo tre meditazioni e tanti dubbi angosciosi, finalmente Cartesio lo dice chiaramente: se comprendiamo la natura di Dio, con chiarezza e distinzione, non possiamo in alcun modo pensarlo come ingannatore. Egli infatti, per ingannarmi, dovrebbe prima di tutto desiderare un che di malvagio. Ma se così fosse, non sarebbe affatto perfetto, in quanto la malvagità è predicazione di manchevolezza ( sono malvagio in quanto non ho tutto, cosa che non si può certo dire di Dio ). Non solo, Dio non può nemmeno desiderare altro che il bene e, dunque, non può volere il male delle sue creature.

L’errore riferito alle cose è di due generi: o è “privazione” o è “negazione”. L’errore di negazione è ciò che una cosa non-può fare in quanto non gli compete a partire dalla sua sola definizione. Io non posso volare perché già nella definizione di uomo non è compresa la proprietà atta a farmi volare. Così se io mi lanciassi da un grattacielo con la speranza di librarmi in aria, vincendo la gravitazione universale, se morissi ( ammesso e non concesso!! ) non dovrei certo prendermela con Dio perché non mi ha fatto con le ali. In quanto uomo sarei anche perfetto, non in quanto uccello.

Ma potrei lamentarmi qualora fossi un po’ zoppo. Infatti, all’uomo compete il camminare, ma se io zoppico, non dipenderebbe da un difetto o un’inappropriatezza della mia stessa essenza, piuttosto dipenderebbe da Dio. Ma anche in questo caso, si può ben obiettare che questi errori sono concepiti da noi menti limitate e che non lo siano affatto per Dio stesso.

Se vado ben a guardare la natura degli errori, che sono sempre riferiti ai giudizi, scopro che occorrono sempre a partire da due cause: dall’uso della volontà e dall’uso di una mia facoltà conoscitiva. Infatti non mi potrei sbagliare o dire il vero se non pensassi e se poi non seguisse, a tale pensiero, relativa affermazione.

In questo senso, la volontà è criterio necessario e non sufficiente per l’errore. La volontà si caratterizza sia come facoltà di decidere una cosa o un’altra, sia a partire dalla sua propria libertà. E Cartesio parla di tre possibilità: la libertà come arbitrio, la libertà come spontaneità, la libertà come assenza di costrizioni. La prima incorre quando non so che pesci pigliare, la seconda quando agisco dalla mia stessa essenza, la terza quando agisco spontaneamente congiuntamente al fatto che non sono costretto da nulla.

Le tre libertà nella facoltà del giudizio sono determinate dalla stessa facoltà conoscitiva: se penso con l’intelletto allora penso idee innate, ma le idee innate sono sempre in me, ovvero sono la mia stessa natura, quindi non solo a partire da quelle non posso sbagliarmi, ma pure deve seguire un giudizio vero, come di fatto è e da quello segue anche, nel mio agire, la mia stessa natura.

Ma se la libertà è determinata dalla sensibilità allora non sarà determinata dalla facoltà di conoscenza solida e adeguata e ciò mi condurrà facilmente all’errore.

In definitiva, se la mia volontà coincidesse con l’intelletto potrei benissimo non sbagliarmi mai, e la mia libertà sarebbe sempre garantita. Eppure tutto il male della sensibilità non viene per nuocere, come vedremo alla fine della sesta meditazione.

l’essenza delle cose materiali, e di nuovo sull’esistenza di Dio

Schema generale della quinta meditazione.

  1. Alla ricerca delle idee chiare e distinte.
  2. Quando concepisco qualcosa chiaramente e distintamente contemplo delle verità a me innate.
    1. E dunque, se ogni idea vera è chiara e distinta e se ogni idea innata è chiara e distinta allora tutto ciò che è un’idea chiara e distinta è anche dell’idea innata.
    2. In altre parole, un’idea chiara e distinta è l’idea innata.
  3. Dimostrazione a priori dell’idea di Dio.
    1. Dio è l’essere di cui si predica ogni perfezione.
  1.                                                               i.      Per perfezione si intenda “statuto d’essere” ( ciò che una cosa è ).
  2.                                                             ii.      La predicazione delle(-a) perfezione attiene alla stessa definizione della cosa, ovvero alla sua essenza, a ciò che una cosa è. Così, se a una cosa non compete una certa proprietà positiva, ovvero una perfezione, essa sarà in sé perfetta ma per sé, cioè giudicata con gli occhi di chi è più perfetto, sarà imperfetta. Per esempio, un pallone da calcio è perfetto nel suo genere, ma sarebbe del tutto imperfetto se guardato come se fosse un cervello: sarebbe incapace di pensare proprio perché la sua stessa essenza non lo prevede. Quel pallone sarebbe in sé perfetto e per sé imperfetto.
  3.                                                           iii.      Naturalmente, di Dio non si può dire che sia in sé perfetto e per sé imperfetto giacché nulla esiste di più perfetto di Dio. A Dio cioè compete ogni qualificazione positiva: onnipotenza, onniscienza, infinitezza non sono che modi di spiegare una sola parola: perfezione.
  4.                                                               i.      L’esistenza è una perfezione, nella misura in cui, ciò che esistesse solo nel mio pensiero sarebbe molto più imperfetto di me.
  5.                                                             ii.      Ma già solo dall’idea che io ho di Dio non posso dire che egli sia meno perfetto di me, nel momento in cui io ho un’idea di Dio che mi sovrasta quanto a contenuto e non posso essermela costruita da me, ma da quella arrivo a tutte le altre.
  6.                                                           iii.      Dio dunque non può non esistere in quanto sarebbe un’imperfezione il fatto stesso che egli non esista. Ciò non è ammissibile per Dio e, dunque, Dio deve necessariamente esistere.
  7.                                                           iv.      Ciò dunque dipende dalla sola definizione di Dio e, dunque, siamo di fronte ad una dimostrazione a prioridell’esistenza di Dio. A priori perché partiamo dalla sola definizione, che non è determinata da alcuna esperienza né dagli effetti che Dio ha, per giungere all’affermazione dell’esistenza divina.
    1. Vanno notate due cose. Prima di tutto, che questa definizione ha molta solidità in quanto è a priori e somiglia alle dimostrazioni matematiche, e cioè che non necessitano in alcun modo di un sostegno esterno per essere vere; in secondo luogo che essa determina affermativamente l’esistenza di Dio. In questo senso, sia che da Dio si parta dalla definizione che dalla sua negazione, piuttosto che dai suoi effetti ( le due prove precedenti erano infatti a priori proprio perché partivano dagli effetti che noi abbiamo in noi, dunque dagli effetti per giungere alle cause ) si deve affermare che esiste.
    2. Questa dimostrazione non è originale di Cartesio, ma l’aveva già proposta, in un’altra veste, Sant’Anselmo d’Aosta: egli aveva detto che Dio era l’ente di cui non si poteva pensare più grande. Questo ente non può esistere solo nel mio pensiero in quanto sarebbe in ciò limitato e comunque potrei pensarne uno maggiore. Ma per definizione ciò non è possibile, dunque, Dio deve avere maggiore estensione del mio solo pensiero. Ma ciò implica che Dio deve essere anche esistente. Dunque Dio esiste tanto nel mio pensiero quanto fuori di me. L’essenza di Dio implica la sua stessa esistenza, la sua definizione implica che egli sia anche nel mondo.
    3. La comunanza delle due dimostrazioni è data dal fatto che entrambe devono concepire un modo per dimostrare Dio a prescindere dai suoi eventuali effetti. Ed entrambe vi giungono attraverso la definizione di un ente che non può dirsi limitato alla mia sola sua concezione ma, trapassandomi o per “grandezza” o per “contenuto”, devo ammettere che esista a prescindere dal mio pensiero. In effetti, a ben guardare, ciò non dovrebbe essere necessariamente inteso come un sorpassamento di realtà: potrei anche concedere che egli mi sorpassi nel pensiero, ma perché dovrei anche concedere che poi si dia effettivamente la sua esistenza?
    4. Entrambe le prove sono distanti invece da quelle tomiste, che partono tutte dall’idea di Dio come causa prima, mutuando la concezione aristotelica e riscrivendola con termini più cristiani. Se ammetto che esiste una causa per l’esistenza delle cose come sono ora, devo ammettere che esista una causa della causa e così via. Ma in questo modo non v’è un regresso all’infinito ma si giunge ad un termine ultimo che è una causa non-causata, un principio primo e ultimo, nel senso di non ulteriormente scomponibile. Tale principio primo è Dio.
      1. A questo proposito notiamo due cose. Primo che, in quanto la concezione del mondo di Cartesio deriva dalla matematica e dalla geometria, egli concepisce, come abbiamo visto il regresso all’infinito, per quanto riguarda le cause efficienti. E Spinoza arriverà a fare di questo una vera e propria ontologia.
      2. In secondo luogo, egli non pensa che Dio sia una causa incausata e causante ( cioè che non è determinato da niente ma che determina poi tutto ) ma pensa che Dio sia causa di sé: che significa che Dio ha nell’essenza ( definizione ) la stessa ragion d’essere della presenza ( esistenza ). In altre parole, egli è effettivamente causa di sé.
      3. Questa definizione non sarebbe mai stata sottoscritta da un tomista in quanto l’universo degli eventi aristotelici era inscritto in una circonferenza finita di possibilità. Cartesio fu uno dei primi a concepire l’universo effettivamente come infinito. Se c’era già stato qualcuno ( anche arso vivo ) che aveva sostenuto che la terra non è che un punto nell’infinito universo, Cartesio però fu il primo a fondare una scienza su questa concezione dell’estensione. In universo infinito, le prove causali dell’esistenza di Dio non possono essere ammesse, giacché è ammesso il regresso all’infinito causale.
    1. Se Dio è l’essere di cui si predica ogni somma perfezione, se l’esistenza è una perfezione allora di Dio si deve predicare che esiste necessariamente e senza dubbio.

