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Frege, in senso e significato.

A cura di Pili Giangiuseppe              www.scuolafilosofica.com

Segni.

Segni Uso
DF Definizione
[AT] In altri termini.
Diverso da…
=>> Cosicché.
OV Ovvero.
≡> Perché.
V Oppure, o…
Λ E
Ex. Esempio.
!! Molto importante.
! Importante.
?! Dubbio.
!? Interessante.
Implicazione.
Se e solo se.
Q qualunque

 

Annotazioni introduttive.

Ipotesi: assunzione primitiva di un discorso, premessa non ulteriormente analizzabile.

Corollario: conseguenza logica diretta da una definizione.

Spiegazione: delucidazione terminologica fondamentale di uno dei termini di una definizione o di un teorema.

Inferenza: ragionamento attraverso cui, da premesse dichiarate e coniugate, si giunge alla formulazione di una tesi o teorema.

Tesi:  risultato ultimo di un ragionamento, è equivalente alla parola “teorema”.

Schema di ragionamento generale.

  1. Definizione termini singolari.
    1. Nomi
    2. Descrizioni definite.
    3. Descrizioni indefinite.
    4. Descrizioni improprie.
  2. I predicati.
  3. Il segno in generale.
  4. Il significato dei termini singolari.
  5. Il senso dei termini singolari.
  6. Gli enunciati.
    1. Il senso degli enunciati.
    2. Il significato degli enunciati.
    3. Un enunciato ha valore di verità se e solo se ha un senso compiuto e un significato corrispondente.
    4. A qualunque senso corrisponde uno e un solo significato.
  7. Le rappresentazioni.
  8. Il problema della diversa denotazione delle cose: uno stesso significato per diversi sensi ovvero la differenza tra identità e coincidenza.
  9. Il senso degli enunciati ovvero il terzo regno.
    1. Afferrare un pensiero.
    2. Giudicare.
    3. Il problema del significato ovvero corrispondenza del pensiero con una cosa realmente esistente.
  10. Il significato degli enunciati: il vero e il falso.
  11. Il principio di composizionalità.
  12. Il principio di sostituibilità.
  13. Problemi concernenti le ambiguità.
  14. Il problema delle descrizioni di Russell.
    1. Critica delle descrizioni definite.
    2. Proposta di Russell: la parafrasi degli enunciati concernenti descrizioni definite.

 Schema di ragionamento.

Ipotesi F(rege) 1: il linguaggio naturale è l’insieme delle regole e dei segni attraverso cui si esprime una certa informazione.

Specifica a: Frege non definisce esplicitamente il linguaggio ma si può dire che egli con “linguaggio” non indichi praticamente nulla. Egli distingue sostanzialmente due linguaggi: il linguaggio naturale e il linguaggio logico.

Specifica b: il linguaggio naturale è la lingua “storica” che si è affermata nel tempo e che è capace di esprimere delle informazioni sul mondo. Questa “potenzialità” è anche la ragione stessa del linguaggio: esso nasce per esprimere informazioni. Il problema nasce proprio nel modo attraverso cui il linguaggio informa del mondo e cosa il linguaggio può esprimere del mondo.

Specifica c: per Frege ciò che è descrivibile si esaurisce presto: cose e proprietà delle cose. Il linguaggio logico è appunto capace di esprimere tutto ciò che si può desiderare ma con una differenza col linguaggio naturale: che non ci sono ambiguità.

Specifica d: le ambiguità per Frege sono diverse: un segno che denota più sensi o più sensi che denotano più significati. Nel primo caso ci troviamo di fronte ad una vera e propria ambiguità giacché nel segno si rimanda effettivamente a due espressioni decisamente distinte. Nel caso del senso la cosa è più sfumata, ma diciamo che Frege segnala esplicitamente che in un linguaggio logicamente perfetto ( vedi sotto agli spunti di riflessione ) non c’è spazio alcuno per ambiguità di senso.

Specifica e: si tenga conto del fatto che Frege non si dimentica certamente del fatto che attraverso il linguaggio non si esprime solamente una “totalità” di fatti o di cose, ma si esprimono moltissime altre informazioni, come stati d’animo interiori o credenze personali e via dicendo. Tuttavia, tali “informazioni” non sono espressioni genuine nel senso che non denotando nulla di oggettivo, non pongono nemmeno criteri di verità per poterle giudicare vere o false. In altre parole, Frege sostiene una semantica che tenga conto della verità o falsità degli enunciati dichiarativi, una semantica sostanzialmente di carattere estensionale e non intensionale.

Ipotesi F2: qualunque linguaggio nasce per informare del mondo.

Spiegazione I: il mondo è la totalità delle cose e delle proprietà delle cose.

Inferenza.

Se qualunque linguaggio nasce per informare del mondo, se il mondo è la totalità delle cose e delle proprietà delle cose, se il linguaggio naturale è l’insieme delle regole grammaticali e dei segni passibili di quelle regole attraverso cui si esprime una certa informazione sul mondo allora i segni costituenti di una lingua sostituiscono le cose nel linguaggio.

Dunque i segni costituenti di una lingua sostituiscono le cose nel linguaggio.

Tesi Fa: i segni costituenti di una lingua sostituiscono le cose nel linguaggio.

Specifica a: il principio è quello di rendere il linguaggio come isomorfo alla realtà. In questo modo il linguaggio tiene conto tanto delle relazioni tra le cose che delle cose stesse, giacché le relazioni sono pensate a partire dagli oggetti e non viceversa.

Specifica b: che le relazioni siano pensate a partire dagli oggetti e non viceversa è una cosa per nulla ovvia ma, d’altra parte, al logico di alcune questioni epistemologiche non importa, basta solo che il linguaggio che egli intende stabilire possa effettivamente tenere conto di tutte le cose descrivibili, che ci interessa descrivere e possiamo effettivamente descrivere.

Ipotesi F3: i segni elementari sono i termini singolari e i predicati.

Spiegazione I: i termini singolari sono nomi propri e descrizioni definite.

Spiegazione II: i nomi propri sono espressioni linguistiche individuali, che indicano l’esistenza di una sola cosa esistente in natura: un espressione individuale per uno e un solo individuo.

Ex. Sono nomi propri: “Giangi”, “Giovanni”, “Giuseppe”, “Napoleone”, “Elodia”, “Luigi”, e nomi che attribuiamo alle cose, come possono essere i nomi delle barche piuttosto che nomi di città ecc..

Spiegazione III: le descrizioni definite sono termini composti da più segni tutti concorrenti a svolgere una sola funzione, la funzione delle descrizioni definite è quella di denotare cose, allo stesso modo dei nomi.

Spiegazione IV: le descrizioni definite sono esplicitazioni di nomi.

Ex. “Il cane di Mario”, “il tavolo marrone di casa mia”, “il porchetto nel porcile” sono tutte descrizioni definite.

Specifica a: le descrizioni definite sono “riscrivibili” come nomi e i nomi sono abbreviazioni di descrizioni definite. Per Frege nel linguaggio nomi e descrizioni definite sono equivalenti.

Specifica b: le descrizioni sono tutti quei termini che possono svolgere nel linguaggio la funzione di soggetto. Il fatto che essi compongano frasi in cui sono effettivamente dei soggetti ( nell’analisi che a scuola è chiama logica non equivalente all’analisi chiamata “logica” dai logici… ) non significa che siano effettivamente la stessa cosa, che siano tra loro equivalenti. Le descrizioni definite sono le uniche tra le descrizioni che Frege concepisce come effettivamente equivalenti a nomi,  ma le descrizioni definite non esauriscono l’intera gamma delle descrizioni possibili.

Spiegazione V: le descrizioni sono di tre tipi: descrizioni definite, descrizioni indefinite, descrizioni improprie. Esistono così tre tipi di descrizioni ed esse sono definite in base alla loro forma e alla loro denotazione.

Così vale la seguente relazione: DF Descrizione = forma + denotazione.

Una descrizione si dice definita quando denota un oggetto realmente esistente e ha una forma del tipo “il così e così”. La presenza dell’articolo determinativo nella lingua italiana è il discriminante essenziale per la distinzione tra una descrizione definita e un’altra qualsiasi descrizione. Così vale la seguente relazione:

Descrizione definita ↔ ha la forma “il così e così” Λ denota oggetto realmente esistente.

Una descrizione si dice indefinita quando non indica un oggetto particolare ma ne indica genericamente uno nell’insieme in cui quel particolare oggetto si inscrive. La descrizione indefinita è un’affermazione dell’esistenza di un certo insieme nel quale esiste un certo individuo. Una descrizione indefinita ammette denotazione, ma è, per usare termini fregeani, un concetto ovvero è una funzione di secondo livello da saturare e, dunque, nel linguaggio svolge una funzione del tutto diversa da quella di un nome proprio: essa non indica un oggetto ma una proprietà di un oggetto ( l’essere in una certa classe di oggetti è chiaramente una proprietà di un oggetto. In quanto indeterminata ( indefinita ), una descrizione indefinita ha una forma diversa da quella di una descrizione definita ed è del tipo “un così e così” dove l’articolo indeterminativo indica in italiano la presenza di un oggetto non ulteriormente caratterizzato. Così vale la seguente relazione:

Descrizione indefinita ↔ forma “un così e così” Λ denota un insieme di oggetti.

In fine abbiamo le descrizioni improprie e sono quelle in cui compare effettivamente un termine singolare, ma solo apparentemente. La descrizione impropria è una qualsiasi descrizione singolare di un oggetto inesistente. In questo senso, una descrizione impropria è caratterizzata dall’essere sì dotata di una forma “il così e così” ma è priva di un oggetto referente nella realtà. In questo modo si potrebbe dire che una descrizione impropria è un “il così e così privo di significato”. Un esempio di descrizione impropria è “il morto parlante” o “il supereroe”, “il fiume più lungo di 36000 km” e così via. In questo senso vale la seguente relazione:

Descrizione impropria = forma “il così e così” priva di contenuto.

A questo punto possiamo notare che si esauriscono presto le descrizioni seguendo queste possibilità:

Descrizione: 1) “un così e così” e “il così e così” 2) contenuto. Se la descrizione è “un così e così” e un contenuto allora è una descrizione definita. Se la descrizione è “un così e così” e ha contenuto allora è una descrizione indefinita. Se la descrizione è “il così e così” e non ha contenuto allora è una descrizione impropria.

Abbiamo esaurito ogni possibilità intorno alle descrizioni possibili.

