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Introduzione:
Nell’ambito della letteratura pre-ottocentesca, come noto, è relativamente raro trovare i nomi di autrici giunte alla pubblicazione, soprattutto se il numero è comparato a quello degli autori. Non sarebbe chiaramente un confronto sensato, in quanto le condizioni socio-politiche e culturali hanno influito in maniera significativa su questo esito. A partire dal Medioevo, latino e romanzo, i nomi di autrici vedono un aumento: è da qui che si stagliano figure del calibro di Ildegarda di Bingen, Maria di Francia, santa Chiara d’Assisi (autrice di una corrispondenza con Agnese di Boemia), santa Caterina da Siena, Christine de Pizan, e ancora, seguaci del petrarchismo, Vittoria Colonna e Gaspara Stampa, e con loro la veneziana Veronica Franco.
Ben più rari sono invece i nomi di autrici se si guarda alla classicità greco-latina: dopo il magnifico magistero di Saffo, la letteratura a nome di donna è spesso limitata alla corrispondenza.[1] Caso peculiare è quello di Agrippina Minore (n. 15 – m. 59), moglie dell’imperatore Claudio e autrice di un’opera di taglio autobiografico, ad oggi perduta, come testimoniato da Tacito negli Annales, oltre che da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia e da Cassio Dione.[2] È ben noto invece che le donne fossero tra i soggetti prediletti della poetica d’amore in lingua latina, come dimostrano gli scritti indirizzati a donne amate firmati, tra i vari, da Catullo, Tibullo e Properzio. Ugualmente prolifica è la produzione che può dirsi in voce di donna, vale a dire la narrazione poetica, o più raramente prosastica, di una protagonista femminile ma a firma di autore maschile, e in ciò basti l’esempio assai eloquente delle Heroides di Ovidio.
A Roma antica, quantomeno sul piano idealistico, era tenuta in massima considerazione la virtus, ben nota tra i valori del mos maiorum: la letteratura ha ampiamente celebrato gli uomini virtuosi, gli eroi di guerra come i sapienti, e chiunque avesse virtuosamente contribuito allo splendore dell’Urbe. Ma la virtus non era certamente prerogativa dei soli uomini. Il presente contributo si premura di analizzare l’affascinante figura di Arria Maggiore, e il ruolo di exemplum di virtù a cui è stata elevata nella cultura romana. Si andranno dunque ad analizzare le apparizioni della figura nella storiografia, e più in generale nella letteratura greco-latina, per infine considerare cosa una tale vicenda, ad oggi, ha ancora da raccontare e insegnare.
La storia di Arria Maggiore e Cecina Peto: un contesto storico
Per inquadrare brevemente la vicenda – e la brevitas è in questo contesto imprescindibile – è opportuno partire ricordando che i fatti che videro protagonista Cecina Peto, e immediatamente prima di lui la virtuosa moglie Arria Maggiore, si svolsero nella Roma imperiale di Claudio, e con precisione nell’anno 42: compartecipe alla rivolta di Scriboniano (fu a ordirla il politico Lucio Arrunzio Camillo Scriboniano), nata e rapidamente fallita in Dalmazia, regione di cui Scriboniano era governatore, Cecina Peto si tolse la vita pugnalandosi prima di poter essere condannato a morte. L’aspetto maggiormente affascinante della vicenda, e la pluralità delle testimonianze lascia poco spazio a dubbi sulla sua veridicità, è che il gesto di Peto fu ispirato dall’esempio della moglie Arria Maggiore, che si trafisse per prima esclamando «non dolet».[3]
La congiura di Scriboniano è ampiamente attestata nella storiografia, e spesso è accompagnata da una menzione dell’atto di Arria Maggiore. Fa eccezione il racconto di Svetonio nella Vita divi Claudi, libro quinto del De vita Caesarum, che ricorda l’intento di Scriboniano, governatore della Dalmazia, di marciare con l’esercito contro l’imperatore, operazione che venne impossibilitata, secondo quanto riporta Svetonio, da fenomeni di origine divina. Il breve racconto del fatto si inserisce nel paragrafo, il tredicesimo, dedicato proprio alle congiure, di portata maggiore o minore, ordite contro Claudio, e non vi è alcuna menzione di Cecina Peto né di Arria Maggiore.