 

Meditazione V.

Passi fondamentali.

Definizione dell’innatismo delle idee chiare e distinte.

«Orbene, io immagino distintamente la quantità che comunemente i filosofi chiamano continua, vale a dire l’estensione di una tale quantità (…) in lunghezza, larghezza e profondità; in questa distinguo varie parti, che enumero, ed alle quali assegno grandezze, figure, posizioni e movimenti locali i più vari, e a questi movimenti le durate più varie. Non soltanto poi, simili cose mi sono pienamente note e manifeste quando le considero in generale, bensì anche, prestando attenzione, innumerevoli verità particolari, relative a figure, numeri, movimenti, e così via. E le verità di questo genere sono tanto palesi ed in accordo con la mia natura che, quando le scopro per la prima volta, ho l’impressione, più che di imparare qualcosa di nuovo di ricordarmi di qualcosa che conoscevo già, ossia di prestare attenzione per la prima volta a quel che pure era già in me, anche se per l’innanzi non vi avevo ancora rivolto lo sguardo della mente ».

P. 105-107. ( Corsivo mio ).

“La prova ontologica” dell’esistenza di Dio.

« E’ certo, infatti, che l’idea di Dio, ossia di un ente sommamente perfetto, la trovo in me non meno dell’idea di qualsiasi figura o numero; e io non intendo meno chiaramente e distintamente che alla natura di Dio appartiene di esistere in ogni tempo di quanto intendo che alla natura di una figura o di un numero appartiene quel che io dimostri di essi; e pertanto –anche nel caso che non tutto fosse vero, quanto sostenuto nelle Meditazioni precedenti- dovrei esser certo dell’esistenza di Dio almeno altrettanto quanto finora lo sono sempre stato delle verità matematiche ».

P. 109. ( Corsivo mio ).

Eliminazione dei dubbi sino alle cose materiali.

« Però ormai so già che non è possibile che io mi inganni mai in quel che intendo chiaramente. O mi si opporrà che forse che altre volte ho ritenuto vero e certo molto che poi mi sono reso conto che era falso? Però niente di ciò avevo allora percepito chiaramente e distintamente, ma, ancora ignaro di questo criterio della verità di cui dispongo ora, l’avrò creduto per altre ragioni, che dipoi scoprii meno certe di quanto avessi ritenuto. E che si dirà ancora? Forse che può darsi che (…) io stia sognando, ossia che tutto quel che penso ora non sia più vero di quel che si presenta a chi sogna? Ma neppur questa obiezione regge, perché non fa differenza se io sia desto o sogni, in quanto è sicuro che, anche se ora io stessi sognando, quanto è evidente al mio intelletto è assolutamente vero ».

P. 117. ( Corsivo mio ).

Riassunto discorsivo.

Facciamo un attimo il punto: nella prima Meditazione Cartesio mette in luce l’insufficienza dell’impostazione aristotelica, criticando tutti i punti della sua epistemologia. E la prima Meditazione si sofferma a prendere atto che tutte le opinioni, che, ormai possiamo dirlo, passavano tutte dai sensi, erano quanto mai inadeguate, per una scienza che si voglia atteggiare ad essere al di fuori di ogni possibile errore, come la matematica.

Ma, stando alla prima Meditazione, addirittura un Dio potrebbe averci creato in modo tale da poterci ingannare. La prima verità certa ci giunge dalle tenebre: seppure posso dubitar di tutto, di ogni singola cosa, non posso dubitare che io penso, nel momento in cui il dubitare è già un modo del pensare. Così io esisto sin tanto che penso. Questa era la prima e più certa verità, sulla quale si forgeranno tutte le altre ( io concepisco la mia idea di me chiaramente e distintamente per ciò tutto ciò che concepisco allo stesso modo deve essere allo stesso modo vero ). Ma nella seconda meditazione, oltre a ciò e oltre ad una qualche definizione generale delle mie attività cognitive, che, in quanto prese in sé, cioè slegate dai loro oggetti, non possono essere false, non si riesce a giungere a nulla di più.

Nella seconda Meditazione avviene il primo solido passo per giungere alla conoscenza certa assoluta, ma è ancora del tutto insufficiente per procedere. A questo punto infatti, oltre al fatto che esisto, a prescindere da ogni possibile inganno, non è dimostrato alcun che né si vede come si possa procedere oltre.

Il problema è dunque questo: può esistere un Dio ingannatore. Infatti non abbiamo ancora eliminato il dubbio sulla sua esistenza e, se egli effettivamente esiste ed è ingannatore, allora non posso mai andare oltre la certezza acquisita nella seconda Meditazione. In altre parole, l’unica verità che ho è che posso esser certo della mia esistenza ma non di altro. Così bisogna dimostrare che Dio esiste e non è ingannatore. Cartesio dimostrerà prima di tutto che Dio esiste al di fuori di ogni ragionevole dubbio e, dalla definizione di Dio, inferirà che non potrà essere ingannatore.

Dio è il vero spartiacque delle Meditazioni, ovvero, colui che può garantire la certa verità della conoscenza, altrimenti impossibile da dimostrare. Di Dio ho un’idea, e ciò è evidente di per sé. Ma tale idea, quanto a contenuto mi sovrasta, così non posso essere io la sua causa. Non ci ripetiamo oltre. Così Dio è molto più perfetto di me e non son io ad aver causato la sua idea in me.

E il raccordo avviene nella quarta, tra l’errore umano e l’eventuale inganno divino: Dio non mi può ingannare nella misura in cui egli è perfetto. E a questo punto possiamo anche dire che non mi inganno mai se utilizzo la facoltà della mente di cui mi servo per contemplare la natura divina. Sin tanto che uso l’intelletto non mi sbaglio mai, esattamente come non posso sbagliarmi quando conosco Dio nella sua essenza.

L’errore dunque non è causato in me da Dio, che non poteva farmi meglio, e, anche ammettendo che mi avrebbe potuto far meglio, ciò non toglie che mi ha dato ogni facoltà per pensare e agire bene. Dunque, non posso proprio indugiare su remore contro di lui e, piuttosto, concentrarmi a pensare con l’intelletto e non con i sensi, che sono ciò che mi conduce all’errore.

Ed eccoci, a grandi passi, giunti alle quinte meditazioni. Esse sono una sorta di nota alle altre meditazioni: riformula tanto la questione delle idee chiare e distinte, dando una definizione più evidente delle potenzialità della nostra conoscenza, quanto l’essenza di Dio.

L’intelletto non è solo in grado di conoscere le essenze matematiche più generali, come l’estensione, la figura ecc., ma è anche in grado di conoscere moltissimi particolari. La conoscenza certamente procede per principi generali e si inoltra sempre più nei particolari, ma ciò non toglie che riesca a giungere ad cose talmente minute che noi non penseremo potessero esserci in noi conosciute proprio dall’intelletto. Facciamo caso, infatti, che al particolare, sino ad ora, nelle Meditazioni e non solo, si tendeva ad associare la facoltà “sensibile” o immaginativa. Ora, esplicitamente, è chiaro che anche l’intelletto è in grado di conoscere particolari ( che non sono tuttavia da associare in alcun modo alle sensazioni e alle percezioni, che sono false addirittura come idee, nel senso che si è visto ).

La riformulazione della dimostrazione di Dio, invece che partire dall’idea di Dio, dunque affidandosi alla certezza dell’io per la sua dimostrazione, si parte dalla definizione di Dio stesso: se egli è l’essere definito come l’ente dotato di ogni somma perfezione, ( che è ogni qualità positiva ) allora non gli può competere il non-esistere. Infatti, se ciò fosse possibile, allora egli non sarebbe così perfetto come lo penserei, né si potrebbe predicare di lui ogni somma perfezione, e così mi contraddirei.

Tiriamo le somme di tutto quello che ora sappiamo, che è tanto ed è più che sufficiente per poterci dare la fiducia di dare uno sguardo anche al fine ultimo delle Meditazioni, in conclusione. Prima di tutto abbiamo visto come si possano eliminare i dubbi intorno alla mia esistenza, garantita sempre e comunque, abbiamo dimostrato non solo che Dio esiste, ma che non è ingannatore, che è portatore di verità quindi di bene, abbiamo dimostrato che abbiamo una facoltà che, per quanto riguarda la nostra conoscenza, non ci conduce mai all’errore, ovverosia l’intelletto, abbiamo dimostrato che l’errore è quasi sempre un errore causato dall’ignoranza e, di conseguenza, evitabile tanto con la nostra conoscenza adeguata, tanto, al peggio, con la nostra sospensione del giudizio, ma abbiamo anche dimostrato che la nostra capacità di conoscere il mondo, seppure non possa mai raggiungere l’infinito, è certa e ci fa ben sperare di poter conoscere tante più cose possibile e, tra l’altro, la raggiungiamo solo a partire dalla nostra natura ( della serie Io + Dio + Intelletto = conoscenza del mondo ).

