Press "Enter" to skip to content

Capitolo 11. Agre – Principio

Prarthana1830590, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

Iscriviti alla Newsletter!

Consigliamo I veda – Capitolo 1


Passiamo a discutere alcuni passi delle Upanisad, che trattano, al pari dei testi vedici visti in precedenza, del tema del «principio», anche se lo fanno con una maggiore attenzione rivolta verso i problemi e le conseguenze relative al principio dell’essere in quanto principio ontologico dell’uomo, piuttosto che principio di formazione storica o mitologica, ovvero nell’ottica dello sviluppo dell’autocoscienza individuale come analogo allo sviluppo di creazione di tutte le cose viventi. Ci riferiamo ai sei passi seguenti: Brhadaranyaka-upanisad (I,2,1; I,4,1-5 e 17), Aitareya-upanisad (I,1,1-4), Taittiriya-upanisad (II,6,7), Svetasvatara-upanisad (IV,18), Mundaka-upanisad (I,1,6-7).

I seguenti testi (vedanta) ripetono l’antico insegnamento dei Veda (o, per essere più chiari, dei Samitha), e ci aiutano a comprenderlo più a fondo. In principio non c’era la Terra e la realtà vivente dell’uomo o dell’animale, tutto ancora non era. Il testo della upanisad dice che non vi era che morte e fame, e che la fame è la morte. Ciò indica semplicemente che siamo ancora al livello del nonessere, e che l’essere deve ancora venire generato, ma ho specificato quest’uguaglianza perché essa è utile a capire perché la divinità Prajapati è alle volte descritta come mangiatrice di cibo, grande divoratrice. Prajapati mangia, e mangiando sconfigge la morte – abbiamo già detto nella pubblicazione precedente del percorso che segue per raggiungere questo suo obbiettivo, ora lo rivediamo alla luce delle indicazioni date dai testi delle upanisad. Prajapati disse: «Possa io avere un Sé (atman)» Così egli si mise in moto in adorazione. Il Signore delle creature, dunque, espresse il desiderio di individuarsi, e lo realizzò in modo apparentemente paradossale, ovvero esistendo in tutto ciò che venne all’esistenza, e continuando ad esistere in tutto ciò che esiste ed esisterà. La sua anima è l’anima del mondo intero, l’anima del mondo intero è racchiusa nel suo cuore. Mentre egli era in adorazione nacque l’acqua: su questo punto personalmente rimarrei dell’idea di interpretare l’acqua come un simbolo atto a indicare la presenza di indeterminazione, assenza di struttura ed ordine, o, detto altrimenti, attesa di determinazione ed ordine, oltre che vita.

La creazione è intimamente legata al sorgere, presso il principio primo, dell’autocoscienza. In principio, non vi era nulla all’infuori del Sé (del grande Sé = atman), in forma di Uomo. Quest’unica forma di essere finalmente disse «Io sono» (aham asmi); ovvero finalmente sorse l’autocoscienza. In questo modo nacque anche il primo nome dell’uomo, dell’uomo individuale e particolare che tutt’oggi abita il mondo: «Io». Il che sta a dire che il livello fondamentale, quello necessario e costitutivo, dell’uomo, senza il quale non è possibile alcuna altra determinazione, è proprio il livello dell’autocoscienza. Non è che prima si è e poi si è soggetti di quell’esistenza; ma prima si è un Io e poi si è un Io determinato in molti modi, né è testimonianza la diversità degli esseri umani.

Ma come avvenne che da un singolo Sé nacque tanta diversità esistente? Come avvenne che un Uomo, solo con la propria autocoscienza, decise di creare la diversità vivente, uomini e animali per popolare la Terra? Quale forze e motivazioni lo spinsero ad uscire, per così dire, dal suo isolamento?

L’Uomo è solo e, perciò, ha paura. Come l’Uomo Cosmico, anche l’uomo individuale, abitante la Terra, quando è solo ha paura; ma l’Uomo, ragionando sulla sua situazione, smise di avere paura. Egli ragionò che non poteva avere paura, dal momento che abitava un universo vuoto. Tuttavia, poiché solo, si sentì anche infelice, proprio come l’uomo, quando solo, si sente infelice. L’infelicità fu il motore che animò il desiderio di creare altra vita autocosciente, di creare un altro con cui condividere l’esistenza. Così Egli si separò in due parti; l’una fu donna, l’altra uomo. In questo modo nacque il genere umano stesso, dall’unità trasformata in dualità.

Egli desiderava ardentemente un altro. Egli divenne grande come un uomo e una donna stretti in un forte abbraccio. Egli separò questo sé in due; da qui sorsero lo sposo e la sposa.