«Bellum ciuile mouit Furius Camillus Scribonianus Delmatiae legatus; uerum intra quintum diem oppressus est legionibus, quae sacramentum mutauerant, in paenitentiam religione conuersis, postquam denuntiato ad nouum imperatorem itinere casu quodam ac diuinitus neque aquila ornari neque signa conuelli mouerique potuerunt»[4]
Svetonio, Vita divi Claudi, 13
Il ruolo di vittime del potere imperiale permase nelle vicende familiari conseguenti: Arria Minore, figlia di Arria Maggiore e Cecina Peto, sposò nel 42, probabilmente prima del suicidio del padre, l’oratore Trasea (divenuto poi Trasea Peto, avendo preso il cognomen del suocero, evidentemente un gesto di aperta ostilità al regime imperiale). Trasea fu fiero oppositore di Nerone, e ciò è ben chiaro nelle parole di Tacito; nel 66, probabilmente anche a seguito dei fatti concernenti la congiura dei Pisoni (ordita e repressa violentemente nel 65), Trasea fu condannato a morte, sebbene pare non fosse legato agli intenti di Calpurnio Pisone. Plinio il Giovane (Epistula III, 16), riporta come Arria Minore fosse evidentemente intenzionata a seguire l’exemplum virtutis della madre, ma fu dissuasa dalle preghiere di Trasea, che la implorò di risparmiare la figlia Fannia dal divenire orfana di madre e padre. Fannia divenne poi moglie di Elvidio Prisco, oppositore di Nerone e Vespasiano, messo a morte nel 75 per queste sue posizioni.
Trasea Peto trova menzione da parte di Svetonio, precisamente nell’ambito del trentasettesimo paragrafo della Vita Neronis, libro sesto del De vita Caesarum, ma si tratta di una menzione piuttosto particolare: parlando delle vittime di Nerone, Trasea Peto è menzionato non come oppositore, ma come vittima colpevole di avere le sembianze del volto tristi come quelle di un pedagogo.[5] Nuovamente, non vi è menzione di Arria Minore.
Arria Maggiore negli echi della classicità greco-latina:
Marco Valerio Probo, Vita Persii:[6]
Al fine di indagare come l’exemplum di Arria Maggiore abbia visto diffusione nella classicità romana di lingua greca e latina, è utile partire dalla fonte cronologicamente più vicina ai fatti: la menzione più prossima, non solo temporalmente ma anche in termini affettivi, è quella operata dal grammatico di I sec. Marco Valerio Probo nella Vita Persii, una breve biografia sul poeta satirico Aulo Persio Flacco (n. 34 – m. 62). Storicamente, è utile ricordare che, quantomeno secondo la testimonianza di Valerio Probo, Persio era imparentato con Trasea Peto, essendo Arria Minore la cognata del poeta, un legame che pare avesse anche un solido fondamento emotivo:
«Idem etiam decem fere annos summe dilectus a Paeto Thrasea est, ita ut peregrinaretur quoque cum eo aliqundo, cognata eius Arriam habente uxorem. […] Scripserat etiam Flaccus in pueritia praetextam Vescio et Odoiporichon librum unum, et paucos in socrum Thraseae, in Arriam matrem, versus, quae se ante virum occiderat.»[7]
Marco Valerio Probo, Vita Persii
La menzione di Valerio Probo tralascia l’esemplarità del gesto di Arria: perseguendo il fine unico di narrare la biografia del poeta Persio, Valerio Probo tralascia di fornire qualsivoglia contesto sui fatti riguardanti Arria Maggiore, Trasea o Cecina Peto (che, addirittura, non trova menzione, ma è riferito unicamente come socrus Thraseae). Ciò non deve far ritenere che il gesto di Arria fosse derubricato, nelle parole di Valerio Probo, a nulla più che un semplice suicidio: in realtà, una menzione così rapida e quasi sfuggente della vicenda di Arria Maggiore è eloquente circa lo statuto che il fatto aveva già assunto al tempo. È infatti evidente che la non menzione del contesto del suicidio di Arria era giustificata, nella mente di Valerio Probo, dal presunto orizzonte d’attesa del suo pubblico lettore, fatto di persone colte che ben conoscevano i fatti della congiura di Scriboniano e dell’eroico gesto di Arria Maggiore. Un maggior approfondimento dei fatti sarebbe forse risultato superfluo, pedante e inutilmente gravoso nel tessuto di una biografia di Persio, non quindi un’opera di taglio storiografico come sarà invece per Tacito e Cassio Dione.
Tacito, Annales XVI, xxxiv:
Fonte privilegiata di accesso ai fatti riguardanti Arria Maggiore è certamente quanto riportato da Publio Cornelio Tacito negli Annales. Di taglio marcatamente storiografico, sebbene arricchito di tinture drammatiche – come si vedrà in seguito -, Tacito giunge a ricordare l’atto di Arria Maggiore partendo proprio dalla condanna di Trasea Peto comminata da Nerone, narrando come Arria Minore si fosse dimostrata intenta a seguire il marito nella morte, secondo l’esempio della madre (et exemplum Arriae matris sequit).
«Igitur flentes queritantesque, qui aderant, facessere propere Thrasea neu pericula sua miscere cum sorte damnati hortatur, Arriamque temptantem mariti suprema et exemplum Arriae matris sequit monet retinere vitam filiaeque communi subsidium unicum non adimere.»[8]
Tacito, Annales XVI, xxxiv
Il passaggio di Tacito è qui un eloquente riflesso dello stile di narrazione storiografica che l’autore prediligeva: pur essendo fortemente debitore di Sallustio, e prima di lui anche di Catone il Vecchio e Tucidide (cfr. Questa 2011: IX), alla scelta di dettagliare e tratteggiare artisticamente l’atto eroico di Arria Maggiore è perfettamente consonante il lucido giudizio di Gian Biagio Conte, in sede di compendio, secondo cui «Tacito è certamente uno storico, nel senso che la sua opera si attiene ai canoni della storiografia antica […]. Ma egli è anche un grande artista drammatico: più di altre opere storiche romane – ad esempio quelle di Sallustio a cui pure Tacito deve molto, – le sue opere presentano una forte coloritura poetica: spesso si notano tracce e memorie virgiliane, addirittura è frequente l’influenza di Lucano» (Conte 2019: 283). Conte gli accosta dunque l’etichetta di storiografia tragica. Si aggiunga infine che, nell’ambito della narrazione tacitiana, un exemplum come quello di Arria Maggiore risulta ben consonante con la questione, che potremmo definire topica in Tacito, della donna virile, come definita da Ermanno Malaspina (1996: 318), ossia una donna che mostra l’ammirevole coraggio di consegnarsi alla morte per amore del marito.[9]
Cassio Dione, Romaiká LX, xvi, 5:
Il ragionamento sulle cifre stilistiche dell’annalistica e storiografia tacitiana risulta tanto più avvalorato da un confronto tra le sue scelte stilistiche e quelle degli altri autori della classicità greco-latina che hanno trattato dell’atto eroico di Arria Maggiore. A voler rimanere sulla storiografia, ben più essenziali, ma non per questo maggiormente efficaci, sono le parole che vi riserva Cassio Dione (n. 155 – m. 235) nella sua opera Romaiká:
«Così Galeso divenne famoso per questa battuta, così come anche Arria divenne celebre per un’altra. (6) Costei, che era la moglie di Cecina Peto, non volle sopravvivere alla condanna a morte del marito, nonostante avesse potuto vivere in una posizione di un certo onore, data la sua grande intimità con Messalina. Non solo, ma nel momento in cui il marito dimostrò di avere paura, lo incoraggiò: lei stessa, infatti, prese la spada, si trafisse e la protese a lui dicendo «Guarda, Peto, non fa male!»».[10]
Cassio Dione, Romaiká, LX, xvi, 5
Volendo astenersi da giudizi critici sullo stile di Cassio Dione – che si ricorda fu storico romano di lingua greca – è affascinante notare come la fama del gesto di Arria Maggiore fosse evidentemente ben consolidato nella memoria popolare, senza dubbio in forma di exemplum virtutis, anche in ambienti di attività pubblica di un certo rilievo. In tal senso, è utile ricordare che Cassio Dione fu attivo politicamente, fu senatore e fu molto vicino all’ambiente imperiale sotto Commodo e sotto Alessandro Severo. Si può dunque asserire che la scelta di Cassio Dione di inserire l’aneddoto nella sua opera, di taglio marcatamente storiografico, sia un lucido riflesso dell’importanza che la figura di Arria Maggiore aveva ampiamente assunto.
Valerio Marziale, Epigrammi, I 13:
Ulteriormente, se ciò è vero per gli ambienti colti e politicamente di grande rilievo, come lo erano quelli in cui operavano Tacito e Cassio Dione, è affascinante constatare come il coraggio di Arria Maggiore fosse divenuto un exemplum quasi topico anche nella poetica di minor ricercatezza, ma non per questo, si badi, di minor fascino o interesse. Esemplare, in questo senso, è la scelta di Marco Valerio Marziale (n. 38/41 – m. 104) di dedicare un epigramma, il numero tredici del primo libro, proprio alla vicenda di Arria Maggiore:
«Casta suo gladium cum traderet Arria Paeto,
quem de visceribus strinxserat ipsa suis,
“Si qua fides, vulnus quod feci non dolet”, inquit,
“sed quod tu facies, hoc mihi, Paete, dolet”»[11]
Marziale, Epigrammi, I 13
Il primo libro di epigrammi vide la luce attorno all’anno 85,[12] e si può ben dire che a tale altezza l’atto di Arria Maggiore aveva oramai raggiunto una dimensione topica, e ciò a poco più di quarant’anni dall’avvenimento dei fatti. L’epigramma di Marziale presenta le caratteristiche tipiche della fisionomia che il poeta ha dato al genere letterario: è in particolar modo notevole la capacità di concentrare in quattro versi l’avvenimento di Arria Maggiore e Cecina Peto, dedicando il quarto al classico fulmen in clausula, espediente ben radicato in Marziale. Si può anche notare come l’essenzialità della narrazione richieda naturalmente una conoscenza dei fatti da parte del lettore ideale. Nel primo verso, come solito, si concentrano gli elementi atti a indirizzare l’epigramma e l’argomento trattato: l’accostamento di gladium, (casta) Arria e Paeto non può che rimandare alla vicenda di Arria Maggiore e Cecina Peto. A tale altezza, il lettore ideale di Marziale ha già ben in mente i fatti e il loro svolgimento, dunque il gioco dell’autore è trasferito al fulmen in clausula.
Rispetto a Tacito, e ciò non deve stupire, l’epigramma di Marziale persegue dunque un intento differente: la storiografia tacitiana, e con essa anche quella di Cassio Dione, puntava a tramandare alla posterità un fatto straordinario, un gesto di estrema virtus, e ciò è tanto più vero nella dimensione annalistica in cui operava Tacito. Per contro, Marziale sfrutta un fatto ben noto per aggiungere un elemento che possa suscitare una reazione emotiva al termine della lettura dell’epigramma. Certamente, anche un epigramma è un potente mezzo di trasmissione di una storia (e ciò è tanto più evidente se si considerano le radici di questo genere letterario),[13] di modo che questa permanga come immortale nei secoli – e così è stato -, ma è evidente la spinta verso il delectare, anche nell’ambito di un gesto così drammaticamente eroico.
Plinio il Giovane, Epistulae, III 16:
La vicenda esemplare di Arria trova collocazione anche nell’epistolario di Plinio il Giovane, e in particolare nella lettera sedicesima del libro terzo, epistola in dedica a un certo Nepote (non è chiaro se si tratti di Varisidio Nepote, che sarà al centro dell’epistola IV, 4) databile tra il 100 e il 104.[14] La narrazione proposta da Plinio non si limita a riportare il celebre aforisma Paete non dolet e il suo contesto di attribuzione. È anzi intento dichiarato di Plinio proprio quello di rivelare quanto di ulteriormente eroico e degno di menzione vi è nelle gesta antecedenti di Arria:
«Vindenturne haec tibi maiora illo ‘Paete, non dolet’, ad quod per haec peruentum est? Cum interim illud quidem ingens fama, haec nulla circumfert. Vnde colligitur, quod initio dixi, alia esse clariora alia maiora».[15]
Plinio il Giovane, Epistula III, 16, 13
La lettera si concentra infatti su una serie di atti di straordinaria virtù di Arria Maggiore, dalla dissimulazione del dolore per la morte del figlio, finalizzata a proteggere il marito, Cecina Peto, anch’egli malato, alla pungente critica mossa alla moglie di Scriboniano, che vide morire il marito sul suo grembo ma rimase in vita, un passaggio dalla forte carica emotiva, e in cui Malaspina ha giustamente riconosciuto una forma mentis per cui fosse ragione di critica il sopravvivere della moglie al marito, quantomeno in casi come quello di Scriboniano.
«’Ego’ in quit ‘te audiam, cuius in gremio Scribonianus occisus est, et uiuis?’»[16]
Ivi, 9
È poi necessario considerare che Plinio ebbe accesso ai fatti concernenti le gesta di Arria Maggiore tramite il racconto della nipote Fannia, summenzionata moglie di Elvidio Prisco e destinataria dell’encomiastica Epistula VII, 19. Il racconto di Plinio è dunque meritevole di una particolare luce d’indagine, in quanto combina le due direttrici di veridicità storiografica, validata dalla testimonianza di una parente stretta, e di narrazione profondamente umana, senz’altro una cifra stilistica degli scritti pliniani.
Infine, proseguendo secondo l’ordine cronologico finora seguito, è importante ricordare anche l’epigrafe funeraria, proveniente da Anagni e datata al II sec., in dedica a Oppia,[17] moglie di L. Cominius Firmus, che Malaspina (1996: 30) attribuisce i titoli di praetor e quaestor aerarii et alimentorum: si tratta di un’iscrizione celebrativa di nove righe, di cui le ultime cinque in esametri, in cui Oppia viene accostata alla figura di Laodamia, principessa della mitologia greca, vedova di Protesilao, caduto a Troia, che si gettò nel fuoco pur di non veder ardere la statua commemorativa del marito defunto. L’accostamento eleva, anche mitologicamente, la figura di Arria accostandola a un estremo atto di sacrificio per amore, un atto di grande forza e dedizione, che sottende tuttavia, e ben l’ha messo in luce Malaspina, un grado relativo di sottomissione, seppur affettiva, della figura femminile, in consonanza alle usanze che certo erano costume della società romana. Una tale raffigurazione stride con i tratti che invece Malaspina, particolarmente sulla scorta di Plinio e Cassio Dione, attribuisce ad Arria, ossia quelli di una mulier virilis, il cui coraggio supera vistosamente quello del marito, un dettaglio che forse, e mi sento di concordare, la letteratura romana, in forza dei propri costumi, ha sentito di dover rimodellare.
Conclusione:
Come ha lucidamente messo in evidenza Malaspina, l’analisi della figura di Arria Maggiore e del suo gesto esemplare necessita di una valutazione minuziosa e che prescinda da anacronistiche considerazioni e riletture. Vale a dire, è ben semplice attribuire a un episodio così emozionante, e che difficilmente lascia indifferenti, la fascinazione che la sensibilità odierna, giustamente, funge da filtro per noi lettori del XXI secolo. Ad oggi, che l’orgoglio della più ammirevole e coraggiosa lotta femminista per la parità sta sradicando inaccettabili forme di discriminazione, leggere del coraggio di Arria, una mulier (uxorque) virilis che persino surclassa il marito in termini di forza d’animo, ci porta a ripensare il ruolo della donna nella società romana. E su questo sono stati spesi i proverbiali fiumi di bibliografia, sebbene è auspicato un aumento della mole in quanto molto vi è da dire, e si rimanda all’ottimamente informata bibliografia che correda il lavoro di Malaspina. Quanto preme sottolineare in questa sede è che la meravigliosa figura di Arria Maggiore, una fortissima e orgogliosissima donna romana, dev’essere necessariamente inscritta nei confini socio-culturali, e dunque nei limiti dei costumi, della società di Roma antica, in cui la donna viveva, purtroppo, una realtà di sottomissione alla figura maschile, con le debite eccezioni e i casi esemplari, spesso relegata ai ruoli di procreazione e cura familiare.
Per ragioni di spazio, non è possibile approfondire la questione nella presente sede. Si tiene comunque a precisare che non è stato intento del presente lavoro quello di limitare la forza della portata della storia di Arria Maggiore. Unico intento è stato quello di dare un contorno storicamente quanto più accurato. È auspicio che la forza di questa donna romana sia di ispirazione per chiunque a portare avanti una lotta incessante e coraggiosa per raggiungere un’armoniosa condizione di parità, requisito minimo non solo per il progresso, ma anche per rendere onore a chi, come Arria Maggiore (e, sulla sua scorta, anche Arria Minore e Fannia), non ha avuto paura.
BIBLIOGRAFIA
Cassio Dione, Romaiká = Cassio Dione, Marta Sordi (introduzione di), Alessandro Stroppa (traduzione di), Alessandro Galimberti (note di), Storia Romana. Volume sesto (Libri LVII-LXIII), 9 voll., Milano, BUR Rizzoli, 2016 (2016-2018).
Columba 1929 = Gaetano Mario Columba, Arria, in Treccani, Enciclopedia Italiana, 1929, consultabile online all’url <https://www.treccani.it/enciclopedia/arria_(Enciclopedia-Italiana)/>.
Conte 2019 = Gian Biagio Conte, Profilo storico della letteratura latina. Dalle origini alla tarda età imperiale (II vol.), Firenze, Le Monnier Università, 2019.
Luraghi 2009 = Silvia Luraghi (curatela di), Il mondo alla rovescia. Il potere delle donne visto dagli uomini, Milano, FrancoAngeli, 2009.
Malaspina 1996 = Ermanno Malaspina, Arria Maggiore: una “donna virile” nelle epistole di Plinio? (Ep.III,16), in AA.VV., De tuo tibi. Omaggio degli allievi a Italo Lana, Università degli Studi di Torino, Bologna, Pàtron, 1996, pp. 317-338.
Marziale, Epigrammi = Valerio Marziale, Giuseppe Norcio (curatela di), Epigrammi, Torino, UTET Libereria, 1991.
Norcio 1991 = Giuseppe Norcio, Introduzione, in Valerio Marziale, Giuseppe Norcio (curatela di), Epigrammi, Torino, UTET Libereria, 1991, pp. 9-61.
Pandolfi 2021 = Claudia Pandolfi, Sulpicia… e le altre, in Latinorum, 25 novembre 2021, consultabile online all’Url <https://www.latinorum.it/blog-detail/post/214828/sulpicia-e-le-altre>.
Plinio il Giovane, Epistulae = Plinio il Giovane, Giulio Vannini (curatela di), 50 lettere, Milano, Mondadori, 2019.
Questa 2011 = Cesare Questa, Sallustio, Tacito e l’imperialismo romano, in P ublio Cornelio Tacito, Bianca Ceva (traduzione di), Cesare Questa (introduzione di) Annali (tit. or. Libri ab excessu Divi Augusti), 2 voll., Milano, Rizzoli, 2011, pp. V-LIV.
Tacito, Annales = Publio Cornelio Tacito, Bianca Ceva (traduzione di), Cesare Questa (introduzione di) Annali (tit. or. Libri ab excessu Divi Augusti), 2 voll., Milano, Rizzoli, 2011.
Ullrich 2022 = Heiko Ullrich, Persius und die ältere Arria: inhaltliche und textkritische Überlegungen zu Suetons Vita Persi, in Graeco-Latina Brunensia, vol. 27, iss. 1, Masaryk University Press, 2022, pp. 119-130.
Valerio Probo, Vita Persii = Marco Valerio Probo, Vita A. Persii Flacci. De commentario Probi Valerii sublata, in Aulo Persio Flacco, Otto Jahn (curatela di), Satirarum liber, Lipsia, Typis et Inpensis Breitkopfii et Haertelii, 1851, pp. 37-40.
Vannini 2019 = Giulio Vannini, Introduzione, in Plinio il Giovane, Giulio Vannini (curatela di), 50 lettere, Milano, Mondadori, 2019, pp. V-XL.
[1] Un compendio esaustivo a riguardo è in Pandolfi 2021.
[2] A riguardo si segnala l’eccellente contributo di Alessandra Lazzaretti (Id., Riflessioni sull’opera autobiografica di Agrippina Minore, in Stud. hist., Ha antig., 18, Ediciones Universidad de Salamanca, 2000, pp. 177-190).
[3] Non essendo possibile ampliare la narrazione sui fatti storici, si rimanda ad Alessandro Galimberti, La rivolta del 42 e l’opposizione senatoria sotto Claudio, in Marta Sordi, Fazioni e congiure nel mondo antico, Vita e Pensiero, Milano, 1999, pp. 205-215.