Cosa ci rimane da dimostrare?, di cosa ancora dubitiamo? Prima di tutto che esistano i corpi esterni, seppure, possiamo già intravedere che, se Dio esiste e non è ingannatore, allora, in qualche modo, devono esistere anche i corpi esterni. L’altro dubbio rimane sulla verità di fatto che esistono i sensi e che essi ci sono dati da Dio. Ma se li seguiamo essi ci ingannano. Ricompare lo spettro del Dio ingannatore? No, perché bisogna capire se i sensi possano essere utili solo come facoltà conoscitiva ( cosa che effettivamente ricondurrebbe la nostra natura ad un’incapacità, giacché anche che la sensibilità è causa di conoscenza inadeguata è una verità fuori di dubbio ) o se possano effettivamente essere utili per qualcos’altro.

Esistenza dei corpi, dubbio sulla positività dei sensi. Non ci rimane che questo da dimostrare e ormai la strada, per lo più, è fatta!

Meditazione sesta: l’esistenza delle cose materiali e distinzione reale mente e corpo.

Schema generale della sesta meditazione.

 

  1. Se posso dubitare che le cose esterne siano, allora è possibile che esse esistano.
    1. Infatti se il dubbio è una possibilità negativa posta in alternativa ad una positiva, almeno in linea di principio, devo ammettere che è possibile che esistano i corpi esterni.
  1.                                                               i.      Notiamo che per Cartesio è necessario giungere alla definizione dell’esistenza dei corpi esterni, solo in quanto è interessato a dimostrare che noi conosciamo effettivamente, attraverso le idee innate, le cose fuori di noi. In altri termini, riusciamo ad avere una conoscenza fisica del mondo. In effetti, egli si sarebbe potuto accontentare di aver dimostrato che esiste una conoscenza certa, e lì fermarsi. Ma non dimostrando l’esistenza delle cose fuori di noi, non avremmo mai saputo se tale conoscenza era vera perché 1) indubitabile, 2) chiara e distinta, 3) intesoggettiva ( cioè universale ), in quanto ogni mente è composta dalla stessa natura e si differenzia solo dai pregiudizi; ma se fosse anche rivolta a qualcosa al di fuori della propria soggettività. Ancora oggi la verità è spesso caratterizzata secondo gli stessi modi con cui la caratterizzava Cartesio. Egli così riesce a connettere l’interiorità del soggetto con l’esteriorità del mondo. Mente ed essenza del mondo, agli occhi dell’intelletto, sono isomorfi!
  2.                                                             ii.      Per Cartesio il vero fine della sua metafisica è quella di dare una certezza indubitabile alla conoscenza fisica delle cose. Naturalmente, tale certezza è garantita proprio perché la matematica e la geometria sono vere e indubitabili e conoscono le vere essenze delle cose. Così è vera l’equazione “Matematica Λ Geometria = conoscenza delle essenze delle cose”. Se in questa proposta “matematica”, matematica e geometria sono già presentate come scienze vere, non è ancora detto che tale conoscenza corrisponda la conoscenza delle cose esterne, ovvero delle loro essenze. La sesta meditazione ha questo ruolo delicato, cioè il compito di dimostrare che le essenze delle cose sono le cose stesse fuori di noi.
  3.                                                               i.      Ovvero non sono io la causa adeguata dal suo svolgersi.
  4.                                                             ii.      Io non sono capace di decidere nulla della sua attività.
  5.                                                           iii.      Dunque essa è indipendente dalla mia volontà.
  6.                                                               i.      Intanto l’immaginazione, come sappiamo tanto dal pezzo di cera, quanto dal sole, non riesce mai a definire le vere proprietà degli oggetti. Ma se non giunge alle proprietà che veramente competono alle cose, non giunge mai neanche alla definizione di quelli. Dunque, l’immaginazione non è causa della mia conoscenza degli oggetti ( una cosa che non sapevamo ancora! )
  7.                                                             ii.      Dunque l’immaginazione non arriva a definire una conoscenza, ma solo una serie di sensazioni. E le sensazioni non sono informazioni utili alla conoscenza.
  8.                                                               i.      Infatti, se l’immaginazione non definisce le cose, non definisce nemmeno me.
  9.                                                             ii.      Come è dimostrato dalla prima e dalla seconda Meditazione, sono giunto a dimostrare la mia esistenza non certo grazie alla sensibilità e all’immaginazione, ma solo grazie al mio intelletto. E quindi sono riuscito a pensarmi senza immaginazione, ma non sarebbe certo stato possibile pensarmi senza intelletto.
  10.                                                           iii.      Dunque, la mia vera essenza, ciò che mi contraddistingue veramente come cosa pensante, è il mio intelletto, che è, appunto, la mia stessa natura non l’immaginazione che, in una certa misura, attesta più la realtà delle cose fuori di me che di me stesso ( essa, infatti, non è a partire dalla mia volontà, ma a partire dalle cose esterne, dunque mostra più la realtà delle cose fuori di me che di me stesso ).
  11.                                                               i.      Cartesio in ciò si riferisce agli atti cognitivi. Ammettiamo che io conosca i poligoni attraverso l’intelletto e attraverso l’immaginazione. Se penso al triangolo a partire dalla sua sola definizione, mi rendo subito conto di cosa ho di fronte senza alcuno sforzo e ne intuisco moltissime proprietà. Se penso allo stesso triangolo a partire dall’immaginazione devo compiere un certo sforzo per pensare agli angoli e ai lati e costruirmi, dunque, l’immagine.
  12.                                                             ii.      L’esempio riportato nelle Meditazioni è quello del triangolo e dell’icosaedro. Se infatti l’immaginazione compie un certo sforzo per capire cosa sia il triangolo, gli è quasi impossibile immaginare l’icosaedro.
  13.                                                           iii.      Teniamo presente che tale “sforzo” dell’immaginazione è solo per quel che riguarda la vera comprensione delle cose.
  14.                                                               i.      Ovvero, le sensazioni singole sono delle attribuzioni del soggetto a ciò che pensiamo come “corpo esterno”.
  15.                                                             ii.      Colori, suoni, odori sono esempi di qualità secondarie.
  16.                                                               i.      E da tale involontarietà e limpidezza sembra nascere la ragione per cui molti gli attribuiscono un gran valore conoscitivo. Per l’involontarietà forse perché non dipendendo dal soggetto, non può essere una costruzione meramente soggettiva e, dunque, è ciò che è condivisibile, dunque potenzialmente universale.
  17.                                                             ii.      Dalla limpidezza, cioè dalla quantità di particolari, sembra nascere la convinzione della “ricchezza informativa” della sensazione stessa.
  18.                                                               i.      Notiamo prima di tutto che il tutto si basa su due principi: prima di tutto che Dio può creare ciò che io concepisco chiaramente e distintamente, in secondo luogo che io sono effettivamente pensato a prescindere dal mio corpo.
  19.                                                             ii.      La distinzione mente/corpo è dimostrata dallo stesso dubbio. Quando io mi sono dimostrato esistente, mi sono dimostrato esistente come cosa pensante, non come corpo. Da ciò segue che la mia mente può essere definita con chiarezza solo a prescindere dal corpo.
  20.                                                           iii.      Mente e corpo sono già nella definizione distinti l’uno dall’altro e, dunque, sono chiaramente e distintamente concepiti come diversi.
    1. Un po’ come se io volessi parlare di due cose diverse, un pallone e il coraggio. Quando io vado a parlare di un pallone lo descrivo come un corpo di forma sferica e dotato di una certa propensione all’elasticità nonché alla capacità di assorbire una certa forza e tramutarla in movimento e così via. Ma quando parlo del coraggio penso agli uomini capaci di determinate azioni eroiche, dotati di una volontà tale da perseguire il loro dovere senza paura delle avversità. Ma certo non mi sognerei mai di dire che un pallone non esiste se non esiste il coraggio e ancor peggio l’incontrario!
    2. Come il pallone al coraggio, la mente al corpo. La mente può benissimo sussistere senza il corpo e il corpo senza la mente.
    3. Le due sostanze sono dissimili in tutto e, dunque, sono distinte realmente.
  21.                                                           iv.      Cosa ho dimostrato con questa distinzione reale? Prima di tutto che la mente può vivere benissimo, in linea di principio, senza il corpo. In secondo luogo che i pensieri non sono corpi e, quindi, che la conoscenza dei corpi non passa attraverso i corpi!
  22.                                                               i.      Da che altrimenti potrebbe venire? Da Dio no, altrimenti sarebbe ingannatore. Ma nemmeno da me, in quanto io o seguo l’intelletto, ma allora non sono capace di avere idee inadeguate e oscure, oppure seguo la sensibilità. Seguendo la sensibilità, però, non seguo solo la mia natura e, dunque, sono determinato anche da qualcos’altro, infatti le sensazioni sono involontarie. Avendo tutto una causa, per esclusione, la causa delle idee avventizie non possono che essere i corpi stessi.
  23.                                                             ii.      Notiamo come tutte le premesse siano confermate. Tutto ciò che esiste ha una causa è vero per luce naturale. Io penso, io esisto è una verità indubitabile, chiara e distinta e intuita in sé e per sé. Dio non è ingannatore se no sarebbe imperfetto. Se seguo l’intelletto non mi inganno perché Dio non mi ha creato in modo che mi sbagliassi sempre. Io ho delle idee confuse e inadeguate è accertato, oltre che dall’evidenza, pure dai mille dubbi che mi sono posto fino adesso. Anzi se c’è una cosa di cui potevo stare sicuro era proprio che avevo delle idee del tutto inadeguate. Ma adesso so anche che tali idee confuse non vengono né da me, dalla mia natura, né da Dio. Da qualche parte dovranno pur venire! E così…
  24.                                                           iii.      La dimostrazione è bellissima perché paradossale: devo spiegare la natura delle mie idee confuse e così, dopo sei meditazioni a sparlare della sensibilità, mi sono servito proprio di essa per dimostrare che i corpi esistono! Senza sensibilità, senza immaginazione non sarei giunto a sapere che esistevano davvero i corpi fuori di me. Come avrei potuto? E così, per certo, esistono i corpi fuori di me.
  25.                                                           iv.      Cartesio c’è l’ha fatta! Ha ripercorso all’incontrario tutti i dubbi e per eliminarli ha dovuto procedere esattamente all’incontrario di come procedevano gli aristotelici. Prima ha definito il Dio come non ingannatore, poi è passato alla definizione dell’intelletto come incapace di sbagliarsi quando pensa, è passato a dimostrare che le immagini sono delle conoscenze inadeguate, sì, ma che nessun genio maligno può ingannarmi quando concepisco chiaramente e distintamente le cose. Rimaneva solo l’esistenza reale dei corpi: ed eccoci arrivati! Proprio attraverso la maledetta sensibilità, siamo giunti alla dimostrazione dell’esistenza delle cose esterne, conoscibili senz’altro solo dall’intelletto, ma indimostrabili senza immaginazione!
  26.                                                               i.      Infatti non proverei alcuna sensazione se mente e corpo non fossero uniti. L’unione tra mente e corpo per Cartesio va cercata nel cervello. La mente e il corpo sono sostanze riconosciute come unite, sempre in una certa misura, in quanto il corpo ha la capacità di causare nella mente delle sensazioni, mentre la mente è capace di comandare il corpo.
  27.                                                             ii.      La descrizione della relazione tra mente/corpo che Cartesio ci offre è puramente fisiologica. Io ho un dolore ad un piede in quanto il piede subisce una lesione tale che il nervo che collega il piede alla mente si tende e determina una compressione a livello celebrale tale che la mia mente riconosce che in quella parte del corpo si è subito un danno.
  28.                                                               i.      Il corpo è relazionato alle cose e ne è indice la stessa sensibilità che mi avverte di come il mio corpo arrivi ad un contatto con le altre cose. Da questa proprietà della sensibilità discende la sua stessa utilità ( si veda tra poco sotto ).
  29.                                                               i.      Infatti il corpo mi avverte, attraverso la sua stessa fisiologia, se esso venga danneggiato o meno. Se sento dolore significa che il corpo ha subito un danno, mentre il piacere significa che il corpo ha subito un aumento di potenza.
  30.                                                             ii.      Da ciò deriviamo che istintivamente seguire il piacere e rifuggire il dolore è una buona regola in quanto il piacere ci conduce tendenzialmente a ciò che aiuta l’affermazione del corpo, mentre il dolore ci allontana da ciò che tendenzialmente ci danneggia.
  31.                                                           iii.      In altre parole piacere e dolore sono delle qualità positive in senso pratico in quanto ci insegnano ciò che è positivo per il corpo e ciò che è negativo.
  32.                                                           iv.      Ma bisogna stare attenti perché qui si cela un ultima possibilità di trovare che Dio non sia verace ma ingannatore…
  33.                                                               i.      In questo senso, tutto è naturale e nulla va contronatura ( di tale concetto un po’ tutti quelli che oggi si mettono a parlare a vanvera di razze e di sessualità dovrebbero ricordarsi di questa vera informazione che già nel lugubre e pestilenziale seicento qualcuno aveva detto ).
  34.                                                             ii.      Se tutto è naturale, allora significa che tutto è nella natura e nulla è al di là di essa. Questa conclusione porta alla semplice conseguenza che, potenzialmente, tutto ciò che esiste nel mondo l’intelletto può conoscerlo.
  35.                                                               i.      E ciò è la causa di chi dice che gli omosessuali sono contronatura. Questi infatti hanno in testa una certa idea parziale alla quale credono. Tale modelle è un modello astratto, dedotto da quel che la loro esperienza gli ha suggerito e dunque da ciò si lasciano trasportare.
  36.                                                             ii.      In questa “naturalità” c’è l’attribuzione delle mie concezioni alle cose esterne. Così, per esempio, se vedo che un orologio segna un’ora sbagliata penserò che quello funzioni male. Magari però quell’orologio funziona benissimo ed è il nostro a funzionare male, oppure era semplicemente mal calibrato.
  37.                                                           iii.      Da tale idea pregiudiziale nasce tutta la visione antropomorfizzante della natura, ovvero quell’idea affatto scontata che la natura compia dei fini o, anche il contrario!, che la natura non ne compia. O che esistano delle cose buone e cose cattive, uomini buoni, in senso proprio, e uomini cattivi e così via. Ricordiamoci che Cartesio già ci ha detto che in fisica il finalismo è semplicemente una attribuzione indebita e pregiudiziale di ciò che noi crediamo rispetto a noi stessi e lo predichiamo anche delle cose fuori di noi.
  38.                                                           iv.      Da questa idea della “naturalità-conforme ad un modello” che prendo come regola nasce quell’idea a noi tanto cara di “normalità”. La normalità è ciò che è pensato a partire da un modello astratto e privo di vera realtà ma che per tale viene preso. Oggi nessuno si sognerebbe più di usare parole così antiquate, come “è naturale” ( che pure è ancora utilizzato da qualche sciocco intellettuale populista o, piuttosto, dai religiosi incapaci oggi come ieri di giungere alla lucidità della non-contraddizione[2] ) ma “non è normale” o “è normale” per giustificare azioni o atti che sono effettivamente “nella possibilità delle cose” ma che non per ciò andrebbero fatti. Insomma, oggi siamo diventati più terreni e legalisti di ieri ( stando alla parola “norma” significa “regola”, “abitudine” ), ma le idiozie e gli errori che comportano e dai quali sono determinate rimangono gli stessi. Nella storia, la conoscenza è un’eccezione, la deficienza è la “normalità”!
  39.                                                               i.      Ovvero quelle sensazioni che ho attraverso i sensi.
  40.                                                             ii.      E’ insegnamento naturale ciò che io ho a partire dalla natura.
    1. Tuttavia tale affermazione non è garanzia di nulla. Ancora siamo nel dubbio e non abbiamo la possibilità di dire ancora nulla.
  1. Dio può creare tutto ciò che è concepito chiaramente e distintamente dalla mia mente.
    1. Infatti tutto ciò che è chiaro e distinto nella mia mente è in essa in quanto posta direttamente dalla sua natura. La mente comprende ciò che in essa c’è da sempre. La mente, che è stata creata da Dio, porta con sé la sua stessa natura divina, nella misura in cui la segue. Allo stesso modo che la Ferrari segue il suo progetto, stabilito a tavolino dagli ingegneri, allo stesso modo la nostra mente segue la natura che Dio ha voluto per essa.
    2. Dunque, se Dio avesse, per il momento ammettiamolo per ipotesi, creato ciò che io penso con chiarezza, io potrei conoscerlo. Infatti ciò non sarebbe solo in me, in quanto idea innata e vera, ma pure sarebbe “tradotto” in un oggetto fuori di me.
    3. E si faccia caso che solo ciò che io contemplo come chiaro e distinto e non ciò che conosco parzialmente e confusamente potrebbe essere creato da Dio. Infatti ciò che è in me confuso, prima di tutto esiste solo in me, in secondo luogo è spesso oggetto di contraddizioni ed errori. Ma siccome Dio è perfetto, non posso certo pensare che egli abbia fatto ciò che è meno perfetto rispetto a ciò che lo è di più né, ancora peggio, che egli abbia fatto delle cose contraddittorie.
  2. L’immaginazione sembra attestare le cose esterne, ovvero ne suggerisce l’esistenza.
    1. Vedremo dopo i motivi della distinzione tra intelletto e immaginazione, in modo chiaro e distinto e definitivo.
    2. Per il momento, possiamo far caso che ciò che l’immaginazione contempla, non è determinato in tutto da me. Sappiamo infatti che l’immaginazione si svolge a prescindere dalla mia volontà e che io veda una cosa piuttosto che un’altra non dipende proprio da me.
    3. Tuttavia, quanto meno per vecchia opinione, sembra che ciò che esiste fuori di me, sia anche la causa delle sensazioni e delle immagini che io ho in me.
  3. L’immaginazione e l’intelletto sono due facoltà del tutto diverse.
    1. L’immaginazione non è in tutto dipendente da me.
    1. L’immaginazione non è ciò che mi definisce la cosa.
    1. Posso benissimo pensarmi privo di immaginazione, giammai privo di intelletto.
    1. L’intelletto nel suo operare non compie nessuno sforzo a differenza, tal volta, dell’immaginazione.
    1. L’immaginazione sembra implicare qualcosa che non dipende da me.
  1. Analisi della sensibilità.
    1. La sensibilità implica qualità secondarie dei corpi.
    1. Le sensazioni sono involontarie e molto limpide.
    1. Sono abituato alle sensazioni e all’uso della sensibilità ( che ciò che i sensi mi propongono sembra possedere una semplicità maggiore di quella intellettuale ).
  1. La mente è distinta realmente dal corpo.
    1. Dio può creare tutto ciò che io penso chiaramente e distintamente.
    2. Io ho un’idea chiara e distinta di me e dell’estensione.
    3. Io distinguo chiaramente e distintamente mente e corpo.
    4. Due sostanza sono realmente distinte quando l’una non dipende dall’altra e viceversa.
    5. Io non dipendo dal corpo nella mia definizione di me.
    6. Dunque mente e corpo sono realmente distinte da me.
  1. A questo punto, abbiamo ammesso l’esistenza della sostanza corporea in generale, veniamo ora alla dimostrazione dell’esistenza dei singoli corpi.
    1. Tutto ciò che esiste ha una causa.
    2. Io penso, io esisto.
    3. Dio non è ingannatore.
    4. Io non mi inganno sin tanto che seguo la mia natura, ovverosia l’intelletto.
    5. Io ho delle idee confuse e inadeguate.
    6. Le idee che riconosco come confuse e inadeguate non sono determinate in me dal mio intelletto né dalla mia volontà.
    7. Se io ho delle idee confuse e inadeguate, se le idee confuse e inadeguate devono avere una causa, se Dio non è ingannatore, se Dio non può essere la causa delle mie idee confuse e inadeguate, se il mio intelletto non è causa delle mie idee inadeguate allora la causa delle mie idee inadeguate sono i corpi.
    8. Dunque la causa delle mie idee inadeguate sono i corpi.
  1. Seppure le cose esterne esistano e tale esistenza è dimostrata dalla sensibilità-immaginazione, non per ciò si giunge alla loro conoscenza a partire dai sensi, o dall’immaginazione, ma solo attraverso le idee innate che ho attraverso l’intelletto.
  2. Io conosco il mio corpo a partire da diverse informazioni.
    1. Il mio corpo è a me unito e ne sono testimonianza le mie sensazioni.
    1. Mi avverte delle cose attraverso la sensibilità.
    1. La sensibilità non può essere del tutto negativa sotto il profilo pratico e non conoscitivo.
  1. La definizione di “naturale”:  i suoi tre significati.
    1. “Naturale” significa conforme alle leggi di natura.
    1. “Naturale” significa conforme ad un modello concepito su quello umano.
    1. “Naturale” è ciò che è insegnato all’uomo direttamente dalla natura.
  1. A questo punto risorge il problema della veracità divina. Se Dio non mi ha dotato di natura fallace, perché mi inganno a volte attraverso quegli insegnamenti che traggo naturalmente ( ovvero nel senso di insegnamento naturale… )?
    1. Il problema verte sempre sulla veracità divina e non sulla bontà divina. E questo è un serio problema per Cartesio, perché deve sempre far sì che la nostra natura ( e quella divina ) siano sempre al di là di ogni possibile dubbio. In questo caso, infatti, se si concedesse che Dio può ingannarmi su quegli insegnamenti utili, perché non potrebbe anche ingannarmi su altre cose ( dunque ricompare il fantasma del Dio ingannatore. Questo spettro, sommo e perfetto, è un pericolo grande quanto il bene del Dio non-ingannatore e Cartesio deve sempre rifuggire da tale possibilità, pena la caduta verticale della credibilità della sua metafisica ).
    2. In questo caso, il problema coinvolge anche la possibilità pratica e così anche direttamente che il Dio possa farmi del male per il solo fatto che io seguo una strada che mi porta, a partire da quegli insegnamenti che dovrei riconoscere come veri e buoni, al male fisico e morale.
    3. L’esempio che Cartesio porta è quello della malattia detta “idropisia” ovvero quel male che fa sentire secca la gola e che induce a bere quando i liquidi, invece, son causa di grandi mali per l’organismo.
    4. Questo è un vero e proprio errore di privazione, infatti non è di negazione, in quanto un uomo affetto da idropisia è spinto a bere proprio dalla sua natura, che, in una certa misura, non è stata negata. Dunque, come abbiamo visto, è l’errore di privazione ad essere quello da intendersi propriamente in tal senso. Infatti, quello di negazione poteva essere visto solo come minore perfezione rispetto ad altro. A quel punto della quarta meditazione, Cartesio aveva detto che l’errore di privazione poteva essere concepito, semplicemente, come un errore di “visione” da parte delle creature meno perfette: noi contempliamo i nostri errori di privazioni come se lo fossero quando non lo sono. Dio senz’altro vuole il meglio e così quello che noi contempliamo come il peggio, nella totalità del creato non lo è.
  2. Risposta sorprendente al problema dell’eventuale inganno di Dio.
    1. Il corpo è infinitamente divisibile.
    2. Una parte del corpo o si muove a partire da una parte distante o è collegata attraverso dei punti intermedi, o si muove a partire dai soli punti intermedi.
    3. Se le parti intermedie si muovono porranno la stessa sensazione che se quelle parti fossero mosse a partire dall’arto primo ed iniziale.
    4. Se le parti intermedie si muovono la sensazione è la stessa che se la sensazione fosse prodotta solo dai due stremi. La sensazione prodotta da un arto “A” passante per B, C, D è la stessa che se prodotta solo da B, C, D.
    5. In quanto ciascuno dei singoli movimenti del cervello in relazione alla mente produce una e una sola sensazione, allora la sensazione prodotta da “B, C, D” è la medesima sia che si parta da “A” sia che non si parta da “A” ma sia determinata da “B, C, D”. In un esempio più evidente, se il mio piede subisce un trauma, egli comunicherà, passando attraverso altre parti del mio corpo, l’informazione del trauma che la mente riassume in sensazione di dolore. Se quelle altre parti del corpo, per esempio, il nervo che connette il piede al cervello, si muove come se fosse stato solleticato da un trauma del piede, pur non essendoci stato, il cervello però comunicherà alla mente la stessa sensazione di dolore.
    6. In questo modo, noi abbiamo una sensazione di dolore anche senza trauma per malfunzionamento del nostro corpo, imputabile a svariate cause, ma che non implicano propriamente il concorso di Dio. Egli infatti ha creato tutto e predisposto ma non può più tornare in dietro sulle sue decisioni.
    7. Così ci dobbiamo accontentare del buon funzionamento della nostra natura e non possiamo lamentarci più di tanto quando stiamo male. In fin dei conti, tendenzialmente, ci sono più persone sane che malate, così statisticamente, le sensazioni prodotte dal cervello alla mente, portate a loro volte dalle sollecitazioni dei singoli arti, favoriscono positivamente la vita degli individui sani.
    8. Il mio corpo se e solo se è lesionato potrà ingannarmi sulle sensazioni ma se è sano di questi potrò utilmente e giustamente fidarmi.
  3. Così siamo giunti alla conclusione che, almeno per ragioni statistiche, almeno quando il nostro corpo è sano, possiamo anche e addirittura fidarci dei sensi, a patto che ci limitiamo ad un loro uso pratico. Così, insomma, tutti i dubbi sono messi a tacere, non ci interessa altro. Possiamo ammirare la bellezza e profondità di Dio e godere di lui a tempo indeterminato. La scienza è stata fondata e possiamo ora tranquillamente perseguire la nostra conoscenza chiara e distinta delle essenze dei corpi.

Meditazione VI.

Passi fondamentali.

 

Enunciazione positiva della possibile esistenza dei corpi.

« Resta ancora da esaminare se le cose materiali esistano. Ora, che sia possibile, quanto meno, che esse esistano, questo lo so già, perché in quanto esse sono oggetto della matematica pura, io le concepisco chiaramente e distintamente, e d’altra parte non c’è dubbio che Dio è in grado di far essere tutto ciò che io sono capace di concepire chiaramente e distintamente… »

P. 119.

Descrizione dell’immaginazione.

« … cosa sia l’immaginazione, parrebbe non essere altro che un’applicazione della facoltà conoscitiva ad un corpo che le sia presente intimamente, il quale quindi esisterebbe ».

P. 119.

Descrizione di un’immagine.

« … questa facoltà di immaginare, che pure è in me, non è tuttavia necessaria all’essenza di me stesso, vale a dire della mia mente, ché, anche se non l’avessi, nondimeno rimarrei senza dubbio quello stesso che sono ora; ed è qui che sembra seguire che essa dipenda da qualche altra cosa diversa da me ».

P. 121.

Descrizione delle proprietà dell’immaginazione.

« … le idee di questo genere mi presentano senza chiedere il mio consenso (…). Inoltre, se mi sembrava impossibile che queste idee percepite con i sensi derivassero da me stesso, era anche perché esse sono molto più vivaci e chiare, e a loro modo pure più distinte, di quelle che mi formo io riflettendo accuratamente e consapevolmente (…) Infine, ricordandomi di aver fatto uso dei sensi prima che della ragione, e vedendo che le idee che mi formavo io stesso non erano vivaci quanto quelle che invece percepivo con i sensi, e che per lo più erano composte proprio con parti di questae altre, arrivavo a persuadermi facilmente di non avere alcuna idea nell’intelletto senza averla prima avuta nei sensi ».

P. 125.

Svolta delle meditazioni sui corpi esterni.

« Ma, ora che comincio a conoscere un o meglio me stesso e l’autore della mia origine, non ritengo di certo che sia da ammettere imprudemente tutto quanto sembra che mi venga dai sensi, e però neppure che sia da revocare in dubbio tutto quanto ».

P. 129.

Sulla distinzione reale mente e corpo.

« Tutto quel che intendo chiaramente e distintamente può essere fatto da Dio cos’ come io lo intendo, basta che possa intendere chiaramente e distintamente una cosa senza un’altra per esser certo che l’una è diversa dall’altra (…) Pertanto, dal fatto stesso che so di esistere nel contempo mi rendo conto della mia natura, o essenza, non appartiene assolutamente nient’altro se non che io sono una cosa che pensa, concludo correttamente che la mia essenza consiste soltanto nell’essere io una cosa che pensa (…) E, benché io abbia un corpo a me congiunto molto strettamente (…) è certo che io sono distinto realmente dal mio corpo, e che posso esistere senza di esso ».

P. 129.

Dimostrazione delle cose esterne.

« in me trovo anche delle facoltà di pensare in modi affatto peculiari, come sono la facoltà di immaginare e quella di sentire; e senza di queste posso intendere con l’intelletto me stesso tutto intero, mentre viceversa non posso intendere quelle due facoltà senza di me, cioè senza una sostanza intellettuale a cui ineriscano, ché nel loro concetto formale includono in qualche modo l’intellezione;  e da ciò comprendo che esse si distinguono da me come i modi da una cosa. (…) … ( è chiaro che [ le figure ] queste altre, nel caso che esistano, devono inerire in una sostanza corporea, ossia estesa e non intellettuale, dal momento che nel loro concetto chiaro e distinto è bensì inclusa l’estensione ma nient’affatto l’intellezione ). Ora, è vero che in me c’è una facoltà passiva di sentire ossia di ricevere e conoscere idee di cose sensibili (…) questa facoltà attiva non può certo trovarsi in me (…) per cui non resta se non che essa si trovi in qualche altra sostanza diversa da me. D’altra parte (…) in tale sostanza deve esserci (…) tutta la realtà che è “oggettivamente” nelle idee prodotte da tale facoltà attiva; e quindi i casi sono due: o tale sostanza è corpo, natura corporea, oppure è Dio o qualche creatura comunque più nobile del corpo. (…) Ma, dal momento che Dio non è ingannatore (…) che neppure [ mi inganna a partire da ] qualche altra creatura (…) Quindi, cose corporee esistono ».

P. 131.

Descrizione mente e corpo in relazione.

« … io non sono meramente presente al mio corpo come un nocchiero lo è al suo vascello, bensì gli sono congiunto quanto mai strettamente e ( per così dire ) mescolato, in modo da comporre un’unità con esso. Altrimenti, infatti, quando il corpo è ferito non ne risentirei dolore… »

P. 133.

Sulle sensazioni.

« Così intensa, dunque, la natura insegna sì di sfuggire quel che provochi sensazioni di dolore e di ricercare quel che provochi invece sensazioni di piacere, e così via; però non appare affatto evidente che in più essa insegni di concludere alcunché, da queste percezioni dei sensi, relativamente alle cose fuori di noi, senza un esame preventivo da parte dell’intelletto, per il buon motivo che di conoscere la verità su di esse sembra competere esclusivamente alla mente, e non al composto di mente e corpo ».

Pp. 133-137.

Finalità delle sensazioni.

« … -mi rendo conto- ho l’abitudine di stravolgere l’ordine della natura, perché le percezioni dei sensi sono state date dalla natura esclusivamente per segnalare alla mente che cosa sia vantaggioso e che cosa dannoso al composto di cui essa è parte… »

P. 137.

La naturalità.

«Se un orologio, per esempio, non indica le ore correttamente, perché costruito male, non perciò esso –fatto com’è di ruote e di pesi- osserva meno tutte le leggi della natura che un orologio che risponda appieno ai desideri di chi l’ha costruito.

(…)

Per un altro verso, però, considerando l’uso per cui un orologio è stato progettato, quando non indichi correttamente le ore io posso dire che vien meno alla sua natura; ed altrettanto, considerando il meccanismo del corpo umano come predisposto da Dio per quei movimenti che vi avvengono di norma, posso ritenere che esso si allontana dalla propria natura se ja la gola secca allorché il bere non givi alla sua conservazione. Però mi rendo anche conto che così parlando della natura in un senso alquanto differente che nel caso precedente; ché, come ne parlo ora, natura non è che una designazione che dipende dal mio pensiero, in quanto io confronto un uomo malato o un orologio fatto a regola d’arte, e simile designazione è quindi estrinseca a ciò di cui vien detta; mentre prima con natura intendevo qualcosa che si trovava realmente nelle cose di cui la predico, e quindi ha ben una sua verità ».

Pp. 139-141.

Sulla natura dell’unione di mente e corpo.

« … c’è una grossa differenza tra la mente e il corpo, per il fatto che un corpo è per sua natura sempre divisibile, mentre la mente assolutamente indivisibile (…); Invece, esattamente al contrario, non posso pensare alcuna cosa corporea, ossia estesa, senza che mi sia facile dividerla in parti, almeno col pensiero; e ciò stesso intendo che essa è divisibile. Il che basterebbe da solo ad insegnarmi che la mente è completamente diversa dal corpo, se già non lo sapessi, quanto basta, in altro modo. (…) Poi noto che la mente non è direttamente in relazione con tutte quante le parti del corpo, bensì soltanto col cervello (…) e ogni qualvolta questa si trovi disposta in un medesimo modo, produce nella mente il medesimo effetto, anche se frattanto le altre parti del corpo possono venire a trovarsi in condizioni mutate (…). Ancora, noto che la natura del corpo è cosiffatta che nessuna parte di esso può essere mossa da un’altra che le sia distante senza che possa essere mossa nello stesso modo pur da ciascuna di quelle intermedie fra le due, anche se la parte più distante non agisce affatto (…)

In fine, noto che, dei movimenti che si verificano nella parte del cervello che opera direttamente sulla mente, ognuno vi produce una sola sensazione; per cui a questo riguardo non si potrebbe immaginare niente di meglio se non che ognuno vi produca la sensazione che maggiormente e più frequentemente contribuisce alla conservazione degli uomini che siano sani. Ebbene l’esperienza attesta che proprio in questo modo operano tutti i sensi in cui la natura ci ha dotati… ».

Problema della fallacia dei sensi: ancora questo possibile Dio ingannatore!??

« Da ciò risulta del tutto manifesto che, nonostante l’immensa bontà di Dio, è impossibile che la natura dell’uomo, in quanto composto di mente e corpo, non sia talora fallace. Infatti, anche nel caso che il medesimo movimento cerebrale, che di norma si produce quando ad essere in cattive condizioni è un piede, venga invece provocato da una causa che, anziché nel piede, si trovi in una qualsiasi delle altre parti del corpo attraverso le quali i nervi arrivano dal piede al cervello, od anche da una causa che si trovi nel cervello stesso, tuttavia il dolore continuerà a farsi sentire tale come se fosse nel piede; e quindi questa sensazione sarà per sua natura ingannevole.

P. 145.

Soluzione al problema posto prima.

«… è di gran lunga meglio che tale sensazione inganni in questo caso anziché se ingannasse in tutti gli altri casi, quando cioè il corpo è in salute. E così per tutto il resto ».

P. 147.

 

Riassunto discorsivo.

Rimane soltanto da dimostrare l’esistenza delle cose esterne, ormai tutto il resto lo abbiamo chiaro. Prima di tutto, so al di fuori di ogni possibile dubbio che io esisto, che Dio non è ingannatore e che io ho delle idee dei corpi esterni, fin qui tutto bene. E tuttavia le idee che ho dei corpi esterni sono delle sensazioni manchevoli che mi suggeriscono l’esistenza di qualcosa di esterno, che pure non conosco ancora con assoluta certezza. Ma tali idee, le idee fattizie, da dove vengono? Senz’altro non possono venire da me solo giacché non sono volontarie, né le posso correggere e mi vengono solo dai sensi. Ma neppure possono venire da Dio, in quanto egli non è ingannatore, non mi ha fatto in modo tale che mi inganni. In questo senso, tali idee non possono che venirmi da cose fuori di me. Insomma, ‘sti corpi esterni devono esistere.

Intanto bisogna notare che questi corpi esterni non vengono conosciuti adeguatamente dai sensi, ma dalla matematica pura, che ne conosce le essenze. Ma se si riflette un po’, si scopre anche che queste idee vengono da qualche cosa al di fuori di me e della mia intellezione, in questo senso, ad essi riconosco bene che sono parte di una sostanza, ma una sostanza che non è oggetto dell’intuizione dell’intelletto.

La sostanza corporea e la sostanza pensante sono due sostanze diverse e indipendenti, infatti l’una non necessita dell’altra per esistere e viceversa. In questo senso, le due sostanze non comunicano per proprietà né per definizione, così sono, sostanza pensante e sostanza estesa, due cose distinte.

Ciò è dimostrato anche dal fatto che la mia mente, intesa come cosa pensante, e il mio corpo, inteso come cosa estesa, non sono affatto necessari alla loro reciproca esistenza, per quanto io possa pensare, a partire da non so quale vecchia opinione, che essi sono uniti e che il mio corpo sia indispensabile alla mia definizione di me. Eppure, già da che ho dimostrato la mia esistenza, ho notato che seppure posso dubitare del mio corpo, non posso dubitare di me in quanto cosa pensante. E dunque la mia mente e il mio corpo sono due cose realmente distinte.

E tuttavia non per ciò bisogna pensare che la mente e il corpo non comunichino affatto, seppure in un modo non così chiaro come Cartesio vuole farlo passare. D’altronde il Filosofo non è tanto interessato a questo punto, giacché a lui interessava solo chiarire che la conoscenza si basa sulla ragione ( sull’intelletto ) e non sulla sensibilità. Dunque, il suo obbiettivo è, in ciò, pienamente raggiunto.

Ma la mente e il corpo non sono l’uno l’accessorio dell’altro. Mente e corpo comunicano eccome e ciò è garantito dal fatto che, prima di tutto, ho una certa percezione delle cose fuori di me, percezione che, per quanto possa essere conoscenza confusa e parziale, è pur sempre qualcosa eppoi, perché sappiamo sin troppo bene di provare sensazioni di piacere e di dolore in relazione alle cose con cui veniamo in contatto. Dunque la mente non sta al corpo come il nocchiero con la nave, riprendendo in questo l’immagine platonica dell’anima.