Dopodiché, per lo stesso principio della separazione della coppia dall’uno, viene creato tutto ciò che esiste in coppia, ovvero tutti i vari animali. È molto curioso il passaggio che i testi danno per giustificare la presenza di molte coppie composte da un membro maschio e femmina. La femmina disse: «Come può Egli unirsi a me, quando Egli mi ha generata da sé? Mi nasconderò.» Nascondersi vuol dire trasformarsi, ad esempio, prima in vacca e venire raggiunti dalla componente maschile sotto forma di toro, vuol dire trasformarsi asina e venire raggiunti dalla parte maschile sotto forma di asino, e così via, la creazione degli animali è iniziata. A questo punto il creatore fu cosciente di essere la stessa creazione.

Quello che è importante notare in questi passaggi è che il processo di creazione, di separazione della coppia dall’unità e così via, è un processo cosciente, ovvero rigorosamente mediato dal pensiero. Questo fatto porta a riflettere sui poteri creativi del nostro pensiero, sulle analogie tra la nostra situazione e quella del primo creatore.

Riepilogando: in principio c’era solo l’Atman. Egli desiderò avere una sposa e dei figli, e del materiale per compiere il proprio lavoro; così l’uomo (solo) desidera avere moglie e figli, e capitale per portare a termine il proprio lavoro. Egli pensò che senza la realizzazione di questi desideri si sarebbe sentito ancora incompleto, e che, dunque, non avrebbe potuto superare il suo senso di solitudine. Ma Egli realizzo questi desideri da sé, ovvero passo dalla morte alla vita da sé. Così l’uomo deve capire di avere le condizioni della propria completezza in sé: la mente è il suo Sé, la parola la sua sposa; il respiro i suoi figli; l’occhio il suo capitale materiale (dal momento che questo viene trovato per mezzo di quello), l’orecchio il suo capitale per così dire spirituale; il corpo il suo lavoro.

Dalle Upanisad si evince anche che l’uomo fu la creazione centrale e fondamentale dell’Uomo Cosmico. Una volta creata la Terra e il cielo, infatti, il creatore considerò tra sé: «Possa io ora creare i protettori del mondo». Così nacque l’uomo.

Dunque noi uomini siamo da sempre partecipi e partecipati dal tutto e dal grande mistero della creazione (Brahman). È il Brahman, qui la stessa cosa dell’Uomo Cosmico, o del principio divino Prajapati, padre di tutti gli dei, che desidera inizialmente uscire dalla sua unità solitaria per mezzo del divenire molti, dunque per mezzo della creazione di tutto ciò che esiste e dell’uomo. Brahman prima crea il mondo, attraverso la concentrazione del pensiero, per uscire dalla sofferenza della solitudine, e poi penetra completamente nella sua creazione, per esistere, oltre che come invisibile, irreale, trascendente, non esistente, anche come visibile, reale, materiale, esistente. Bisogna dunque essere consapevoli che esistono come due sfere, una composta da ciò che è stato creato sulla Terra, e l’altra composta da ciò che permise questa creazione, la nascita dell’essere, se vogliamo il non essere, che però non è più non essere, ma è anch’esso divenuto essere. Lo stato di beatitudine dell’uomo dipende proprio dall’acquisizione della consapevolezza, che passa per la coscienza, che tra se stessi e l’anima dell’universo non vi è separazione, che tra l’invisibile e il visibile esiste un legame non districabile e dunque necessario. Il Brahman è una specie di contraddizione in sé, è il nonessere che viene all’essere, e tutto l’essere stesso; meglio, Egli è piuttosto l’assenza di contrapposizione e il ritorno dell’unione tra essere e non essere. Lo «splendore glorioso del divino Vivificatore», su cui si auspicava la meditazione nel mantra introduttivo (Gayatri), altro non è che, per l’individuo che ragiona sul principio creatore dentro di sé, la coscienza del fatto che il sé interiore di tutti gli esseri viventi è là dove è risolta ogni contrapposizione, ogni dualità ed ogni particolarità, dunque che il sé interiore partecipa ed è partecipato dallo sfondo immutabile, onnipresente ed eterno dell’atto creativo.


Francesco Margoni

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento. Studia lo sviluppo del ragionamento morale nella prima infanzia e i meccanismi cognitivi che ci permettono di interpretare il complesso mondo sociale nel quale viviamo. Collabora con la rivista di scienze e storia Prometeo e con la testata on-line Brainfactor. Per Scuola Filosofica scrive di scienza e filosofia, e pubblica un lungo commento personale ai testi vedici. E' uno storico collaboratore di Scuola Filosofica.

Be First to Comment

    Lascia un commento

    Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *