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Categoria: Filosofia

Un paradosso per lo storicismo – Il futuro è imprevedibile

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Consigliamo – Popper e le fonti della conoscenza di Francesco Margoni


Argomento storicista

Tesi – Storicismo 1 (T1): l’evoluzione sociale è prevedibile (ogni evento sociale E vale la proprietà essere prevedibile per un soggetto S, P(E,S)).

Tesi – Storicismo 2 (T2): posto T1, allora il futuro sociale al tempo t2 è prevedibile al soggetto S sulla base delle conoscenze sociali disponibili a S al tempo t1, dove il tempo t1 è precedente al tempo t2.

Tesi – Storicismo 3 (T3): per generalizzazione della T2, ogni evento sociale E al tempo t2 è prevedibile per ogni S solo se S al tempo t1 possiede le conoscenze necessarie e sufficienti per prevedere lo sviluppo degli eventi sociali.

Tesi – Storicismo 4 (T4): per (T2) e (T3), il futuro sociale è prevedibile per il soggetto S al momento presente.

Popper – Le fonti della conoscenza

DorianKBandy, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

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Consigliamo – Popper e le fonti della conoscenza di Francesco Margoni


Prima di venire a presentare il contenuto della Conferenza filosofica annuale tenuta da Popper alla British Academy nel 1960, in cui il filosofo discute la sua posizione epistemologica, delineo brevemente le linee essenziali della sua filosofia della scienza.

Tesi centrale della filosofia della scienza di Popper è che la conoscenza (in particolare quella scientifica) si accresce per mezzo dell’individuazione degli errori, ovvero per mezzo della critica, effettuata con gli strumenti della ragione e con gli strumenti di controllo sperimentale, dei tentativi fatti, sovente sbagliati (come dimostra la storia della scienza), per risolvere i problemi. La scienza è certamente fallibile, nondimeno progredisce verso la verità imparando dai suoi errori. Le fasi della progressione della conoscenza sono essenzialmente due: inizialmente si postulano delle congetture, ovvero si tenta di dare soluzione ai problemi formulati in modo tale che siano scientificamente trattabili, per mezzo di supposizioni ingiustificate (e ingiustificabili; ovvero, da una parte sono ipotesi in attesa di controllo, e dunque non ancora possibilmente giustificate, dall’altra sono ingiustificabili perché di fatto la maggior parte degli asserti non può essere giustificata), dopodiché si cerca di confutare tali congetture, ovvero si sottopone la supposizione al controllo della critica. Il massimo a cui può aspirare una teoria è superare tutti i controlli a cui viene sottoposta; una teoria non è mai oggetto di giustificazione positiva, ovvero non si dà mai il caso di una teoria sicuramente vera (Popper assume come valida l’idea della verità oggettiva, nel senso di corrispondenza delle asserzioni vere con i fatti della realtà) o anche probabile. Tutto quello che possiamo fare per procedere nella via della verità è sottoporre le nostre teorie a severi controlli, ed imparare dagli errori che commettiamo. In questo modo siamo in grado di chiarire e penetrare sempre più il problema di cui ricerchiamo la soluzione.

L’insignificanza normativa della neuroetica

Riporto un interessante articolo (intitolato The Normative Insignificance of Neuroscience) di Selim Berker (professore di filosofia presso l’Università di Harvard) uscito nel 2009 su Philosophy & Public Affairs, nel quale viene esposta una critica alla tesi per cui vi sarebbe un ruolo dei risultati neuroscientifici trovati da Greene et al. nell’argomento di Greene per cui le intuizioni tipicamente deontologiche sono dubbie, sulla base del fatto che sono sottese da processi emotivi e dunque poco affidabili, o comunque sono da lasciar da parte a favore delle intuizioni tipicamente consequenzialiste, invece sottese da processi deliberati e coscienti.

Procediamo con ordine per capire bene di cosa si tratta. Fa parte del clima culturale formatosi attorno alla recente fioritura dello studio neuroscientifico l’idea che gli studi fMRI possano avere profonde implicazioni anche per la filosofia, ovvero per la soluzione di problemi tipicamente filosofici. Un esempio particolare di tale idea è la tesi per cui la ricerca neuroscientifica di Greene sulle basi neuronali delle nostre intuizioni morali dovrebbe e potrebbe portarci a cambiare le nostre opinioni sull’attendibilità di quelle stesse intuizioni. Singer e Greene sostengono che se la teoria empirica di Greene volta a spiegare ciò che causa il giudizio morale è vera, allora ipso facto si è autorizzati a trarre certe conclusioni su quali giudizi morali siano da darsi. In altre parole, la tesi è che una teoria empirica ha implicazioni normative. L’implicazione normativa è che dobbiamo ignorare o comunque sospettare le nostre intuizioni deontologiche (ovvero quelle basate su una reazione emotiva).

