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5. Politica e morale: la prospettiva kantiana

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Il contrasto tra la politica e la morale è di natura di principio piuttosto che pratica. Il fatto che la politica nella pratica disattenda continuamente i principi morali sembra che possa costituire la base per un argomento di questo tipo: se la politica nella pratica esclude sempre o per lo più la morale, allora è impossibile un’azione politica morale se non in casi trascurabili. Questa ragione pratica dell’azione politica sembra indicare che la strada della morale e della politica sia perlomeno antitetica, o, comunque, nella prospettiva della morale kantiana, cioè fondati sugli imperativi della ragione (imperativi morali ovvero imperativi categorici): nella prospettiva humeana, invece, le due cose si conciliano proprio perché il desiderio comanda su ogni altro aspetto e il freno ai desideri è solo dovuto ad un calcolo prudenziale e non ad una ragione finale. Per tanto, Kant si rende conto che un simile argomento può inficiare chiaramente il suo progetto politico, proprio in quanto fondato su uno scopo che è eminentemente morale: la ricerca della pace (come abbiamo visto proprio alla fine del precedente paragrafo). Caduta la possibilità di considerare la comunità come unico scopo dell’azione politica, che si rende così morale, la stessa prospettiva kantiana ne uscirebbe fortemente ridimensionata: per lo meno, dovrebbe mostrare perché un politico dovrebbe scegliere ogni strada per la pace anche quando questa sia svantaggiosa rispetto ad un’azione militare ed è un problema chiaramente tutt’altro che scontato.

Kant, per tanto, si trova a dover dimostrare che la morale e la politica non sono due vie inconciliabili, ma possono trovare un punto d’accordo nel principio e nella pratica. Questo è operato mediante la dimostrazione di evidenza del fatto che l’azione morale buona sia possibile perché effettivamente attuabile:

La morale è già per se stessa una pratica in senso oggettivo, come insieme di leggi che comandano incondizionatamente e secondo le quali noi dobbiamo agire, ed è evidente assurdità, dopo aver riconosciuto a questo concetto l’autorità che gli spetta, voler affermare che però non lo si può attuare. Se così fosse, il concetto di dovere cadrebbe da sé fuori dalla morale (ultra posse nemo obbligatur); e con ciò non può esservi alcun contrasto tra la politica, quale dottrina pratica del diritto, e la morale, quale dottrina teorica (quindi nessun conflitto tra pratica e teoria). Altrimenti quest’ultima si dovrebbe intendere una dottrina di prudenza (…) La politica dice: “Siate prudenti come serpenti“; la morale aggiunge (come condizione limitativa) “e semplici come colombe“. Se questi due precetti non possono coesistere in un unico comando, allora sorge realmente un conflitto tra politica e la morale: ma se esse debbono andare insieme, il concetto di contrasto è assurdo, e la questione del come si possa risolvere il conflitto non può neppure sorgere.[1]

Questo è un passo importante perché viene negata la possibilità che la morale e la politica possano escludersi a vicenda in linea di principio. Questo è falso perché tanto la morale che la politica sono una pratica eseguita da uomini i quali possono uniformarsi all’imperativo morale e non si vede in che modo la prassi politica debba escludere almeno a questo livello la possibilità che un’azione politica virtuosa sia anche moralmente virtuosa. Piuttosto è probabile, nella prospettiva kantiana, che la politica virtuosa sia appunto anche moralmente virtuosa, cioè uniforme ai comandamenti della ragion pratica. Questa stessa possibilità è garantita dalla ragione: “Ma la ragione ci illumina sempre abbastanza chiaramente su ciò che dobbiamo fare per restare nella linea del dovere (secondo le regole della saggezza), e con ciò ci indica anche la via verso il fine ultimo”.[2]

A questo punto è possibile per Kant sostenere non soltanto che nella politica è possibile l’adeguamento dell’azione alle prescrizioni della legge morale razionale, ma che è perlomeno auspicabile che i sovrani, in quanto capi di stato e rappresentanti del popolo, si facciano guidare dalla ragione nelle loro scelte politiche anche qualora queste scelte dettate in nome dell’imperativo morale siano contrarie ai propri interessi: “Ma che per lo meno l’esigenza di una tale correzione sia intimamente avvertita dal sovrano per avvicinarsi sempre più allo scopo (della migliore costituzione secondo leggi giuridiche), questo si può pretendere da lui”.[3] In questo senso, in Kant, c’è il pieno ribaltamento della concezione morale humeana (secondo cui, in poche parole e riassumendo nella celebre frase di David Hume, che cito a memoria “l’uomo è e deve essere sempre schiavo delle passioni, così anche il più terribile dei desideri può essere realizzato”) ed è un punto fondamentale della riflessione politica kantiana:

Il politico morale avrà per principio che, se nella costituzione dello stato o nei rapporti tra gli stati si trovano difetti che non si è potuto evitare, sia dovere, particolarmente dei capi di stato, esaminare come sia possibile attenuarli al più presto e uniformarli al diritto di natura, secondo il modello che ci si presenta nell’idea della ragione, anche a costo del sacrificio del suo interesse particolare.[4]

Forse in questa citazione sta tutto il nodo della riflessione politica e morale kantiana laddove il filosofo sostiene diverse tesi, ormai chiarite e filosoficamente ben fondate: (1) la politica e la morale non si escludono, quindi (2) l’azione politica può essere uniformata all’imperativo morale, per cui (3) il sovrano dello stato può uniformare le proprie scelte sull’imperativo morale (per (2)), per tanto (4) il sovrano deve uniformare le proprie scelte sull’imperativo morale proprio perché è possibile (per l’argomento che se un imperativo morale razionale comanda al soggetto S di compiere l’azione p e p è possibile, allora è preciso dovere di S fare p). Il rifiuto dell’idea che il solo volere sia condizione sufficiente per fondare un’azione e che questa sia definita virtuosa solo sulla base della maggiore acquisizione di potenza è totale, netta e definitiva nella prospettiva kantiana.

Kant, così, fornisce la caratterizzazione di un politico virtuoso: costui sarà un politico morale e non un moralista politico. La distinzione è rimarchevole:

Ora il primo principio, quello del moralista politico, è un semplice compito tecnico (problema technicum); il secondo invece, quale principio del politico morale, è un compito etico (problema morale), e si distingue dall’altro come il cielo dalla terra, riguardando la condotta da seguire per la pace perpetua, che si desidera non soltanto come bene fisico, ma anche come uno stato di cose derivante dal riconoscimento di un dovere.[5]

Le due figure sono sostanzialmente poste da Kant agli antipodi. Il politico morale si pone come obiettivo la realizzazione di scopi etici, le cui scelte sono perseguite assumendo gli imperativi morali. In questo senso, le singole azioni politiche possono essere virtuose perché dettate direttamente dalla ragione in vista di un fine morale politicamente realizzabile e perseguibile.

Il moralista politico, invece, è un tecnico che assume uno scopo in base a quanto gli conviene (egoismo individuale) o in base a quanto conviene allo stato di cui fa parte (egoismo istituzionale), ma in ogni caso il vantaggio acquisito non è di natura morale, se non per caso. In questo senso, il moralista politico può avvalersi di ogni strumento per raggiungere lo scopo e le sue scelte saranno valutate solo in relazione all’efficienza e alla velocità con cui consegue i suoi guadagni (principi di economia dei mezzi), così che il moralista politico è guidato esclusivamente dalle massime pratiche, cioè, nel migliore dei modi, dalla razionalità strumentale che considera ogni mezzo disponibile e lo colloca nella giusta successione per raggiungere un certo scopo. Questo modo di fare politica conduce inevitabilmente a condizioni di conflitto interstatali e intrastatali ed il fatto che la politica si sia spesso fondata su questo non significa, per Kant, che si sia operato nel migliore dei modi. Ogni uomo, d’altronde, può nutrire una continua alternanza tra le due posizioni, essendo esso limitato nei mezzi e così anche nelle capacità di adeguamento all’imperativo morale. Questo era ben chiaro a Kant:

Oggettivamente (nella teoria) non esiste nessun dissidio tra la morale e la politica. Ma soggettivamente (nella tendenza egoistica degli uomini, la quale però, non essendo fondata su massime razionali, non deve essere chiamata “prassi”) un tale dissidio sussiste e sussisterà sempre, in quante serve come pietra di paragone della virtù, il cui vero coraggio (secondo il principio: tu ne cede mails, sed contra aduentior ito), nel caso presente, non consiste nell’affrontare con fermo proposito i mali e i sacrifici che devono essere sostenuti, ma nell’individuare e vincere in noi stessi la perfidia del principio del male, il più pericoloso, menzognero e traditore, che sfrutta la debolezza della natura umana a giustificazione di qualunque trasgressione.[6]

 


[1] Ivi., Cit., p. 82.

[2] Ivi., Cit., p. 83.

[3] Ivi., Cit., p. 85.

[4] Ivi., Cit., p. 85.

[5] Ivi., Cit., p. 90.

[6] Ivi., Cit., p. 93.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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