[4] «La guerra civile la mosse Furio Camillo Scriboniano, governatore di Dalmazia; ma nel giro di cinque giorni soccombette, quando le legioni, che avevano prestato un nuovo giuramento, furono indotte a pentirsi da uno scrupolo religioso: infatti, quando ricevettero l’ordine di marciare verso il nuovo imperatore, per una ragione di origine divina risultò impossibile ornare l’aquila, come pure staccare da terra le insegne e spostarle». Si adottano il testo critico e la traduzione dall’edizione curata da Gianni Guastella; cfr. Svetonio, Gianni Guastella (curatela di), L’imperatore Claudio (Vite dei Cesari V), Venezia, Marsilio, 1999, pp. 82-85.
[5] «Paeto Thraseae tristior et paedagogi vultus»; si adotta il testo critico dell’edizione del De vita Caesarum del 2021 (prima edizione 1982), che a sua volta adotta il testo stabilito e pubblicato da Henri Ailloud nella sua edizione in tre volumi del 1980-81 (Les Belles Lettres, Parigi); cfr. Svetonio, Settimio Lanciotti (introduzione di), Felice Dessì (traduzione di) Vite dei Cesari, Milano, BUR Rizzoli, 2021, p. 602.
[6] La paternità della Vita Persii è tutt’oggi oggetto di acceso dibattito. Nell’edizione ottocentesca consultata, la breve biografia si pone in coda all’edizione delle Satire di Aulo Persio Flacco, e viene attribuita a Marco Valerio Probo, attribuzione che riscontra anche il favore di Gino Funaioli nella sua scheda di presentazione di Marco Valerio Probo, esemplata per Treccani nel 1935 (cfr. Gino Funaioli, M. Valerio Probo, in Treccani, Enciclopedia Italiana, 1935, online all’url < https://www.treccani.it/enciclopedia/m-valerio-probo_%28Enciclopedia-Italiana%29/ >). Si segnala inoltre che l’attribuzione a Valerio Probo è radicata anche nella manualistica universitaria, come mostra quanto scrive Gian Biagio Conte riguardo la fortuna di Persio Persio: «All’immediato successo che le Satire riscossero al loro apparire (e al commento che ben presto ne avrebbe fatto il grammatico Valerio Probo) si è già accennato» (2019: 248). Recentemente, la paternità sarebbe stata messa in discussione, con una proposta di attribuzione a Svetonio, nell’ambito del De poetis, sezione del De viris illustribus, a noi giunta gravemente mutila. L’attribuzione è accettata da Heiko Ullrich (2022), a cui si rimanda anche per importanti indicazioni bibliografiche sui recenti rilievi critici. Nel presente articolo, si accetta l’attribuzione a Valerio Probo in forza della tradizione radicata. Tuttavia, consapevoli di possibili, e auspicati, nuovi sviluppi sulla questione, ci si riserva di intervenire con rettifiche future, che saranno opportunamente segnalate e argomentate.
[7] «Inoltre, per circa dieci anni fu stimato moltissimo da Trasea Peto, tanto che talvolta si recò in viaggio con lui, il quale aveva in moglie Arria, cognata di lui (del poeta, [N.d.T.]). […] Persio, inoltre, scrisse in gioventù una praetexta (tragedia in lingua latina e di argomento romano, diversamente dalla fabula cothurnata, che trattava invece argomento greco su altrettanto greca ambientazione di sfondo [N.d.T]), intitolata Vescio, e il primo libro dell’Odoiporichon (pare fosse un libro di viaggio; [N.d.T.]), e qualche verso sulla suocera di Trasea, su Arria Maggiore (lett. la madre Arria, per l’appunto madre di Arria Minore; [N.d.T.]), che si tolse la vita prima del marito» (la traduzione è a cura di Simone Di Massa; si adotta il testo contenuto in Valerio Probo, Vita Persii, 1851, pp. 38-39; non si ritiene di accettare l’espunzione operata da Clausen, e riportata da Malaspina 1996: 328, nota 44, della forma sororum Thraseae, evidentemente una varia lectio per la forma socrum Thrseae, che diversamente dalla prima forma funziona senza problemi sintattici né semantici). Sulla questione della Vita Persii, cfr. anche Ullrich 2022.
[8] «Trasea, allora, esortò i presenti, che si abbandonavano a pianti e lamenti, a ritirarsi in gran fretta per non correre il pericolo di compromettere la propria sorte con quella di un condannato. Cercò, anche, di persuadere sua moglie Arria, che secondo l’esempio della madre Arria si preparava a seguire nella morte il marito, perché rimanesse in vita e non privasse dell’unico sostegno la figlia nata da loro.» (Trad. di Bianca Ceva).
[9] Parlando proprio dei casi di donne che hanno affrontato la morte per seguire con devozione l’amato marito, Malaspina precisa quanto sia «Ricco l’elenco in Tacito: Paxea, moglie di Pomponio Labeone (VI, 29, 1); Sestia, moglie di Emilio Scauro (29, 4: hortante Sextia uxore quae incitametum mortis et particeps fuit); Epicari nella congiura dei Pisoni (XV, 57); Paolina, moglie di Seneca (Ann. XV, 63); Antistia Pollitta, figlia di L. Vetere (XVI, 10-11); Servilla, moglie di Annio Pollione (XVI, 30-32)» (Malaspina 1996: 320, nota 10). In eco a Malaspina, per un esaustivo studio compendiale sulla tematica si rimanda a Rita Scuderi, Mutamenti della condizione femminile a Roma nell’ultima età repubblicana, CCC III, 1982, pp. 41-84.
[10] Si adottano il testo critico e la traduzione dall’edizione a cura di Alessandro Stroppa (cfr. Cassio Dione, Romaiká, pp. 336-337).
[11] «La casta Arria, consegnando al suo Peto il pugnale che aveva estratto dalle sue viscere, disse: “La ferita che mi sono fatta non mi fa male, credimi; ma la ferita che ti farai tu, quella, o Peto, mi fa male”». (Marziale, Epigrammi, p. 125). Si adottano il testo critico e la traduzione a cura di Giuseppe Norcio (cfr. Marziale, Epigrammi, pp. 124-125), con la sola modifica, per ragioni stilistiche, delle virgolette caporali in virgolette apicali, al fine di evitarne la ripetizione.
[12] «I libri I-XII appartengono agli anni 85-102. I primi 11 scritti in Italia dall’85 al 98, press’a poco uno l’anno, formano come un blocco unico» (Norcio 1991: 24).
[13] L’epigramma nasce nella poetica greca come una forma di celebrazione letteraria di gesta belliche eroiche e dalla forte connotazione emotiva e tragica, per cui cfr. gli epigrammi tràditi sotto i nomi di Meleagro di Gadara e Simonide di Ceo.
[14] Giulio Vannini, nella sua Introduzione alla selezione di cinquanta lettere di Plinio (2019), propone una datazione complessiva dei primi nove libri delle Epistole che va tra la fine del 96 per il primo libro, e il 108 per il nono, con appunto il terzo libro datato tra il 100 e il 104 (cfr. Vannini 2019: XIV).
[15] «non ti sembrano, questi fatti, più grandi del famoso ‘Peto, non fa male’, al quale è giunta attraverso di essi? Eppure una fama circonda quel gesto, mentre questi restano ignoti. Da ciò si conclude, come ho detto all’inizio, che alcuni fatti sono più noti, ma altri risultano più nobili.» (Plinio il Giovane, Epistole, p. 45); per ogni citazione dalle Lettere di Plinio il Giovane, si adottano il testo critico e la traduzione nell’edizione curata da Giulio Vannini, con la sola modifica, per ragioni stilistiche, delle virgolette caporali in virgolette apicali, al fine di evitarne la ripetizione.
[16] «’E io dovrei ascoltare te’ disse ‘sul cui grembo è stato trucidato Scriboniano, e vivi ancora?’» (Ibidem).
[17] «EXEMPLVM PERIIT CASTAE LVGETE PVELLAE / OPPIA IAM NON EST EREPTA EST OPPIA FIRMO / ACCIPITE HANC ANIMAM NVMEROQVE AVGETE SACR[ATO] / ARRIA ROMANO ET TV GRAIO LAODAMIA / HVNC TITVLVM MERITIS SERVAT TIBI FAMA SVPERSTES»; si adotta il testo riportato da Malaspina (1996: 330).



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