Introduzione schematica all’Epistemologia analitica

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Ordell: Le hai sparato, ed è morta?

Luis: Be’, si, penso di si.

Ordell: Come pensi di si? Non è una risposta. Voglio sapere se è morta.

Luis: Io penso di si, io credo di si.

Ordell: Tu credi di si, quindi non sei sicuro!

Luis: E’ morta, è morta.

Jackie Brown

1. I tre generi di conoscenza e la definizione di conoscenza come credenza vera giustificata (Justified True Belief JTB).

L’analisi della conoscenza è una delle principali analisi della filosofia, in particolare della filosofia moderna. Pensatori quali Cartesio [1645], Spinoza [1675], Locke [1690], Leibniz [1714], Hume [1740] e Kant [1787] sono tutti impegnati nel fornire una teoria che dia un fondamento certo alle nostre conoscenze. Sebbene alcuni arrivino a formulare la questione in termini scettici (Hume [1740]), vale a dire che non per tutto si può avere conoscenza ma ci si deve accontentare di un raffinamento su basi statistiche (era il caso della connessione di causalità tra fatti contigui nello spazio-tempo che ricorrono spesso insieme per Hume [1740]) rimane il fatto che lo sforzo nella definizione dei fondamenti della conoscenza sia stato cospicuo. Rimane il fatto, però, che fino al XX secolo, non c’era una chiara separazione dei vari generi di conoscenza, trattazione che intende distinguere la conoscenza in tre grandi categorie: la conoscenza oggettivale (diretta), la conoscenza competenziale (know how) e la conoscenza proposizionale (per una trattazione più specifica di queste tre categorie rimandiamo a Vassallo [2002]). La conoscenza diretta riguarda ciò che intendiamo esprimere con le proposizioni del tipo “Luigi conosce Gianna”, vale a dire che il predicato “conoscere” è utilizzato per indicare l’acquisizione di un’informazione che non riguarda né un saper fare (know how) né una proposizione; così che esso definisce una relazione tra un soggetto (Luigi) e un oggetto (Gianna) e la natura di tale relazione ha a che fare con le idee di Luigi su Gianna. La conoscenza competenziale riguarda una particolare capacità a fare qualcosa così che “Luigi sa andare in bicicletta” indica quel che Luigi è in grado di svolgere con un oggetto che appartiene alla categoria “essere bicicletta”. Si può osservare la distinzione tra la conoscenza competenziale rispetto alla conoscenza diretta: la conoscenza competenziale attiene a una pratica, mentre la conoscenza diretta riguarda l’idea di un soggetto direttamente connessa con un oggetto. In fine, la conoscenza proposizionale riguarda i casi in cui un soggetto può dire di sapere una certa proposizione. La conoscenza proposizionale, dunque, riguarda la natura delle proposizioni credute da parte di un soggetto, così che non si dà conoscenza proposizionale se un soggetto non ha una credenza di qualcosa. Ad esempio, “Luigi sa che Milano è in Lombardia” ci dice che un individuo appartenente all’insieme degli esseri umani sta in nella relazione “conoscere” con la proposizione “Milano è in Lombardia”: (Conoscere(Luigi, Milano è in Lombardia). Stando a quanto appena detto, Luigi deve possedere la credenza che Milano è in Lombardia. Immaginiamo la negazione di ciò, per renderci conto dell’assurdità: se Luigi sa che “Milano è in Lombardia” non può non pensarlo, intendendo con “credere” e “pensare” due predicati che indicano la semplice presenza di una proposizione nella mente di una persona. In altre parole, si assume per convenzione che “credere una proposizione” significhi semplicemente “avere una proposizione nella testa” e non qualcosa di simile a quel che in genere si intende con “credere” nel linguaggio comune (cioè una proposizione possibile che esclude tutte le altre, come quando si dice “io credo che Dio esiste” si intende che tale credenza sconfigge tutte le altre, cioè che essa è più forte delle proposizioni contrarie possibili). Così, la conoscenza riguarda un soggetto che pensa ad una credenza e tale credenza deve essere sia vera che giustificata. Perché si dia conoscenza la credenza pensata dal soggetto deve essere vera: “Luigi sa che Milano è in Francia” è palesemente una frase falsa. In fine, la credenza deve pure essere giustificata. Infatti, la sola credenza vera non ha alcun fondamento tale per cui possiamo dire, a livello intuitivo, di possedere alcuna ragione per credere in quella particolare cosa. Ad esempio, quando ci chiedono se domani pioverà e noi rispondiamo di si, solo perché è la prima cosa che ci passa per la testa, anche ammesso che l’indomani piova, non costituisce conoscenza.

L’Impresa Umana

L’Impresa Umana è lo scopo dell’Umanità presa nel suo complesso, indipendentemente dalle singole circostanze in cui ciascuno è inserito. Essa si configura come lo scopo astratto di una vita umana qualunque, indipendentemente dal suo tempo e dal suo spazio. Le circostanze forniscono la cornice in cui si inserisce il soggetto etico che agisce e si sostanzia ma non offrono la possibilità di un’autodeterminazione in base ad uno scopo fisso. Se l’Uomo rimane vincolato alle specifiche contingenze della vita, non sarà in grado di riconoscere il suo senso all’interno della comunità globale nella quale è inserito. L’Umanità, dunque, va intesa come la somma dei singoli individui che partecipano alla costituzione della Storia, intesa proprio come insieme finito delle singole azioni individuali. Ma l’Essere Umano è tale proprio in quanto parte di questa somma di persone alle quali egli appartiene e dalla quale non può fuggire né pensare di poterlo fare: se un uomo viene ad esistere, allora egli fa parte della comunità degli uomini. In questo senso, ogni persona di ogni tempo ha la sua responsabilità di fronte alla globalità alla quale appartiene, per il solo fatto di esistere, globalità che si costituisce realmente nella Storia e si evolve nel tempo.

E’ un bene mettere al mondo un figlio?

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bonobo_sexual_behavior_1.jpg

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Ogni uomo e ogni donna, raggiunta una certa maturità biologica, sentono il bisogno di avere un figlio e non semplicemente di compiere atti sessuali. Esiste una differenza importante tra l’esigenza di compiere un atto sessuale e quella di avere una prole. Nel primo caso, si tratta di voler sfogare un bisogno impellente e di abbassare il proprio senso di solitudine sessuale il che può essere operato in molti modi e non necessariamente attraverso un atto sessuale che comporta, anche solo in linea di principio, la genesi della prole. Questo fatto può essere rimarcato dall’evidenza singolare e dalle statistiche sulle pratiche sessuali: molte persone preferiscono atti sessuali non vaginali per la soddisfazione del proprio bisogno, così che se tale bisogno è estinto con pratiche che rendono impossibile la procreazione e vengono preferite a quelle che, invece, possono causare la nascita di un nuovo individuo, allora può sussistere (e sussiste) la necessità esclusiva di esaurire il proprio bisogno sessuale indipendentemente dal bisogno di avere della prole. Viceversa, sussistono casi in cui si compiono atti sessuali con la finalità di avere dei figli. Tale necessità è, in genere, avvertita in modo cosciente e le persone se ne accorgono in base al fatto che la loro soddisfazione o felicità risulta indipendente dal loro benessere sessuale: si può essere sessualmente soddisfatti pur avendo il bisogno di avere un figlio. Ammesso che non sia un’esperienza umana sostanzialmente universale, riportiamo alcune evidenze che suggeriscono questa conclusione: (1) ci sono persone che sono disposte a praticare delle azioni figlie della superstizione pur di raggiungere l’agognato obiettivo; (2) ci sono persone che adottano dei bambini per averne uno; (3) ci sono persone che sono disposte a perseguire il proprio obiettivo con ogni mezzo consentito dalla scienza. Per tanto, è lecito distinguere il bisogno puramente sessuale da quello di procreare. Ne concludiamo che si parla molto spesso a sproposito di “bisogno di procreare” quando si parla di “istinto sessuale”. Da ora in poi assumiamo che le due proprietà siano distinte e, almeno parzialmente, indipendenti.

Le energie degli uomini – William James

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Riporto e discuto la tesi sostenuta dallo psicologo e filosofo americano W. James nel saggio intitolato, in italiano, Le energie degli uomini – James, W. (1907). The Energies of Men. The Philosophical Review, Vol. 16, No. 1; pp. 1-20.

La tesi di James è che l’uomo vive, per cattiva abitudine, molto dentro i propri confini energetici, ovvero che l’uomo non adopera l’energia, che pure possiede, al suo massimo, e, così, agisce al di sotto del suo ottimo. Espressa in modo tanto vago la tesi sembra senz’altro vera. Dobbiamo però notare che essa racchiude in sé due tesi: una di tipo descrittivo, e una di tipo normativo. La tesi descrittiva è che l’uomo abitualmente non esprime tutta l’energia che possiede. La tesi normativa è che l’uomo dovrebbe esprimersi al massimo e che l’abitudine di vivere molto dentro i propri confini è cattiva.

Pensiamo che entrambe le tesi presentino dei problemi. La prima tesi presenta problemi che discendono dal fatto di non aver definito con precisione i termini usati. La seconda tesi presenta problemi che discendono dal fatto di non aver sviluppato a fondo le sue implicazioni pratiche. Ma prima di venire alla critica, riassumo brevemente l’argomentazione di James.

William James – La concezione della coscienza

Di Notman Studios (photographer) – [1]MS Am 1092 (1185), Series II, 23, Houghton Library, Harvard University, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=16250941

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Il discorso che riassumo (e commento) è stato tenuto da James a Roma in occasione del V Congresso Internazionale di Psicologia del 1905, ed è un testo centrale per capire la filosofia pragmatista e quella di James (pensatore dalle idee chiare ma non sempre chiaramente espresse). Il testo dà un’analisi perfettamente pragmatista d’uno dei postulati ancor’oggi centrali della psicologia, m’anche della filosofia.

Il paradosso dell’ultima spiaggia, ovvero dell’argomento ultimo

Molto spesso capita di ritrovarsi in disaccordo con il proprio partner. Di fronte all’analisi, uno dei due può capitolare con un ultimo straordinario argomento: “hai ragione, ma sono fatto così”. Di fronte a questo controargomento molto spesso ci si sente con le spalle al muro ed è, in vero, l’ultima spiaggia per chi lo pronuncia. Abbiamo detto che si tratta di un “controargomento” perché, in realtà, è una formulazione di una posizione che nega la possibilità di una discussione ulteriore per due ragioni (a) riconosce le ragioni dell’altro rispetto alle proprie (dunque, non c’è più bisogno di continuare a discutere) e (b) ciò nonostante afferma che tali ragioni non sostituiranno la propria precedente convinzione. L’argomento nasconde, naturalmente, una sfida implicita: se mi vuoi, devi prendermi così come sono, anche quando non ho ragione, so di non averla e non farò nulla per modificare il mio comportamento. Chi proferisce una frase del genere è all’ultima spiaggia perché formula un argomento che nega qualunque altra possibilità di replica perché sostiene la validità della posizione dell’avversario e, tuttavia, non la riconosce sufficiente per cambiare idea o atteggiamento. Da un punto di vista più rigoroso, si potrebbe tradurre la frase come segue: io possiedo una credenza a tale che essa ha un certo peso all’interno delle credenze che reputo importanti; la tua credenza non a risulta vera o valida e squalifica la mia precedente credenza a; ciò non di meno, la forza della credenza a è tale per cui la manterrò come se fosse vera o valida, così che il mio comportamento, per quanto irragionevole o sbagliato, sarà reiterato sulla base della non cancellazione della credenza a.

Il paradosso del legalista radicale o il paradosso di Sabatini

Presentiamo un paradosso emerso dalla posizione di chi sostiene che per dirimere le questioni umane sia sufficiente adottare il codice legale, sia esso civile o penale, prescindendo da un’accurata analisi a livello morale. L’idea è quella che, stando alle controversie sui problemi morali, essi risultano insolubili sul piano della semplice analisi razionale, postulando che tale analisi sia impossibile per via del fatto che non sussiste alcuna ragione morale (sia essa intesa in modo forte, come possibilità di formulare leggi pratiche morali, sia essa intesa in modo meno forte, come possibilità di trovare accordo perché la morale è fondata su basi irrazionali). L’argomento può essere presentato come segue:

Il legalista nudo e puro riconosce la validità della seguente frase (a):

(a) Ogni legge vale solo se è inscritta nel codice legale di uno Stato.