Abbiamo almeno chiarito che le cose fuori di noi esistono e che la sensibilità è una conoscenza fallace. Ma allora perché questa sensibilità? E’ proprio possibile che Dio mi abbia dato una facoltà per il puro gusto di farmi sbagliare? Se noi non avessimo sensibilità, potremmo benissimo non sbagliarci mai, ma, come sappiamo sin troppo bene, per capire le cose ci occorre del tempo e invece noi dobbiamo agire in fretta, spesso. Le sensazioni sono di piacere quando sono favorevoli al corpo e di dolore quando sono negative. In questo senso, seguendo le sensazioni, veniamo a scoprire prima di tutto ciò che è sano per il corpo ed evitiamo il negativo, ma siamo anche in grado di accorgerci di quando siamo danneggiati. Se non avessi alcuna sensazione piacevole nell’atto riproduttivo, sarei molto meno persuaso a cercarlo, allo stesso modo se bruciandomi non mi facessi male, mi danneggerei senza che possa evitarlo.

La funzione della sensibilità è dunque pratica, non conoscitiva. Ma Dio ha fatto sì che mi inganni anche nelle decisioni pratiche e sempre a partire dalla sensibilità, per esempio, quando provo un piacere per una cosa che invece mi fa un gran male. Ma allora, potremmo forse dire che Dio in queste occasioni ci inganni? Questo effettivamente è un errore di privazione, in quanto, se il mio corpo stesse bene, non mi ingannerei mai sulle sue sensazioni. Va a questo punto notato che Dio mi ha fatto sano e quindi in grado di non dover temere per le mie sensazioni e queste per lo più, statisticamente, non mi ingannano, piuttosto mi aiutano molto. E così possiamo dire che la strada per la riabilitazione addirittura della sensibilità, può dirsi ben conclusa e concludiamo senza la nostra noiosa prosa ma prendendo a prestito le parole di qualcun altro.

« Vero è che non sempre ci è concesso l’agio per un esame così accurato, allorché ci troviamo nella necessità di agire; per cui si deve ben riconoscere che la vita umana è spesso soggetta ad errori circa le cose particolari e, in generale, si deve riconoscere la debolezza della nostra natura ». ( P.149. )

Riferimenti.

Per le Meditazioni Metafisiche:

Meditazioni Metafisiche, Descartes R., Traduzione e introduzione di Sergio Landucci, Collana de “Classici della filosofia con testo a fronte”. Editori Laterza.

Guida alla lettura delle Meditazioni Metafisiche di Descartes, Emanuela Scrivano, Editori Laterza.

( In quest’ultimo libro c’è un’ottima bibliografia ).

Per la questione della geometria analitica:

La nuova Enciclopedia Garzanti delle scienze. Edizione 1988.

Per la vita e le opere:

Storia della filosofia 1, Adorno, Gregory, Verra, Mondolibri Editore.

Manuale di Storia della filosofia. Mori, M..

Per la filosofia:

Tutti quelli citati in precedenza, più il “Discorso sul metodo” e “Meditazioni Metafisiche” di Cartesio stesso.

Concetti fondamentali.

Io esisto, io sono; Dio non ingannatore, idee avventizie, fattizie, innate, l’epistemologia cartesiana, il metodo, la sensibilità, l’immaginazione, l’intelletto, la volontà, la verità, il dubbio, il giudizio, l’errore, la falsità, la naturalità come aderenza ad un modello, naturalità come ciò che è conforme alla norma, naturalità come ciò che discende direttamente dalla mia natura, errore di privazione e errore di negazione, Dio ingannatore e verace, genio maligno, perfezione, imperfezione, causa eminente, causa formale, qualità primarie, qualità secondarie, criteri di verità, criteri di falsità, chiarezza e distinzione, parzialità e confusione, piacere e dolore, libertà come spontaneità, libertà come assenza di costrizione, libertà come arbitrarietà, l’infinito, l’onnipotenza, la libera creazione delle verità eterne, dimostrazioni esistenza di Dio, a priori e a posteriori; l’idea, la realtà oggettiva, la realtà formale, aristotelismo, platonismo, distinzione reale, la sostanza, causalità di sé, estensione, figura, colore, odore.

Dizionario cartesiano.

Arbitrarietà Forma della libertà, propriamente è detta “arbitraria” la libertà come indifferenza. L’arbitrarietà è la proprietà della volontà di poter scegliere tra diverse alternative prive di una ragione tale da poter propendere verso una di queste in particolare. In questo senso, l’arbitrarietà è il grado più basso, secondo Cartesio, della libertà, in quanto non produce un’affermazione della nostra natura.

In quanto questo genere di libertà è quella implicata nell’errore, essa è da associare alla libertà di affermare o negare qualcosa che venga dai sensi.

Aristotelismo L’aristotelismo, e la scolastica, è l’impostazione empirista di riferimento della conoscenza dominante all’epoca di Cartesio. I dubbi insinuati nella prima meditazione sono tutti suscitati ai danni della concezione aristotelica che è incapace di risolverli.
Assenza di costrizione Forma della libertà, si predica di atti intellettuali che sono liberi in quanto non sono costretti da altro. L’assenza di costrizione, da unire con la spontaneità, è il grado più elevato della libertà, in quanto essa procede ad affermare ciò che è nella natura stessa dell’intelletto. Infatti noi non possiamo rifiutare l’assenso alla verità, ma in quanto la verità è in noi, quando affermiamo la verità stiamo anche affermando noi stessi.
Causa eminente Il principio di causa interpretato da Cartesio prevede due eventi, detti causa ed effetto, nel quale, posto il primo, si determina necessariamente anche il secondo. Così la relazione è di una doppia implicazione: l’effetto se e solo se la causa.

La causa eminente è quella relazione di causa effetto dove la natura della causa è pienamente conservata dalla natura dell’effetto.

Causa formale ( Vedi anche Causa eminente ) La causa formale è quella relazione di causa-effetto dove la natura della causa eccede rispetto a quella dell’effetto.
Causalità di sé La causalità di sé è la capacità dell’essenza di causare l’esistenza. Tale forma di causalità di sé è predicabile solo di Dio in quanto solo di lui si può dire che sia causa adeguata di se stesso.
Chiarezza La qualità dell’idea vera, non definita mai da Cartesio, ma che potrebbe indicare la semplicità e l’evidenza proprie della verità. In effetti, Cartesio usa spesso la parola “evidenza” come sinonimo di “chiarezza”.
Colore Qualità secondaria degli oggetti ( vedi qualità secondaria ). Per Cartesio tale qualità è attribuita erroneamente dal soggetto all’oggetto ed essa è semplicemente un’esperienza soggettiva.
Confusione Qualità della sensazione o dell’immagine che denuncia il fatto che noi non siamo pienamente consapevoli dell’idea dell’immaginazione.
Criteri di falsità I criteri di falsità sono quei criteri che servono a riconoscere ciò che è certamente falso. Per un certo tratto delle meditazioni, il dubbio svolge pienamente questo ruolo. In generale, il principio di non contraddizione è un criterio di falsità.
Criteri di verità I criteri di verità sono quell’insieme semplice di regole che ci consentono di sapere se un’idea è vera o falsa, o, più correttamente se un giudizio è vero o falso. I criteri di verità utilizzati da Cartesio sono prima di tutto al negativo: ciò che è fuori di dubbio è vero. Il secondo è positivo: l’idea vera è chiara e distinta, dunque se un’idea è chiara e distinta è vera. La verità poi verrà anche caratterizzata come “intersoggettiva” e al di là della soggettività, ovvero ciò che è vero è vero sia nella mente che nella realtà dei fatti.
Dimostrazioni esistenza di Dio Cartesio da tre dimostrazioni dell’esistenza di Dio. La prima dimostrazione è a posteriori, in quanto parte dagli effetti per dimostrare la causa.

Prima dimostrazione: io penso, io esisto; io ho l’idea di Dio che ha molta più realtà oggettiva di me, dunque Dio è la causa di tale idea che io ho di lui,

Seconda prova: io penso, io esisto; io ho l’idea di Dio che ha molta più realtà oggettiva di me, tutto ciò che esiste ha una causa e nulla è generato dal nulla, l’idea che ho di Dio prevede l’infinità, io non sono che un ente finito, io non posso formarmi l’idea dell’infinito, dunque Dio è causa formale della mia idea di lui in quanto egli mi sovrasta come causa e io conservo solo parzialmente la mia natura.

La terza prova è a priori, ovvero a prescindere dagli effetti, e parte dalla definizione stessa di Dio: Dio è l’essere di cui si predica ogni perfezione, l’esistere è una perfezione, dunque Dio esiste. Se nego l’esistenza di Dio, allora nego la sua definizione, il che è contraddittorio, dunque devo dedurre che Dio esiste.

Dio ingannatore Ipotesi di Cartesio per mettere in dubbio la possibilità che la matematica, costruita sull’astrazione, sia vera. Un Dio ingannatore è colui che può avermi fatto in modo tale che mi inganni ogni qual volta io compia delle operazioni matematiche, anche molto elementari. Che Dio sia non ingannatore è fondamentale per tutta la metafisica cartesiana e, in ultima analisi, il suo spettro segue per tutte le meditazioni, sin dal principio.
Dio non ingannatore Dio verace cartesiano che, per essere dimostrato, necessiterà di tre meditazioni. Solo nella quarta meditazione si arriverà a esplicitare chiaramente il concetto di Dio non ingannatore come il Dio che non mi ha fatto in modo tale che mi inganni ogni qual volta utilizzi l’intelletto.
Distinzione Proprietà dell’idea vera. La distinzione è la qualità che indica la mia possibilità di distinguere con chiarezza un’idea vera da un’altra vera o da una qualsiasi altra.
Distinzione reale Distinzione che caratterizza due sostanza. Due sostanze sono realmente diverse quando la definizione della prima non è prevista dalla seconda e viceversa. In questo senso, le due sostanze sono tra loro indipendenti.

Mente e corpo, pensiero ed estensione, sono sostanze realmente diverse.

Dolore Sensazione provocata da un danno del corpo e comunicata alla mente. Essa è una sensazione molto utile perché avvisa la mente di un danno subito dal suo stesso corpo.
Dubbio Criterio di falsità: consiste nell’affermare una possibilità negativa in contrasto ad una positiva, ritenuta vera. Se una cosa rimane vera al di fuori di dubbio significa che è vera a prescindere dal fatto che possa essere negata, dunque, che sia negata o no è vera. L’io penso è una verità indubitabile.

Il dubbio si elimina semplicemente togliendo o la negazione posta da dubbio o sostituendo la vecchia verità. Per eliminare i dubbi, Cartesio va alla ricerca di una verità indubitabile, poi procede lentamente verso un’estensione di questa verità di base; in un secondo momento, cerca la garanzia che i ragionamenti, in generale, possano essere veri e poi procede a tutte le dimostrazioni successive. Ciò per dire che tal volta per avere una conoscenza adeguata delle cose occorre molta strada intermedia.

Epistemologia cartesiana Il modo con cui si arriva ad una conoscenza chiara e distinta. Si può giungere o utilizzando il “metodo” o utilizzando il dubbio iperbolico. Cartesio tuttavia teneva a specificare che, in fin dei conti, non bisognava passare troppo tempo a discutere di questioni di metafisica e procedere piuttosto nella conoscenza della fisica. Ciò era anche suffragato dal fatto che si può fare benissimo un ragionamento vero anche senza conoscere adeguatamente la natura di Dio.
Errore L’errore si predica solo del giudizio. Il giudizio è una asserzione linguistica vera se si fonda su un’idea chiara e distinta, mentre potrebbe risultare falso se a partire dalla conoscenza sensibile.

L’errore può essere di privazione o di negazione, qualora riguardi la natura delle entità, di giudizio se riguarda i giudizi.

Estensione La qualità di ogni corpo esteso.
Falsità Ciò che non si può dire che sia. E’ falso tutto ciò che non può essere fuori di dubbio o contraddittorio.
Figura Proprietà degli oggetti, si può dire che sia una qualità propria degli oggetti se conosciuta a partire dall’intelletto, falsa se conosciuta attraverso la sensibilità.
Genio maligno Personaggio che compare nella prima meditazione che potrebbe ingannarci ogni qual volta noi abbiamo una percezione generale di figure e colori.
Giudizio Asserzione linguistica in torno alle cose. Solo del giudizio si può predicare propriamente verità o falsità, non delle idee.
Idee avventizie Contenuto mentale proveniente dall’esterno della mente.
Idee fattizie Contenuto mentale posto dalla somma di più idee avventizie.
Idee innate Contenuto mentale posto dalla mia stessa natura di cosa pensante. Le idee innate sono le idee della matematica e della geometria ed esse sono vere e poste in e da Dio.
Il metodo Metodo per giungere alla definizione di un’idea chiara e distinta.
Immaginazione Facoltà attraverso la quale io sommo più idee fattizie.
Imperfezione Qualità negativa di una cosa che afferma ciò che una cosa non ha.
Infinito Ciò che non ha limiti. In Cartesio è da intendersi in senso positivo e affermativo, dal quale noi traiamo l’idea di finito.
Intelletto Facoltà conoscitiva dalla quale noi traiamo ogni verità. Se stiamo al solo intelletto siamo del tutto incapaci di sbagliare.
Io esisto, io sono. Verità prima, definita chiaramente nella seconda Meditazione e sempre ritorna come punto fondazionale di tutta la metafisica cartesiana.
L’idea Genericamente, qualsiasi contenuto mentale.
Libera creazione delle verità eterne Teoria cartesiana secondo la quale Dio avrebbe potuto crearci diversi da quel che siamo e, quindi, anche male. Quest’ultima possibilità sarà ben analizzata dalle meditazioni.
Naturalità Per naturalità si intende “in relazione alla natura”, “ciò che è conforme alla natura”. A seconda di come si interpreta la natura, si dà anche un diverso significato alla parola “naturalità”. Cartesio distingue tre possibili significati della parola.

a ) La naturalità come conformità alle leggi di natura. In questo senso, non esiste nulla che non sia propriamente naturale, dal momento che tutto è nella natura e tutto segue le regole prestabilite dal mondo.

b) La naturalità come azione conforme alla propria essenza. E’ naturale che l’uomo parli e cammini su due piedi in quanto ciò segue dalla sua stessa definizione.

c) La naturalità come azione “normale”. L’idea di normalità la formiamo a partire dalla nostra abitudine, dalla ripetizione di certe idee sensibili che poi noi astraiamo dal loro contesto e le prendiamo per regola. Così mi stupisco quando un aereo vola perché, abitualmente, non sono abituato a concepire un oggetto così pesante come capace di volare. In questo senso, se fossi uno che crede che volare sia solo competenza degli uccelli, sarei portato a dire che il volo dell’aereo è contro natura perché non è conforme al modello che io mi sono fatto della natura di quell’oggetto ( se poi diamo realtà a tali modelli prefabbricati dalla nostra mente e gli attribuiamo un valore divino, ecco come molte cose diventeranno contro natura a tal punto da essere rigettati nonostante siano verità indiscutibili ).

Negazione Qualità dell’errore. La negazione è la qualità predicata all’errore che si riferisce alla definizione dell’oggetto. Se un oggetto è imperfetto nella definizione, ovvero già dalla sua essenza è esclusa una perfezione, si parla di errore di negazione. “Negazione” in quanto è “negata” una certa qualità.

Tuttavia in questo caso non siamo di fronte ad un vero e proprio errore in quanto io posso concepirmi come limitato e imperfetto, ma se guardo alla mia sola definizione, mi rendo conto che io sono perfetto, compiuto e dotato di qualità positive. Così, l’errore di negazione non è un vero e proprio errore, qualora mi guardi con gli occhi di Dio.

Odore Una delle qualità secondarie da non attribuire, secondo Cartesio, all’oggetto.
Onnipotenza Uno degli attributi di Dio. E’ proprio di Dio poter-fare tutto ( onni-potenza ).
Parzialità Qualità predicata dell’idea confusa, propria della sensibilità. Essa è parziale non perché non abbia una qualche informazione che, presa per sé, è affermativa, ma perché è una informazione secondaria e inessenziale al fine della definizione dell’oggetto. Così essa non è un mero nulla, ma è un che del tutto insufficiente ai fini della conoscenza dell’oggetto in questione.
Perfezione Uno degli attributi senz’altro di Dio, preso in senso generale, una possibile qualità delle cose.

La perfezione è, se considerata con gli occhi delle cose, una semplice qualità inerente alla definizione di una cosa. Per esempio, prese in sé, una pietra o una gamba sono perfette, se confrontate con qualcosa di più perfette allora esse divengono “im-perfette”.

La perfezione, in questo senso, è predicabile di tutto, in quanto è “predicazione di essere”, tutto è e nulla non è, dunque di tutto, limitatamente alla definizione, si può dire che è, in una certa misura, perfetto.

Piacere Caratterizzazione positiva della sensazione. La sensazione di piacere è inutile ai fini della conoscenza, secondo Cartesio, ma è utilissima a fini pratici in quanto ci insegna cosa favorisce il benessere del corpo.
Platonismo Concezione della conoscenza che vuole la vera conoscenza nell’idea fuori di noi e del mondo della molteplicità. L’idea è conoscibile solo attraverso la ragione ( dialettica in Platone ) e mai attraverso i sensi.

Cartesio riprende in gran parte questa impostazione operando alcune importanti modificazioni: prima di tutto le idee sono tutte nella mente, tanto sensibili quanto di ragione; in secondo luogo non esiste alcun mondo al di là della mente e dell’estensione ( materiale-corporea ). Ma poi Cartesio si discosta molto in relazione alla questione dell’anima-mente: egli ritiene, a differenza di Platone, che sia fondamentalmente unita al corpo dal quale riceve le sensazioni. In questo senso, per quanto, in un certo modo, è vera la teoria della conoscenza come reminiscenza, certo non si può sottoscrivere la stessa “antropologia fisica” di Platone che voleva il corpo come la nave per il timoniere.

Privazione Qualificazione dell’errore. Essa non si riferisce alla definizione ( vedi anche “negazione” ), ma si riferisce a ciò che un oggetto è privo pur essendo quello compreso nella sua natura. Per esempio, se mi mancasse una mano, se fossi zoppo dalla nascita, allora potrei dire che la mia natura è stata “privata” di alcune proprietà che, stando alla mia definizione, mi dovrebbero competere. Questi sarebbero dei veri e propri errori, in quanto, sia per me, sia per Dio, sono delle mancanze reali.

Cartesio risolverà questo problema dicendo che nel progetto universale divino, ciò che a noi può sembrare imperfetto, in realtà è stato tutto previsto ai fini di una maggiore perfezi