Specifica a: la questione sull’accettazione di questa interpretazione delle descrizioni è controversa. E ciò sarà detto più avanti.

Spiegazione I: i predicati sono delle funzioni proposizionali definite dalla forma F(x) dove la “F” costituisce la costante predicativa e la “x” l’insieme dei valori attribuibili alla funzione. La funzione proposizionale è una funzione a valore di verità.

Spiegazione II: la funzione proposizionale è una funzione che, una volta saturata, diventa una proposizione: tale ragione giustifica il nome.

Spiegazione III: i predicati sono in generale dei verbi che assumono un significato chiaro solo in relazione alla loro relazione con il soggetto. Si deve tener conto che tutto ciò che il linguaggio deve poter esprimere sono cose e stati di cose e proprietà. In questo senso, non ha importanza che possano esistere altre possibili espressioni perché per Frege è sufficiente tener conto solo di quelle espressioni che denotano cose del mondo, nel senso che s’è detto.

Ex: esempi di predicati sono “esser-rosso”, “correre”, “mangiare”, “dormire” ecc..

Specifica a: la funzione proposizionale si può esprimere con la notazione logica in questo modo: “predicato(x)” dove al “predicato” deve andare un qualsiasi predicato e alla “x” un qualsiasi termine singolare possibile. Se il termine singolare ricade nel campo del predicato allora l’enunciato risultante sarà vero, altrimenti sarà falso. “predicato(x)” non è altro che una trascrizione in termini semantici della generale funzione matematica della forma “F(x)”. Esempi di predicati scritti in questo modo: “esser rosso(x)”, “correre(x)”, “mangiare(x)” e così via.

In questa notazione risulta chiaro come il predicato possa essere soddisfatto solo da un certo numero di elementi e da qui la regola: un predicato è vero per tutti gli elementi che lo soddisfano e falso per tutti gli altri.

E’ chiaro che “esser rosso(x)” è soddisfatto da tutte le cose rosse e non da quelle nere così “esser rosso(la maglia di Del Piero)”= falso perché la maglia della Juventus è nera e bianca. Mentre “esser rosso(la maglia di Cristiano Ronaldo)” = il vero perché la maglia del Manchester United è effettivamente di quel colore. 

 

Ipotesi F4: il senso è il modo di darsi di un certo significato.

Corollario ά: qualunque espressione linguistica ha un senso.

Corollario β: qualunque espressione dotata di un significato ha un senso.

Spiegazione I: il senso è il modo di darsi di un certo significato, è la definizione generale del senso, ma vediamo nello specifico. Il senso di un termine singolare è il modo di darsi di un certo oggetto in un’espressione. Il senso di un nome corrisponde, per Frege, alla sua descrizione definita: perché un nome proprio sia riscrivibile in una descrizione definita è sufficiente che il nome proprio e la descrizione definita siano riscrivibili l’uno nei termini nell’altro e ciò avviene solo quando la descrizione definita e il nome proprio denotano lo stesso significato, ossia lo stesso oggetto.

Spiegazione II: il senso di un predicato è il concetto. Il concetto per Frege è una funzione caratterizzata nei termini su detti. Ci sono due cose da notare. La prima è che una funzione proposizionale, per Frege, di per sé è un’espressione inconcludente, ovvero non denota nulla senza un termine singolare che la saturi, sia che la saturi rendendola vera che rendendola falsa. In questo senso, una funzione proposizionale, di per sé, non denota nessun oggetto e ciò è manifesto quando si faccia caso agli esempi: “esser-rosso”, “mangiare”, “correre”. Di per sé questi predicati non ci informano di nulla, sono concetti astratti privi di corrispondenza nella realtà: se uno dice, così, di punto in bianco “corre”, noi ci guardiamo intorno per vedere se qualcuno sta effettivamente correndo. Ma non vediamo nessuno, così gli domandiamo “chi corre?” ovvero gli stiamo chiedendo di specificare qual’è l’oggetto che sta correndo. In termini fregeani, stiamo chiedendo al parlante di specificare l’oggetto del predicato. L’altra cosa da notare è questa: per Frege, i sensi sono delle entità immateriali extramentali e sono definiti come “pensieri”, nel caso siano enunciati, sensi genericamente nel caso si voglia parlare di termini particolari e predicati ( che non hanno un pensiero ma hanno un senso ).

Ipotesi F5: il significato è l’oggetto realmente esistente denotato da una certa espressione linguistica.

Corollario ά: un enunciato dotato di significato è un enunciato che indica un oggetto realmente esistente dotato di una certa relazione. L’oggetto è posto dal termine singolare e la proprietà dell’oggetto è posta dal predicato.

Spiegazione I: il significato è un oggetto realmente esistente. Di conseguenza, l’insieme dei significati è l’insieme delle cose realmente esistenti.

Specifica a: è interessante notare che tali affermazioni, fino a questo punto ( eccezion fatta per l’idea che esistano delle entità extramentali esistenti realmente ) tutte le idee fregeane sono condivisibili tanto dall’idealista quanto dallo scettico giacché esse non richiedono che possa esistere o meno una conoscenza certa intorno al mondo, basta che esistano delle entità stabili che giustifichino delle asserzioni passibili di analisi in termini di vero o falso. Frege sostiene che l’idea che esista una realtà oggettiva fuori di noi è praticamente ovvia, nel senso che è capzioso sostenere il contrario, d’altra parte, in una certa misura, l’idea dell’esistenza di tale realtà è sottoscritta tanto dagli idealisti che dagli scettici nella misura in cui entrambi parlano del mondo delle cose: parlano in termini negativi di ciò che essi stessi presuppongono. Certamente ciò non ha chiare ricadute sull’epistemologia scettica o idealistica, ma è chiaro che tutti devono ammettere una certa “cosalità” del linguaggio, una volta che ne fanno uso.

Inferenza. Se il senso è il modo di darsi di un certo significato, se il significato è l’oggetto realmente esistente denotato da una certa espressione allora ogni significato è espresso attraverso un senso.

Tesi Fb: dunque ogni significato è espresso attraverso un senso.

Corollario ά: ogni significato ammette almeno un senso.

Corollario β: non ogni senso ha un significato.

Spiegazione I: ogni significato è espresso attraverso un senso è una conseguenza logica delle premesse fregeane. Infatti, se il senso è un modo di dare un certo significato, allora un significato non può che darsi a partire da un senso. Lapalissiano.

Spiegazione II: ma non è ovvio che ogni senso abbia un significato. Abbiamo già visto che esistono delle espressioni linguistiche che non denotano alcun significato, per esempio le descrizioni improprie o i predicati insaturi ( funzioni proposizionali dove è definito solo il predicato e non il termine singolare ). Ora, in quanto gli enunciati si ottengono dalla composizione dei sensi che denotano certi significati, qualora i termini che compongono l’enunciato siano privi di significato va da sé che anche l’enunciato completo sarà privo di significato.

Ex: un predicato definito dalla forma “essere-rosso(x)” saturato dal termine singolare “l’unicorno” genera un enunciato di questa forma “essere-rosso(l’unicorno)”. Tale espressione è chiaramente priva di significato in quanto non esiste nessun oggetto, animale o persona che sia un “unicorno”. Questa espressione non ha alcun significato, seppure ha un suo senso.

Spiegazione III: per Frege, esiste una pluralità di modi attraverso cui si dà uno stesso significato e per tale ragione frasi di questo tipo “Alessandro = Alessandro” e “Alessandro = il mio migliore amico” sono frasi che pur denotando la stessa persona, avendo dunque lo stesso significato e lo stesso valore di verità ( sono entrambi veri ) non sono equivalenti intorno al senso. E ciò non è di importanza secondaria giacché il modo di dare un certo significato è importante ai fini della conoscenza del mondo.

Spiegazione IV: in una conversazione: a) “Alessandro è mio cugino”, b) “Alessandro è il mio migliore amico” a) “confermi il valore di verità della tua frase?” b) “si”. a) “Quindi, il tuo migliore amico è mio cugino” . Come si vede, nella conversazione abbiamo applicato alcuni principi, tra cui il principio di composizionalità, e abbiamo scoperto che gli enunciati “Alessandro è mio cugino”, “Alessandro è il mio migliore amico” e “il tuo migliore amico è mio cugino” sono tutte frasi vere e dotate dello stesso significato. Sembrerebbe dunque che non ci sia altro da dire, invece è importante notare che i due parlanti hanno scoperto ciascuno una cosa importante, ovvero che hanno una persona cara in comune. Questo genere di conversazioni, neanche così rare, sono giustificate dalla teoria fregeana: esse hanno un significato uguale e un diverso senso che ci illumina sulle diverse conoscenze intorno ad una stessa cosa.

Ipotesi F5: un enunciato è ottenuto per composizione di un predicato con un termine singolare.

[ AT ]: gli enunciato è ottenuto a partire dal principio di composizionalità: qualunque enunciato è determinato dalla composizione delle sue parti semplici.

Specifica a: le parti semplici di un enunciato dichiarativo sono i termini singolari e i predicati.

Specifica b: per tutto ciò che è stato detto vale la seguente relazione: enunciato ↔ termine singolare Λ predicato.

Spiegazione I: l’idea di Frege è che per valutare la verità di un enunciato bisogna basarsi sulle sue componenti, motivo per il quale per rispondere se un enunciato sia vero o falso, per passare cioè dai suoi criteri di verità al suo significato, bisogna andare a vedere se le sue componenti siano dotate o meno di un oggetto referente realmente esistente nel mondo.

 

Inferenza. Se un enunciato è ottenuto per composizione di un predicato con un termine singolare, se un termine singolare ha un senso, se un predicato ha un senso, allora anche un enunciato ha un senso.

Tesi Fc: dunque anche un enunciato ha un senso.

Spiegazione I: il senso di un enunciato è un pensiero. I termini singolari hanno un senso, così come i predicati che sono, a livello del senso, dei concetti, ma solo gli enunciati esprimono un pensiero.

Spiegazione II: il pensiero di un enunciato è un’entità extramentale immateriale realmente esistente, in questo senso, un enunciato, in quanto dotato di senso e di un significato ( qualora ce l’abbia ) denota sempre due cose distinte: da un lato un pensiero e da un altro lato un oggetto. A prescindere che un enunciato abbia poi un certo significato, esprime comunque un pensiero. Dall’espressione del pensiero si pongono gli stessi criteri di verità: sapere se un pensiero è vero o falso implica andare a vedere se abbia o meno una corrispondenza nella realtà dei fatti, se denota effettivamente qualcosa.

Inferenza. Se anche un enunciato ha un senso, se un significato è espresso da un senso, se un senso non necessariamente ha un significato allora un enunciato può avere o non avere un significato.

Tesi Fd: dunque un enunciato ha o non ha un significato.

Specifica a: naturalmente o un enunciato ha un significato oppure no, Frege non ammette altri valori di verità.

Inferenza. Se un enunciato ha o non ha un significato, se un enunciato ha un significato se e solo se hanno significato le sue parti, se un enunciato ha un pensiero, se il pensiero pone i valori di verità, se il significato è l’oggetto corrispondente ad un certo senso, allora un enunciato è vero se e solo se ha un senso compiuto e un significato corrispondente.

Tesi Fe: dunque un enunciato è vero se e solo se ha un senso compiuto e un significato corrispondente.

Spiegazione I: il senso pone un pensiero e il pensiero determina i criteri di verità ovvero il pensiero può essere o vero o falso ed è vero se e solo se ha un oggetto corrispondente nella realtà oppure no. Se c’è corrispondenza tra pensiero e realtà allora l’enunciato sarà vero e falso altrimenti.

Spiegazione II: ma, si faccia attenzione, un enunciato è vero o falso se e solo se ha un senso, un pensiero, che esiste nella realtà oggettiva. Se invece non denota alcun che allora l’enunciato non è né vero né falso perché non indica alcun che di esistente.

!!Spiegazione III: per Frege si possono solo associare termini singolari a proprietà, se i termini singolari ammettono certe proprietà ( ovvero soddisfano una certa funzione ), allora saranno veri, altrimenti saranno falsi, ma in ogni caso ci troviamo di fronte ad una realtà oggettiva: se dico “essere-marrone(il mio tavolo)” = il vero perché esiste un oggetto corrispondente al pensiero espresso dall’enunciato, mentre se dico “essere-rosso(il mio tavolo)” = il falso perché esiste realmente “il mio tavolo” ma questo non è rosso. In un certo senso, il principio di verifica del significato tiene conto proprio di una reale “verifica” dello stato di cose. Ma, ed è qui il punto, in casi di questo genere “volare(Superman)” non si può né dire che è vero né che è falso perché Superman in realtà non esiste, non è né un oggetto particolare ( tanto meno dotato della proprietà di volare ), né una persona. Per Frege, in quanto l’enunciato “volare(Superman)” non ammette in alcun modo una verifica, non può essere decidibile: esso ha un pensiero, ma non ha significato, dunque non è né vero né falso.

 

Inferenza. Se un enunciato ha o non ha un significato, se un enunciato esprime un pensiero, se il pensiero pone i criteri di verità, se un enunciato è vero se e solo se ha un senso compiuto e un significato corrispondente allora un enunciato non è né vero né falso se non ha un oggetto corrispondente nella realtà.

 

Tesi Ff: dunque un enunciato non è né vero né falso se non ha un oggetto corrispondente alla realtà.

!!Spiegazione I: Frege sostiene che il vero e il falso sono oggetti. Ciò, ormai, dovrebbe essere abbastanza chiaro: il motivo sta nel fatto che “il vero” e “il falso” rimandano sempre ad un oggetto, sono ciò che non ammette significato non è né vero né falso ma proprio perché l’enunciato privo di significato non ammette proprio alcun oggetto referente nel mondo reale. Se un enunciato è vero o falso implica un oggetto dunque esiste “il vero” e “il falso”. Tale è la ragione di Frege, poi, in che senso di un oggetto possa dirsi “vero” o “falso” è una questione che lo stesso Casalegno ( vedi riferimenti ) non riesce a spiegarsi: non è affatto chiaro cosa significhi che un oggetto sia “il vero”…

Spiegazione II: vero/faso(enunciato) ↔ significato(enunciato)

=>>

indecidibile(enunciato) ↔ privo-significato(enunciato).

Qx ( enunciato (x), Qy ( significato (y) y → x), vero/falso(x)).

!Specifica a: abbiamo visto sin qui che Frege è molto chiaro su ciò che si può denotare attraverso il linguaggio: sensi e significati, pensieri e oggetti. Vedremo infatti che, in una certa accezione, il significato di un enunciato possa essere effettivamente un pensiero. In ogni caso, abbiamo detto che esistono due realtà: la realtà dei pensieri e la realtà dei significati. Ma esiste anche una terza realtà ed è la realtà interiore dei parlanti. Tale realtà è mentale e soggettiva, del tutto dipendente dalla psiche del soggetto. In questo senso, ciascuno ha delle sue proprie rappresentazioni per ogni parola che denota qualcosa ma le rappresentazioni non sono in alcun modo conoscibili in quanto del tutto private, esse non sono oggetto di conoscenza né, per Frege, sono passibili di analisi a partire dal linguaggio: non c’è modo di poter osservare dall’esterno il contenuto interno di una mente, motivo per il quale esso è chiaramente una realtà insondabile. La coscienza fenomenica è un’esperienza unica e irriducibile per ciascuno, per Frege. Frege sostiene una visione logicista della semantica e, con essa, l’idea di salvaguardare il funzionamento del linguaggio da qualsiasi intrusione psicologica o, comunque, soggettiva che possa minare in qualche modo la costruzione controllabile e logica del linguaggio. Tale necessità, in quanto il linguaggio di Frege deve poter esprimere conoscenze sul mondo, è decisamente giustificata. Inoltre, per fondare una teoria credibile del linguaggio, è assolutamente necessario porre dei criteri oggettivi di valutazione.

Specifica b: possiamo a questo punto riassumere i tre regni in questo modo:

  1. Mondo oggetti                            = entità extramentali materiali.
  2. Mondo pensieri               = entità extramentali immateriali.
  3. Mondo rappresentazioni = entità mentali ( immateriali/materiali ?)

 

Inferenza. Se un significato si esprime attraverso un senso, se più sensi possono esprimere uno stesso significato allora esiste un significato per più sensi ma non più significati per un solo senso.

 

Tesi Fg: dunque esiste un significato per più sensi ma non più significati per un solo senso.

Spiegazione I: ciò è evidente dal fatto che esiste un solo oggetto e sarebbe contraddittorio pensare che uno stesso senso ammetta due significati contemporaneamente.

Spiegazione II: Nel caso per esempio di parole come “cavallo”, “tasso”, “pancetta”, “amore” che sono chiaramente ambigue, non si cade in contraddizione giacché possiamo dire che con un medesimo segno designiamo diversi significati e diversi sensi. In tale possibile ambiguità risiede, per Frege, uno dei difetti evidenti del linguaggio naturale.

Specifica a: possiamo riassumere in breve:

  1. esiste uno e un solo significato per ciascun termine singolare.
  2. esiste almeno un senso per ciascun significato.
  3. esiste almeno un segno per ciascun senso.
  1. esiste uno e un solo significato per ciascun termine singolare, enunciato…
  2. possono esistere più sensi per ciascun significato.
  3. possono esistere più segni per ciascun senso.
  4. possono esistere delle espressioni con segni che denotano più sensi: tali frasi sono ambigue.
  5. possono esistere delle espressioni con segni che denotano più sensi e i sensi possono denotare più significati diversi: tali frasi sono ambigue.

Specifica b: Frege sosteneva che queste imprecisioni della lingua naturale fossero da sanare in un linguaggio logicamente perfetto.

 

Inferenza. Se un enunciato è composto da parti semplici, se le parti semplici sono termini singolari e predicati, se un predicato ammette più termini singolari che lo soddisfano, se un termine singolare può soddisfare più predicati allora a un enunciato a cui è sostituita una parte con un’altra avente stesso significato avrà ancora lo stesso significato.

 

Tesi Fh: dunque a un enunciato a cui è sostituita una parte con un’altra avente stesso significato avrà ancora lo stesso significato.

Spiegazione I: questa è l’enunciazione del principio di sostituibilità. In questo principio è espressa un’intuizione molto forte anche nei parlanti che vale per gli enunciati dichiarativi, ma non vale, per esempio, nei casi di enunciati di credenza in quanto esprimono un’attitudine proposizionale.

Specifica II: naturalmente, il principio di sostituibilità vale sì per i sensi e per i significati ma se consideriamo due espressioni logicamente equivalenti come questi “a = a” e “a = b” ( quando ciò è vero ) e “a = c” ( quando è vero ), l’enunciato risultante “c = b” è vero nel senso che ha lo stesso valore di verità di “a = a”, “a = b” ecc., ma non ha lo stesso senso. In questo modo, il principio di sostituibilità applicato ai sensi non è la stessa cosa che applicato ai significati.

!!Specifica III: a questo punto concludiamo con la critica di Russell. Gli enunciati si ottengono per la saturazione di un concetto, o funzione proposizionale a valori di verità, a partire da termini singolari. In questo senso, gli enunciati denotano sempre oggetti in un modo diverso che i nomi propri o le descrizioni definite, ma rimandano sempre a delle cose individuali indicabili e definite. Tuttavia nella semantica fregeana, gli enunciati sono componibili solo o a partire da nomi propri o da descrizioni definite, dunque, in ogni caso, da termini singolari. Ma non esistono enunciati solo composti da queste parti semplici, esistono infatti molti casi in cui gli enunciati sono composti da descrizioni indefinite o da descrizioni improprie. Nel caso delle descrizioni indefinite “un così e così” il problema è risolto dicendo che “un così e così” è equivalente ad un’espressione esistenziale del tipo “esiste un x tale che x…”. Ma “esiste un x…” è un’espressione priva di significato autonomo giacché essa non rimanda ad alcun oggetto particolare, viene solo detto che all’interno di un insieme di oggetti, esiste un oggetto particolare, ma non viene detto quale né si può andare a vedere: una descrizione indefinita non implica l’individuo, lo richiede semplicemente. Frege propone, non nell’articolo “Senso e denotazione” ma in altri lavori, di concepire “esiste un x…” come una funzione di funzione, dove il predicato è la funzione di primo livello e l’esistenziale è una funzione di secondo livello: in questo senso bisogna che sia prima posta la soddisfazione della funzione di primo livello e poi di quella di secondo. Se la prima funzione rientra nel dominio della seconda allora la funzione di secondo livello ( che ammette a sua volta valori di verità ) sarà vera, altrimenti risulterà falsa: la forma dovrà essere la seguente: G(F(x)), se la “G” è un’esistenziale allora si potrà riscrivere la formula nel seguente modo: “Ex(F(x))” in altri termini, “esiste un (x) tale che predicato(x)”= vero per tutti i valori che soddisfano il predicato e la funzione di secondo livello e falso altrimenti. Da questo procedimento, risultano componibili infinite funzioni: la regola di composizionalità e di verità per le funzioni di secondo livello deve essere rispettata anche per funzioni di livello superiore al secondo. In tutto questo, comunque, la “x” della funzione di primo e di secondo livello deve essere un termine singolare. Russell però nota che è assurdo pensare che non si possa esprimere un valore di verità per tutte quelle espressioni che non rimandano ad alcun oggetto particolare, come “un unicorno”: “un unicorno mangia nella mia stanza” è una frase indecidibile per Frege perché non esiste nessun oggetto “unicorno” e dunque il pensiero espresso dalla frase, il suo senso, non rimanda ad alcun che di realmente esistente nel mondo, motivo per il quale non si può dire né che il pensiero sia vero piuttosto che falso. Per Russell questo è una grave limitazione. Egli dunque nota che gli enunciati per Frege sono composti o da nomi o da descrizioni definite con un certo predicato, a partire dal principio di composizionalità. E’ evidente, per Russell, che se tale impostazione produce un’indecidibilità su enunciati intuitivamente assurdi, deve esserci qualche cosa che non funziona: o il malfunzionamento sta nei termini singolari, o il malfunzionamento sta nel principio di composizionalità. Secondo Russell il principio di composizionalità è un principio valido perché è ciò che consente di formare e verificare gli enunciati, dunque il problema deve essere nei termini singolari. Ed infatti Russell sostiene che solo i nomi propri possono soddisfare i predicati e non le descrizioni definite. Le descrizioni definite non sono abbreviazioni di nomi, sembra che siano così solo perché grammaticalmente ( nell’analisi logica delle scuole ) risulta che nomi e descrizioni definite svolgono la stessa funzione: di soggetto. Ma Russell dice che questo è solo l’apparenza, egli così sostiene una tesi radicale: le descrizioni definite sono simboli incompleti che non dovrebbero presentarsi in un linguaggio logicamente perfetto, non ambiguo e sempre significante. Ma nel linguaggio naturale ci sono e allora come fare? Russell sostiene che esse vanno eliminate e nel caso di frasi in cui compaiono egli propone una parafrasi: una parafrasi è un modo di riscrivere la frase conservando lo stesso significato. Il principio di conservazione del valore di verità ( principio di sostituibilità ) e del contenuto sembrano essere due verità assolute di ogni realtà, o del modo di pensare umano. Un esempio: “il mio gatto è grigio” è riscrivibile in questi termini “esiste uno e un solo individuo che è un mio gatto grigio”: il principio è semplice e consiste nel ricondurre la descrizione definita nei termini di un nome proprio, la descrizione definita deve scomparire facendo posto a un nome proprio, unica entità in grado di soddisfare le funzioni proposizionali. “la matita di Francesco è nera” è riscrivibile in questo modo: “esiste uno e un solo individuo che è la matita di Francesco ed è nera”. In linguaggio logico: “Ex ( Qy (y→x) matita di Francesco(x) Λ esser-nera(x)) ovvero esiste un individuo “x” tale che qualunque “y”, “y” implica “x” e “x” è la matita di Francesco Λ ed “x” è nera. In questo modo può essere risolto il problema dell’indecidibilità di espressioni contenenti descrizioni improprie: “Superman è un supereroe”: “esiste uno e un solo individuo che è Superman ed è un supereroe” ora, in questo modo è molto più semplice affermare che questa frase è falsa perché rimanda direttamente ad una definizione di un oggetto: ma non esiste alcun individuo che soddisfi la proprietà “esser-Superman(x) Λ esser-supereroe(x)” dunque questo enunciato è falso perché qualunque individuo sia denotato l’enunciato risulterà sempre falso. Allo stesso modo dicasi per “l’attuale re di Francia è biondo”: “esiste uno e un solo individuo che regna attualmente in Francia ed è biondo” ovvero “Ex ( Qy (y → x), regnante in Francia(x), esser-biondo(x))”: non c’è nessun individuo che soddisfi tali relazioni, perciò tale enunciato è falso.

Specifica IV: le due proposte, quelle di Russell e quella di Frege hanno loro pregi e loro difetti, l’una, per esempio, non tiene conto che noi usiamo effettivamente le descrizioni definite come nomi propri, ed anzi, i nomi propri sono riscrivibili nei termini di descrizioni definite ( che poi sono ciò che maggiormente ci informa relativamente alle cose del mondo ); d’altra parte l’altra posizione non riesce a dire se una descrizione impropria che è chiaramente priva di significato, se è falsa o meno. Non sappiamo se si possa applicare il principio di Russell alle sole descrizioni improprie, perché ciò sarebbe una mediazione tra le due posizioni, comunque non ci azzardiamo a dire alcun che a riguardo per non dire cose dubbie.

                                                 

Schema di ragionamento di Frege in “Senso e denotazione”.

  1. (( a = a ) ≠ (a = b)).
    1. Le due espressioni sono di stessa forma, ovvero sono due relazioni di uguaglianza: la prima è l’espressione dell’identità logica, ovvero la relazione che un oggetto ha con se stesso. Nella seconda abbiamo una coincidenza tra due segni i quali denotano entrambi una stessa cosa ma in modo diverso.
    2. Frege osserva che la relazione di identità e di coincidenza non avrebbe senso se non ci fosse una certa distinzione nel modo di dare un certo significato: in queste espressioni è evidente che la denotazione è la medesima.
      1.                                                                                 i.      Se dico “Giangi è uguale a Giangi” sto denotando una certa persona “Giangi” realmente esistente ed esprimo la relazione che Giangi ha con se stesso. Se dico “Giangi è un ragazzo che studia filosofia” sto sempre indicando una certa persona realmente esistente ma lo sto facendo in modo diverso che nell’altra espressione.
    3. Per Frege c’è una reale distinzione tra l’espressione prima e quella seconda seppure da un certo punto di vista la relazione (( a = a ) ≠ (a = b)) può essere intesa in questo altro modo: (( a = a ) = (a = b)), in questo modo stiamo esprimendo che le due espressioni hanno un medesimo significato.
    4. Il primo modo è quello che per Frege è rilevante, in questo caso, ovvero far notare come tra espressioni di uguale significato, ci sia una disuguaglianza nel modo di porre il significato stesso.
  2. (( a = a ) ≠ (a = b)) = espressione di una relazione di segni.
    1. Ovvero, la relazione qui espressa dà un certo significato attraverso un certo senso, ma essa, come si vedrà, è il modo di considerare una certa espressione linguistica. In questo senso, il linguaggio è un complesso di segni in relazione tra loro.
    2. I segni sono ciò che nel linguaggio sostituiscono oggetti e proprietà degli oggetti. In questo modo, il linguaggio deve tenere conto, nella sua formulazione attraverso i segni, proprio delle realtà effettivamente esistenti nel mondo. Il linguaggio, al di là del senso e del significato che attraverso esso possono essere espressi, non è altro che una relazione di segni.
      1.                                                                                 i.      Dunque, considerato che “a = b” sono un insieme definito di segni, essi hanno una ragion d’essere solo perché devono trasmettere un certo senso e un certo significato. Le relazioni di segni servono solo come tramite: nel mondo esistono già oggetti con certe proprietà, allo stesso modo, esistono pensieri al di là delle nostre espressioni.
      2.                                                                               ii.      Le relazioni di segni ci servono proprio ad esprimere le cose realmente esistenti, sensi e significati e cioè pensieri ed oggetti.
  3. (( a = a ) ≠ (a = b)) = le due espressioni sono equivalenti nel loro valore di verità ma sono diverse quanto al senso.
    1. Ovvero, ciò che cambia è proprio il modo di darsi dell’oggetto denotato e tale variazione è la stessa differenza tra le due espressioni.
  4. Il segno = simbolo che indica un certo significato.
    1. Tra sensi, segni e significati vale la seguente relazione di disuguaglianza.
      1.                                                                                 i.      Segno ≠ senso ≠ significato.
        1. E così anche Segno ≠ significato.
        2. E così anche Senso ≠ significato.
        3. E così anche Segno ≠ senso.
  5. Il senso di un nome è il modo di darsi di un certo significato.
    1. Frege, per chiarire ciò che per altre espressioni del linguaggio, mostra come un nome proprio sia una abbreviazione della descrizione definita equivalente.
      1.                                                                                 i.      “Aristotele” può essere riscritto come “il discepolo di Platone” o “il maestro di Alessandro magno”.
    2.  Ciò che conta è che ad un nome sia associata una descrizione definita. Una descrizione definita è un asserto linguistico introdotto da un articolo determinativo: qualsiasi descrizione che non sia introdotta da un articolo determinativo non può essere di per sé ascritta all’insieme delle descrizioni definite.
    3. Una descrizione definita è introdotta da un articolo determinativo perché deve introdurre un’entità unica realmente esistente e non un’unità di un insieme non meglio identificata.
    4. Una descrizione definita non è semplicemente un insieme di segni che svolgono la stessa funzione di un nome, devono anche denotare qualcosa: una descrizione definita potrebbe essere anche “il cavallo nero di Napoleone”. Considerato che nel mondo il cavallo di Napoleone era bianco, una descrizione come “il cavallo nero di Napoleone” non denota nulla, ovvero ad essa non corrisponde alcuna entità realmente esistente. In questo senso, per Frege, vedremo, un’espressione di questo tipo non ha alcun significato, nel senso che non è né vera né falsa.
    5. Descrizione definita ↔ l’espressione ha la forma “il così e così” Λ denota una entità realmente esistente.
      1.                                                                                 i.      Da questa definizione di descrizione definita, ovvero come l’espressione linguistica equivalente ad un nome proprio, definita nella forma “il così e così” e denotante un’entità realmente esistente, possiamo trarre la caratterizzazione di tutte le altre descrizioni.
      2.                                                                               ii.      < Descrizione definita ( Descrizione definita = espressione di forma “il così e così” + denotazione di entità realmente esistente ) →  Descrizione definita – Espressione di forma “il così e così” = denotazione di entità realmente esistente >>.
        1. Una espressione di forma “il così e così” che non denota alcuna entità è definita descrizione impropria.
        2. La descrizione impropria nel linguaggio assolve le funzioni di una descrizione definita, secondo un punto di vista grammaticale, ovvero come si comporta a partire dalle regole del linguaggio, ma non ha in realtà alcun significato, per Frege.
        3. Descrizione impropria = espressione linguistica di forma definita “il così e così” + espressione priva di denotazione.
        4.                                                                             iii.      < Descrizione definita ( Descrizione definita = espressione di forma “il così e così” + denotazione di entità realmente esistente ) → Descrizione definita – espressione “il così e così” = denotazione di entità realmente esistente >.
          1. Una descrizione diversa dalla forma “il così e così” che denota realmente qualcosa è detta descrizione indefinita.
          2. La descrizione indefinita ha come forma “un così e così” ed è l’espressione di un individuo nella sua relazione d’insieme.
            1. Per fare un esempio: “un gatto” non è equivalente a “il gatto” in quanto con “il” in italiano si intende indicare un oggetto, animale, persona unica, singolare ecc.. Mentre con “un” in italiano si vuole dire quello che in logica si esprime compiutamente con un quantificatore esistenziale.
            2. “un gatto” è equivalente a “esiste un individuo tale che questo individuo è un gatto”. Se poi vogliamo giustamente intendere un gatto come un individuo dotato di certe proprietà allora si può anche riscrivere l’espressione “esiste un individuo tale che questo individuo è dotato di tutte le proprietà richieste per essere effettivamente un gatto”.
            3. Insomma, in una descrizione indefinita non è presente una denotazione di un individuo in particolare, ma si afferma semplicemente che all’interno di un certo insieme di elementi, almeno uno esiste.
            4. Una descrizione è detta indefinita proprio per indicare un termine non privo di un suo significato ma che non denota di per se uno e un solo oggetto.
            5. Una descrizione indefinita ↔ espressione di forma “un così e così” Λ denota una certa classe di oggetti.
  6. Termine singolare = qualsiasi termine capace di fare le veci di un nome proprio e ha come significato uno e un solo oggetto particolare.
    1. Il termine singolare = nome proprio Λ descrizioni definite.
    2. Non sono termini singolari le descrizioni improprie e le descrizioni indefinite.
    3. ¬ termini singolari ( concetti v relazioni )
    4. Un termine singolare può essere composto da più segni che, complessivamente, svolgono una sola funzione: è il caso delle descrizioni definite che ammettono una pluralità di segni ma solo tutti insieme concorrono alla formazione di una descrizione definita.
    5. Ex. “il tavolo nero in cucina” è una descrizione definita ed è composta di più segni e può essere un’espressione utilizzabile per soddisfare predicati.
  7. Ex ( significato (x) ()y ( senso (y) y→ x ) aver senso (x) ).
    1. In altre parole, esiste uno e un solo significato per ciascun senso.
    2. Il che non significa che esiste un solo senso per ciascun significato.
    3. Esistono una molteplicità di sensi per ciascun significato e questa molteplicità è importante perché essa è ciò che ci garantisce un certo incremento nella nostra conoscenza del mondo. In questo modo, il senso non è semplicemente una cosa neutra attraverso cui si dà un significato, ma esso è effettivamente un che di fondamentale all’interno di un’espressione linguistica che voglia esprimere informazioni intorno al mondo.
      1.                                                                                 i.      Frege mostra questo attraverso vari esempi. Ne facciamo qualcuno meno antiquato: “Superman è superman” supponendo che Superman esista realmente ( altrimenti l’esempio non funziona ), l’enunciato è equivalente a “Superman è il primo supereroe ad aver fatto fortuna”. Infatti “il primo supereroe ad aver fatto fortuna” non può essere che Superman. I due enunciati hanno effettivamente uno stesso significato e sono entrambi veri: essi denotano la medesima cosa ed entrambi sono veri perché rispecchiano lo stato di cose del mondo. La differenza tra i due è proprio che il primo è una verità logica che non ci dà nessuna informazione ulteriore: esso è un enunciato vero, basta. Nel secondo caso invece, c’è una certa variazione di informazione giacché, magari, non sapevamo che Superman fosse veramente “il primo supereroe ad aver fatto fortuna”.
      2.                                                                               ii.      L’idea guida è quella che il senso di un enunciato è determinato dal senso dei suoi componenti, per dirla in modo più rigoroso: un enunciato si ottiene a partire dalla composizione delle sue parti semplici, termini singolari e predicati. In questo senso, il senso di un enunciato è in tutto determinato dal senso di ciascun termine e così anche il significato.
      3.                                                                             iii.      Per formare un enunciato si abbisogna di parti semplici sommabili tra loro, termini singolari e predicati, e la “sommabilità” è il principio di “composizionalità”.
      4.                                                                             iv.      Per Frege esiste un regno di realtà che è quello dei significati, che altro sono se non le cose realmente esistenti. Ma ne esiste anche un altro che è composto dall’insieme dei sensi possibili. Quando uno esprime un certo enunciato, esprime un certo senso e il senso di un enunciato è un pensiero: capire un enunciato implica capirne il senso dunque il pensiero relativo. Ma questa “comprensione” per Frege si chiama “apprensione” ovvero è un “afferrare” il pensiero di un certo insieme di segni. Da ciò ne deriva che un enunciato esprime innanzi tutto un pensiero e questo può essere vero o falso. Se è vero allora avrà un certo corrispettivo nella realtà, altrimenti sarà falso. Questa non corrispondenza, che determina la falsità di un certo enunciato, non implica che anche il pensiero sia falso, nel senso che non esiste, semplicemente che ad esso non corrisponde nulla nella realtà:
        1. Ex.. “Fidel è un gatto” è vero se e solo se “Fidel” è veramente un gatto. Siccome era il mio gatto preferito allora l’enunciato “Fidel è un gatto” è vero. Il pensiero espresso dall’enunciato mostra la sua stessa possibilità d’esser vero, in altri termini, ne pone i valori di verità: vero o falso. Ma se sia effettivamente Vero o Falso dipende dall’esistenza di quel particolare oggetto.
        2. Ex.. “Fidel è un gatto” è falso se e solo se “Fidel” non è in realtà un gatto ma, per esempio, un cane. In questo senso il predicato “essere un gatto (x)” dove la “x” sta per una variabile che soddisfa la funzione proposizionale “essere un gatto”, non è soddisfatto dall’entità reale “Fidel” dunque l’enunciato è falso. Ciò significa che il pensiero espresso dall’enunciato non trova corrispondenza nei fatti della realtà, ma non che il pensiero non esista: si può ben capire cosa sia un enunciato, ma non necessariamente ammettere che esso sia vero.
        3. Il passaggio dalla conoscenza di un pensiero ( apprensione ) alla sua corrispondenza della realtà è chiamato “giudizio” in Frege.
        4.                                                                               v.      Le lingue non differiscono né per i segni né per i significati ma solo per i segni.
          1. Ciò è evidente in quanto il mondo reale è unico: più parlanti di diverse lingue riescono a capirsi a gesti proprio perché le cose sono quelle per tutti.
          2. Inoltre anche i sensi sono universali giacché esistono indipendentemente dalle menti dei parlanti.
          3. Il concetto secondo cui il senso del linguaggio rappresenta un mondo di per sé esistente è chiamato “logicismo”. Frege era assolutamente persuaso della separazione radicale tra mondo delle cose, mondo dei pensieri e mondo delle rappresentazioni.
  8. Segno ≠ Senso ≡> ()x ( lingua (x) Ey ( segno (y) Λ y → x ) aver senso (x)).
    1. Il che significa che ciascuna lingua ammette diversi segni per uno stesso senso =>> il senso è indipendente dai particolari segni dei parlanti.
    2. Per Frege esistono diversi segni per un solo senso e diversi sensi per un solo significato. Il significato è unico giacché non può che essere così: una cosa è unica e non può essere che se stessa. Ma una stessa cosa può essere espressa in modi differenti e ciò è una cosa utile, come abbiamo visto. La pluralità di sensi non determina una pluralità di pensieri, nel senso che più pensieri possono esprimere delle proprietà di una stessa cosa, ma nella loro espressione sono unici. D’altra parte, proprio il fatto che esistano molti modi di esprimere il significato all’interno del linguaggio naturale, è indice di possibilità di ambiguità ed è il motivo per cui Frege sostiene che in un linguaggio perfetto dovrebbe esistere un unico senso per un unico significato… e naturalmente un unico segno per un unico significato.
    3. La teoria di Frege è una semantica delle descrizioni, intendendo con “semantica delle descrizioni” un modo per descrivere le cose realmente esistenti nel mondo, cosa che noi facciamo attraverso le definizioni e, in generale, frasi dichiarative. Tutto ciò che è al di fuori non è compreso nella semantica fregeana, in un certo senso. E’ interessante notare che per Frege non c’è alcuna perdita nella traduzione di enunciati da una lingua ad un’altra lingua e ciò è motivato dal fatto che gli enunciati dichiarativi si fondano su valori di verità e corrispondenza, ovvero essi rimandano direttamente al pensiero e al significato. In questo senso, per Frege non c’è alcuna differenza tra “Tomorrow the sun shines” e “Domani il sole sorgerà” in quanto entrambe esprimono lo stesso pensiero ed esprimono lo stesso significato.
  9. Dalla conoscenza di un senso non perveniamo immediatamente alla conoscenza del significato ma arriviamo alla definizione dei suoi valori di verità.
    1. Un enunciato è un’espressione linguistica composta da un predicato e un termine singolare.
    2. Un termine singolare sappiamo cos’è.
    3. Un predicato è un concetto, come pensiero, e non ha significato. Il predicato è una funzione proposizionale della forma F(x) soddisfatto per tutti i valori della “x” che rientrano nel suo campo: al “F” è la costante della funzione e, nel caso dei predicati, esprime la proprietà che deve venire attribuita ad un certo termine singolare. La “x” sta per un qualsiasi termine singolare.
      1.                                                                                 i.      “x è rosso”, “x mangia”, “x digerisce”, “x gioca a scacchi” sono tutti predicati.
      2.                                                                               ii.      Per Frege i predicati non hanno alcun significato: se il significato è relativo ai soli termini singolari, se i termini singolari rimandano direttamente ad un termine realmente esistente allora i predicati di per loro non indicano nulla. Infatti dire “x mangia” non dice chi o cosa sta mangiano, semplicemente si esprime una relazione in astratto.
      3. Ora, un predicato, in quanto funzione, per avere significato deve essere associato ad un’altra cosa. La F(x) viene saturata da tutti i termini singolari possibili. Alla saturazione della funzione proposizionale segue un enunciato.
        1. Si chiama “funzione proposizionale” perché alla sua saturazione segue una proposizione ( o enunciato ).
        2. iv.      Non tutti i possibili termini singolari soddisfano tutti i predicati allo stesso modo, ciò è evidente. Per tale ragione, ad ogni “x” di una funzione proposizionale F(x), dove “x” è un termine singolare, una funzione proposizionale è vera se e solo se la “x” rientra nell’estensione del predicato e falsa per tutti gli altri valori.
        3. Per esempio “ x mangia” è soddisfatta per tutti gli individui che stanno mangiando ora effettivamente e falsa per tutti gli altri. Per esempio, “Giangi mangia” è falsa perché ora sto scrivendo. Mentre “ Emilio mangia” è vera perché Emilio sta effettivamente mangiando.  v.  La funzione si può anche pensare come un’espressione di un insieme tale per cui essa è vera per tutti gli elementi dell’insieme  ( definiti da certe proprietà ) e falsa per tutti gli altri.
        4. Per esempio “x mangia” è una proposizione che può essere pensata come una funzione dove mangia(x) è vera se e solo se “x” è un termine singolare che soddisfa il predicato, ma può essere intesa come l’espressione di un insieme di tutte le persone o animali che stanno mangiando ora, motivo per il quale tutti gli elementi dell’insieme soddisfano l’espressione “x mangia” e tutti gli altri la rendono falsa.
        5. vi. Un enunciato, come abbiamo detto, è il risultato di una funzione saturata. Esso esprime compiutamente un pensiero e un significato.                vii. Un enunciato è un’espressione linguistica del tipo “ a è b” ovvero “Giangi è basso”. In questo modo, abbiamo sempre un termine singolare e una funzione soddisfatta da quello.                                                                       viii.      In una notazione logica funzionale proposizionale l’enunciato sarebbe espresso in questo modo “esser basso ( Giangi )” ovvero esso ricalca la forma della funzione saturata “esser-basso (x)” e la “x = Giangi”. In questo senso, un enunciato ha dei valori di verità vero o falso.
  10. Se un enunciato è composto dalle sue parti semplici, se un enunciato si ottiene a partire dalla composizione di predicati con termini singolari allora i valori di verità degli enunciati dipendono dai significati delle sue parti semplici.
    1. Un enunciato di senso compiuto esprime sempre un pensiero ma non necessariamente un significato: un senso compiuto è di per sé un pensiero e, dunque, un enunciato ben formato non può che esprimere adeguatamente il suo pensiero. Ciò non significa che tra il pensiero e il mondo ci sia corrispondenza: infatti, un enunciato ha un senso compiuto anche nel caso in cui un predicato sia soddisfatto da una descrizione impropria. In questo caso, infatti, un enunciato ha un senso compiuto ma non ha alcun significato.
      1.                                                                                 i.      In quanto un pensiero è un entità extramentale reale immateriale, esso è valido, qualora espresso correttamente. Tuttavia, se un pensiero non ammette un significato allora l’enunciato che lo esprime non può essere detto né vero né falso. Un significato non è altro che un certo oggetto esistente nella realtà materiale oggettiva, se un enunciato non indica alcun che di realmente esistente, come nel caso che sia formato da un termine singolare privo di significato, ovvero una descrizione impropria, quell’enunciato non rimanda ad alcun significato, non rimanda ad alcun oggetto. Dunque esso non è né vero né falso.
      2.                                                                               ii.      La verità e la falsità per Frege sono oggetti, nel senso che essi sono predicati di cose che esistono. Non si può dire che “Spiderman è il mio più caro amico” sia falso. Questo enunciato, per Frege, non è né vero né falso, esso esprime un pensiero che, però, non ha alcun oggetto referente nel mondo. In questo senso non è possibile affermare alcun che nella realtà oggettiva in quanto non c’è alcun oggetto che risponde alla descrizione “Spiderman”: il nome proprio non indica alcun oggetto, alcuna persona e, dunque, di esso non si può dire nulla.
      3.                                                                             iii.      Tutto ciò che si può dire è di cose che esistono, sia che esse siano vere, sia che esse siano false. Per esempio “Superman è un supereroe” è vero nel senso che esiste nel mondo degli oggetti una cosa definita come “Superman” ed è una certa figura colorata di un albo a fumetti sopra il mio comodino. Ma se vogliamo intendere con “Superman è un supereroe” un enunciato che indichi un essere inteso come “un uomo dotato di super poteri” allora è un enunciato né vero né falso perché tale individuo semplicemente non esiste.
    2. Un enunciato con una descrizione impropria ha un senso compiuto ma non ha alcun significato.
    3. Dunque, un enunciato con un senso compiuto privo di significato esprime un pensiero e non è né vero né falso.
  11. Ex, Ey ( senso (x) Λ significato (y), indiretto(x, y)).
    1. Il senso indiretto di un’espressione è quello introdotto da un verbo di credenza: “dubitare”, “pensare”, “sapere”, “conoscere”.
    2. Questi verbi sono incompleti di per loro, ovvero in sé stessi sono privi di un significato particolare: essi non sono comuni predicati in quanto non si soddisfano semplicemente con nome proprio o con una descrizione definita ma introducono enunciati in cui l’uso delle parole è legato a quello del parlante.
    3. “Si crede che…” implica “io credo che…” e quando dico “io credo che…” non sto esprimendo alcuna relazione delle cose del mondo, ma una mia attitudine proposizionale, ovvero un certo mio modo di pensare.
    4. Per questa ragione Frege sostiene che le frasi, con verbi di credenza, introducono delle frasi con significati particolari e sensi particolari: sensi e significati indiretti.
    5. I sensi indiretti sono introdotti da “segni di segni”.
  12. La rappresentazione = contenuto soggettivo suscitato da una certa espressione linguistica.
    1. Esistono tre regni: il regno dei sensi, il regno dei significati, il regno delle rappresentazioni.
      1.                                                                                 i.      Il regno dei sensi è lo stesso regno dei pensieri.
      2.                                                                               ii.      Il regno dei pensieri è di stampo platonico e concepisce i pensieri come entità reali extramentali immateriali.
      3.                                                                             iii.      Il regno dei significati è il mondo delle cose o della totalità dei fatti.
      4.                                                                             iv.      Il regno dei significati è un mondo di entità singolari definite materialmente.
        1. Il regno dei significati e quello dei pensieri sono due mondi oggettivi, esistono indipendentemente dalla realtà personale dei soggetti e esprimono delle conoscenze universali.
        2. Il linguaggio può connettere il regno dei sensi con quello dei significati.
        3.                                                                               v.      Il regno delle rappresentazioni è la realtà soggettiva dei soggetti.
        4.                                                                             vi.      Le rappresentazioni sono le sensazioni singolari che ciascuno prova e non sono oggetto di conoscenza giacché esse sono di realtà essenzialmente privata e non sono conoscibili da altri che da noi stessi. Per tale ragione Frege sostiene che le rappresentazioni non sono oggetto di conoscenza né di interesse da parte della conoscenza stessa del mondo.
          1. E’ interessante notare come effettivamente quando riportiamo delle conoscenze del mondo non diciamo mai “io credo che x” o “mi sembra che y” diciamo “x = y” e “y è l’insieme delle proprietà z nel contesto w”. La definizione è una relazione tra segni ed esprime un certo senso e un certo significato e non avrebbero alcun senso se non esiste un mondo degli oggetti/proprietà del quale possiamo esprimere certe relazioni.
          2. Nel linguaggio “ragione” non facciamo altro che esprimere relazioni di cose o di coscienze. In questo modo noi esprimiamo ogni nostra conoscenza e la relazioniamo con le altre pregresse. In tutto ciò non è mai richiesta alcuna conoscenza sensibile, intendendo che le rappresentazioni fregeane non intervengono in alcun modo nella formazione del linguaggio “ragione” o linguaggio “conoscenza” che usiamo nell’espressioni epistemologiche.
          3. Diverso è il caso in cui noi esprimiamo delle impressioni sensoriali. In questo caso dobbiamo per forza esprimerci in modo ambiguo con enunciati di credenza “io credo che quella cosa sia grossa” è chiaramente un enunciato che non implica alcuna conoscenza delle proprietà della “cosa” in quanto di essa non abbiamo alcuna conoscenza precisa, né possiamo essere del tutto sicuri della sua qualità spaziale, giacché ciò che ci appare in un modo non è affatto ovvio che sia realmente così come lo vediamo.
          4. Quando dobbiamo esprimere qualità inessenziali e secondarie delle cose usiamo solitamente degli enunciati di credenza. Con gli enunciati di credenza si esprime la relazione di certe informazioni ad un soggetto motivo per il quale un enunciato di credenza è semplicemente impensabile senza un soggetto determinato nel tempo e nello spazio, cosa ininfluente per la comprensione di enunciati del linguaggio “ragione”.
          5. Dunque esistono due linguaggi distinti che esprimono due cose diverse. Un linguaggio è quello della ragione ed esprime delle conoscenze delle proprietà degli oggetti e degli oggetti stessi nel mondo. Un altro linguaggio è il linguaggio dell’apparenza ed è quello che utilizziamo per esprimere enunciati relativi ad una certa sensazione del soggetto. I due linguaggi definiscono cose diverse e non possono essere mischiati senza commettere errore.
          6. Considerato ciò, è un grave errore quello che accade comunemente, ovvero quello di comporre delle frasi a partire dai due linguaggi distinti: dire “io credo che il tetto sia rosso” non è mai vero anche quando in concomitanza di un oggetto che definiamo “tetto” effettivamente occorre una certa sensazione del colore “rosso”. Infatti nella frase ci sono due significati distinti: una è la denotazione, il significato dell’enunciato “esser (tetto)” dall’altra il significato “esser sensazione (rossa)”. Per la semantica di Frege e Russell di tanti altri non ha alcuna rilevanza alcune questioni di tipo epistemologico perché risulterebbero fuorvianti nello studio della semantica, ma per noi risultano in generale assai importanti. L’enunciato “io credo che il tetto sia rosso” è ambiguo perché esistono due modi di poter essere interpretato: “io credo che il tetto sia rosso” può intendersi come “esiste un oggetto definito da certe proprietà (tetto) ed è una sua proprietà quella di esser rosso”. Da un’altra parte possiamo interpretare l’enunciato in quest’altro modo “esiste un oggetto definito da certe proprietà (tetto) e in concomitanza della sua presenza io percepisco attraverso la vista un colore rosso”. La prima frase denuncia un errore giacché associa un certo colore alla cosa, quando, in realtà, siamo noi che vediamo i colori nelle cose e che traduciamo i suoni e sentiamo che una cosa è ruvida e così via.
          7. Si potrebbe obbiettare che implicitamente i parlanti esprimano sempre l’intenzione chiarificata dalla seconda interpretazione, ma in realtà non è affatto così. Nella maggior parte dei casi si fa una grande confusione nell’attribuzione delle qualità agli oggetti proprio perché esiste un magma soggettivo privato che non è riducibile in alcun modo ad oggetti o proprietà di oggetti.
          8. In un linguaggio che voglia esprimere delle conoscenze non c’è spazio per enunciati di credenza. In questo senso, non bisogna nemmeno eliminarli dalla propria facoltà linguistica, giacché essa deve essere elastica e, addirittura, ambigua, nella misura in cui proprio quella ambiguità, spesso, ci fa comprendere informazioni importanti delle persone e delle cose: quando qualcuno ci parla dei suoi problemi o delle sue gioie non ha certo importanza che la maggior parte di quegli asserti siano sostanzialmente ambigui se non privi di fregeano senso proprio. In realtà, per capire un’espressione di un soggetto di forma “io credo che…” basta che negli enunciati che seguono alla credenza ci sia alcune un significato che sia effettivamente comune trai due parlanti, poi, che quello fosse proprio ciò che intendesse il nostro interlocutore ha un’importanza inferiore rispetto al fatto che noi abbiamo potuto farci un’idea nostra della cosa.
          9. La considerazione fatta sopra vale per tutte quelle espressioni di carattere sensoriale che, come giustamente nota Frege, non si vede come sia possibile conoscere con una certa oggettività. Il punto è che, in realtà, perché l’enunciato di tipo “credenza-sensoriale” sia compreso, basta che ci sia almeno un significato compreso dai due parlanti: “io vedo celeste” è una proposizione comprensibile per tutti coloro che credono di aver una certa idea del celeste. Quando due percepiscono una cosa come “celeste” non ha importanza che i due pensino alla stessa sensazione come una certa sensazione identica, basta che essi associno a quella particolare sensazione una certa denotazione comune. Se dico “il colore che associo al cielo è il celeste” subito tutti i parlanti non ciechi e non daltonici pensano ad un colore, probabilmente il celeste, proprio quella sfumatura di celeste che intendo io. Ma, si faccia caso, che data l’infinita quantità di colori presenti in natura, le infinite sfumature e le differenze dei nostri corpi, è assai difficile che due parlanti pensino realmente allo stesso colore quando si dica “il colore che associo al cielo è il celeste”. Se osserviamo bene i colori, non possiamo che notare l’assoluta relatività del caso, del contesto e della nostra sensibilità della nostra sensibilità in un dato momento. Ma per capirsi non ha importanza che ci si intenda nell’esattezza, motivo per il quale i logici, nella loro rigorosità legittima, hanno subito scartato tale linguaggio “sensibilità/credenza” perché troppo impalpabile, ambiguo e incapace di denotare chiaramente le cose.
          10.                                                                           vii.      In sintesi: la totalità delle realtà comprende tre regni.
            1. Il mondo delle rappresentazioni = 1) realtà soggettiva Λ mentale Λ immateriale (?)
            2. Il mondo dei sensi = realtà oggettiva Λ non mentale Λ immateriale.
            3. Il mondo dei significati = realtà oggettiva Λ non mentale Λ materiale.
            4.                                                                         viii.      Importante è capire che quando si esprimono degli enunciati, di qualsiasi tipo, compresi, in una certa misura gli enunciati di credenza, per Frege non si sta compiendo alcun atto soggettivo ma solamente un’operazione intersoggettiva che ha a che fare con oggetti extramentali in ogni caso ed è proprio per la loro natura extramentale che essi possono essere anche pensati come veri o falsi, indipendentemente dalla soggettività del parlante.
  13. Il senso non è parte del mondo della psiche del soggetto.
  14. Il significato di un nome proprio è l’oggetto denotato nella realtà delle cose o dei fatti.
  15. Il termine singolare = esprime il proprio senso e designa un suo proprio significato.
  16. Un enunciato esprime un pensiero.
    1. Il pensiero ≠ significato.
    2. Il pensiero = senso enunciato.
    3. Dunque ( a variazione di senso → variazione di significato ).
    4. Il principio di sostituibilità lascia invariato il significato ma non il pensiero di un enunciato.
    5. Il principio di sostituibilità sostiene che un’espressione composta da due parti “a” e “b” rimane invariata nel suo valore di verità e nel suo significato se a una delle sue parti ne viene sostituita una di stesso significato.
      1.                                                                                 i.      Nella variazione dell’enunciato a partire dall’applicazione corretta del principio di sostituibilità non c’è variazione di significato, ma solo variazione di senso.
      2.                                                                               ii.      Sin dal principio Frege mostra la validità di questo principio: nel caso delle due espressioni “a = a” e “a = b” possiamo vedere tale principio all’opera. Considerato che le due espressioni denotano la stessa cosa, è facile notare come il significato, ovvero il referente oggettivo, delle due espressioni sia lo stesso. Ma il senso delle due espressioni è evidentemente differente. Se il senso è il pensiero, ad una variazione di senso non può che conseguire una certa variazione di pensiero ovvero sensi diversi esprimono pensieri diversi.
  17. Gli enunciati dichiarativi sono tutti quelli definiti dalla soddisfazione della funzione proposizionale della forma “F(x)” tale che l’enunciato sarà vero per tutti i valori della “x” che soddisfano il predicato e falso altrimenti.
    1. Un enunciato può avere un senso Λ esprimere un pensiero Λ avere un significato.
    2. ( Un enunciato può avere un senso Λ esprimere un pensiero Λ e non avere un significato ) ≡ espressioni che hanno un pensiero oggettivo extramentale e espressioni che non hanno un referente oggettivo materiale corrispondente a quel pensiero –tali enunciati saranno né veri né falsi-.
    3. Enunciati dichiarativi = vero (enunciato) ↔ corrispondere ( senso Λ significato ).
  18. Un enunciato ha un senso compiuto ↔ predicato soddisfatto da termine singolare rientra nel campo del predicato =>> enunciato – significato = enunciato di senso compiuto esprimente solo un pensiero Λ enunciato – predicato = termine singolare Λ enunciato – termine singolare = predicato.
  19. Qx ( enunciato senso compiuto (x), Ey (significato (y)) ¬ (x →y)).
    1. Il fatto che un senso compiuto esprima un pensiero non è sufficiente a far sì che questo abbia anche un significato.
  20. Il pensiero di un enunciato pone il valore di verità dell’enunciato stesso Λ il significato determina la verità di un enunciato =>> vero(enunciato) ↔pensiero → significato.
  21. Il valore di verità è definito da:
    1. Il problema della definizione del significato dell’enunciato.
    2. Il valore di verità = ( vero o falso ).
    3. Il problema del valore di verità = problema riconosciuto anche dallo scettico.
      1.                                                                                 i.      Uno scettico può anche negare che ci si possa esprimere chiaramente sulla verità delle nostre conoscenze sul mondo, ma non può che discutere proprio sulla verità o falsità delle nostre conoscenze: egli si domanderà proprio quando un enunciato sarà vero o falso, a prescindere poi che egli sostenga che non potrà mai essere propriamente vero. Anche lo scettico parla in termini “cosali”, “fattuali” anche se ne rifiuta l’intelligibilità assoluta.
  22. (soggetto Λ predicato) = enunciato.
  23. P sostituibilità = un enunciato “a” composto da “b” e “c” che definiscono le sue parti, se a “b” parte dell’enunciato viene sostituito “d” che ha diverso senso ma uguale significato di “b” allora l’enunciato ottenuto dalla sostituzione di “d” a “b2 rimane vero.
    1. Ovvero, l’enunciato nuovo ha un diverso senso ma denota ancora la stessa cosa.
  24. Tutti gli enunciati veri hanno lo stesso significato così come tutti gli enunciati falsi.
  25. Conoscenza = pensiero Λ oggetto.
  26. P composizionalità = un enunciato composto da parti dotate di significato ha ancora un significato.
    1. Un enunciato composto da parti prive di significato non ha alcun significato e non è né vero né falso, ammesso che abbia un senso.
  27. Un enunciato composto da altri enunciati subordinati è nel complesso un altro enunciato.
    1. Enunciati con senso indiretti hanno come significati solo dei pensieri =>> non sono né veri né falsi.
    2. Nel caso delle subordinate di espressioni indirette la loro sostituzione non implica una variazione del significato della frase.
    3. Il senso indiretto è il significato indiretto dell’enunciato subordinato. Il senso indiretto non è null’altro che un pensiero e quindi il significato degli enunciati di credenza non è un significato ordinario nel senso che esso non è un oggetto. In questo senso Frege parla di senso indiretto come significato delle espressioni indirette, motivo per il quale non si parla d’altro che di pensiero.
  28. Il significato non è sempre il valore di verità ma solo negli enunciati che pongono un valore estensionale all’enunciato.
  29. Il fine è un pensiero: l’intenzione è un pensiero.
  30. In un’espressione il nome è assunto come dotato di significato.
  31. Si possono riscrivere nomi a partire dai concetti a patto che i concetti implichino solo un oggetto.
  32. Nel caso di enunciati condizionali in cui sono espressi due pensieri v’è formulata una relazione tra valori di verità.
  33. Un enunciato e una subordinata:
    1. Esprimono un unico pensiero ≡> enunciato principale →subordinata nominale.
    2. Esprimono due pensieri distinti in relazione ≡> enunciato principale Λ subordinata sono distinti.
    3. E(x) significato(x) subordinata ↔ ( enunciato principale v subordinata considerata di per sé ).
  34. Nell’analisi logica degli enunciati ci si deve attenere esclusivamente ai nessi linguistici dei sensi e dei significati a prescindere da ogni possibile deduzione di carattere soggettivo.
  35. Il principio di sostituibilità non vale nei casi in cui la subordinata sia parte integrante del pensiero espresso dalla principale.

Filosofia del linguaggio.

I problemi da affrontare per una teoria filosofica del linguaggio sono diversi: prima di tutto, bisogna delimitare l’ambito del linguaggio, ovvero quali sono i suoi confini e dove non può spingersi; in secondo luogo, deve stabilire quale relazione ci sia tra il linguaggio e il mondo delle cose; in terzo luogo, quale sia il funzionamento del linguaggio stesso, una volta definito il suo ambito e il suo rapporto con le cose esterne.

Frege risponde a tutte queste domande e, per ciò, è considerato uno dei primi filosofi del linguaggio, senz’altro uno dei padri della logica moderna e, quindi indirettamente, della filosofia analitica come filosofia che inizia ogni riflessione da un’analisi linguistica dei problemi.

Innanzi tutto, il linguaggio, secondo Frege, è un mezzo di comunicazione delle informazioni del mondo, noi comunichiamo conoscenze inerenti alle cose veramente esistenti. Egli fa notare, nel suo articolo “Senso e significato”, che esiste una certa differenza tra gli enunciati di identità e di coincidenza: “a = a” ha qualche cosa di diverso rispetto a “a = b”. Nel primo caso, abbiamo una semplice relazione di identità, ovvero l’espressione di uguaglianza di un termine con se stesso, di una cosa con se stessa. Nel secondo caso, invece, abbiamo una coincidenza tra un termine con un altro, per esempio, tra un nome e una descrizione definita. In questa “coincidenza” non c’è solo l’espressione di un’identità di un oggetto con se stesso, ma c’è proprio l’espressione di qualche altra cosa.

Il linguaggio può esprimere dei contenuti del mondo, per tale motivo è ragionevole fissare come criterio di esistenza di un linguaggio significativo da uno non significativo, proprio l’inerenza di un certo linguaggio con certe cose del mondo. Il significato, o denotazione, è l’oggetto a cui una certa espressione inerisce. Per esempio, il nome proprio “il comodino qui vicino a me” denota quel particolare comodino vicino a me.

Ma l’oggetto del linguaggio, com’è evidente, non è il linguaggio stesso, ma il suo significato. Il significato si dà nel linguaggio attraverso quello che Frege chiama “il senso”. Il senso è modo di darsi di un significato nel linguaggio. Esistono più modi di dire di una stessa cosa, ovvero, uno stesso oggetto, uno stesso significato, si danno nel linguaggio in modi diversi. In ciò, secondo Frege, risiede una delle ragioni delle ambiguità linguistiche dei linguaggi naturali, motivo per il quale tale tipo di ambiguità non dovrebbe potersi dare in un linguaggio perfetto.

Il senso, che è l’espressione linguistica compiuta, è composto a partire da segni semplici che sono i sostituti linguistici dell’oggetto definito. I termini semplici sono i nomi propri, con i quali Frege intende sia i nomi propri, sia le descrizioni definite. I segni, combinati tra loro opportunamente, danno origine ad ogni tipo di enunciato.

Come si vede, il linguaggio è composto da tre ordini diversi: la sintassi, la semantica e la pragmatica. Frege non distingue il linguaggio in questo modo, ma si può usare tale terminologia per capire: la sintassi è il modo attraverso cui il linguaggio si combina, le regole formali che regolano l’uso del linguaggio. La semantica è lo studio delle parole nel linguaggio, studio che, dunque, suppone la sintassi. In fine, la pragmatica è lo studio del linguaggio nell’attività comunicativa, per esempio nella conversazione.

Il linguaggio vero e proprio per Frege è composto da segni, su un lato materiale, giacché essi sono il costituente stesso del linguaggio, e dal senso che è il risultato della combinazione dei segni. Ora, nel linguaggio naturale, si danno più segni per uno stesso senso e più sensi per uno stesso significato, motivo per il quale si pongono molte ambiguità.

Ad ogni modo, ciò che ora ci interessa capire, è quando il linguaggio abbia un significato e quando no. Il significato di un’espressione è data dal suo inerire ad una certa cosa, ovvero dalla sua possibilità di denotare qualcosa di realmente esistente. Tale possibilità è la sola che possa garantire un certo significato al linguaggio. L’operazione di Frege è semplice ma, contemporaneamente non ovvia: il linguaggio ha un valore se e solo se ci dà una qualche informazione delle cose del mondo.

Un enunciato, dunque, espresso in un certo senso compiuto, deve implicare un certo significato, altrimenti, semplicemente, non ha valore. Alla domanda: “cosa significa questa espressione?” Cerchiamo una risposta alla domanda: “Questo enunciato è vero o falso?” Per tale ragione Frege ritiene prioritario impostare il problema intorno al significato giacché questo è l’indicatore di verità dell’enunciato.

A questo punto abbiamo chiarito il punto a cui bisogna arrivare e cosa sia il linguaggio in generale: esso è una somma di termini che, combinati tra loro, danno origine ad un senso, che altro è che il modo di darsi di un certo significato. Un enunciato è vero se significa qualcosa, è falso se non significa nulla. In tale analisi vanno ricordate due cose: prima di tutto che esistono enunciati ben formati, ovvero composti correttamente a partire dalle regole del linguaggio, ma privi di significato: “l’attuale re d’Italia” è falso perché non esiste attualmente un re d’Italia ma è un enunciato ben formato giacché le parole rispettano la sintassi. In secondo luogo, nella designazione del significato non c’è nulla di arbitrario o soggettivo, in altre parole, quando qualcuno si riferisce ad una cosa e quella cosa esiste realmente, ciò che stiamo dicendo è del tutto a prescindere dall’esistenza in noi di una certa rappresentazione della cosa stessa: “la pipa è vicino a me” con il nome proprio “la pipa”, sto designando la mia pipa e non un’altra pipa, e non mi sto nemmeno riferendo ad una qualche mia “percezione singolare” di quell’oggetto, ma all’oggetto vero e proprio. Ed in effetti, nell’enunciato “la pipa è vicino a me” non sto indicando alcuna percezione, perché la vicinanza della pipa è perfettamente misurabile, ovvero è determinabile a partire da diversi eventi fisici definibili a priori ( unità di misura che altro sono che fatti ).

In ogni caso, Frege discute anche le questioni degli scettici e degli idealisti, che ritengono assurda l’idea di un’esistenza oggettiva in sé delle cose. Egli fa notare che, in ogni caso, quando usiamo il linguaggio nella sua accezione significativa, il fatto che denotiamo certe cose implica che anche gli scettici e gli idealisti condividano tale impostazione, a prescindere che poi tali oggetti siano concepiti a partire dalla nostra sensibilità o meno: deve esistere, insomma, un mondo degli oggetti.

A questo punto vediamo il linguaggio più da vicino. Esso è formato da termini semplici, che sono i nomi propri e le descrizioni definite. Le descrizioni definite sono, per Frege, delle esplicitazioni dei nomi propri, di modo che le descrizioni definite sono sostituibili ai nomi quando questi denotano la stessa cosa della descrizione definita: “la pipa” o “l’oggetto di legno con bocchino e cannello per il tabacco” sono descrizioni equivalenti quando indicano la stessa cosa. Ogni nome, come s’è detto, descrizione propria o nome proprio, per avere un significato deve indicare qualcosa di realmente esistente e non semplicemente qualcosa che esiste vagamente o può esistere: un’espressione del tipo “una pipa rotta” non è di per sé una descrizione avente un qualche significato giacché essa non indica nessuna cosa in particolare.

Ogni termine, dunque, deve avere un significato e gli enunciati complessi devono a loro volta avere un certo significato. A questo punto è utile indicare alcuni principi generali che il linguaggio deve seguire per essere vero: 1) il principio di composizionalità, 2) principio di sostituibilità, 3) principio di completezza e 4) il principio di esauribilità.

Il principio di composizionalità esprime uno dei principi cardini della filosofia del linguaggio fregeana, principio che è stato accolto da gran parte del pensiero successivo. Esso sostiene che un enunciato vero si ottiene dalla sua composizione da parti semplici vere, ovvero da nomi propri veri. Si faccia caso che “il vero” e “il falso” per Frege sono oggetti nel vero senso della parola: se un enunciato esprime una cosa vera, allora esso indica qualcosa di realmente esistente, una certa relazione di oggetti, di cose. Dunque, qualsiasi enunciato, se scomposto, ha una delle sue parti priva di significato, ovvero non denota alcuna cosa, risulterà falso: per tale ragione egli pensa al “esser-vero” o “esser-falso” come a due cose: se un enunciato è vero allora indica una cosa, altrimenti no. Ritornando al principio, esso vale anche all’incontrario: se un enunciato scomposto ha un vuoto, non ha significato allora tutto l’enunciato risulta privo di significato. Il principio di composizionalità è un principio universale che si può esprimere in tanti modi: in una dimostrazione, la verità espressa al principio deve permanere fino alla fine della dimostrazione e trapassare nelle sue conclusioni, altrimenti la dimostrazione è palesemente contraddittoria.

Il principio di sostituibilità è sostiene che un termine singolare può essere sostituito da un altro termine singolare avente lo stesso significato. Ancora una volta, uno “stesso significato” significa che le due espressioni diverse, i due sensi diversi per dirla con Frege, denotano uno stesso oggetto. Per tale ragione, Frege sostiene che le due espressioni, indicando una stessa cosa in modo diverso, hanno lo stesso significato. Tuttavia, in quanto hanno sensi diversi, le cose sostituite possono arricchire la nostra informazione sul mondo: per esempio, dire “il tessuto da me indossato è una maglietta” può essere più importante, nel senso che mi dice qualcosa a differenza della pura identità “la mia maglietta è la mia maglietta”.

Il principio di completezza formale non è esplicitamente chiamato così da nessuno ma possiamo esprimerlo noi per capirci: un enunciato è espresso in un senso definito dalle regole sintattiche del linguaggio. In questo senso, un enunciato è ben formato se e solo se le sue parti composte ( principio di composizionalità ) sono composte correttamente ( principio di completezza formale ). In questo senso, si vede in che modo il linguaggio risponda comunque a delle regole interne, ma esse non bastano a garantire che gli enunciati posti dall’uso corretto del linguaggio siano anche veri. E ciò è quel che Frege ricorda quando dice che di uno stesso senso esistono più segni e di uno stesso significato esistono più sensi: la combinazione dei sensi o dei segni non sempre porta alla denotazione reale di qualcosa.

Il principio di esaustività è enuncia l’idea alla base della possibile comprensione del linguaggio stesso: un enunciato è compreso se e solo se di esso sono compresi tutti i sensi possibili e, conseguentemente, tutti i suoi significati. Questo principio esprime l’idea che in Frege è presente chiaramente ma che egli non definisce in modo unico: “Se bevo la birra allora mi si gonfia la pancia” è un enunciato formato da diversi sensi che concorrono alla formazione di un solo pensiero ( parola che in Frege non è chiara e che, probabilmente, intende l’unità dei sensi di un’espressione complessa ). Per comprendere questo enunciato bisogna scioglierne tutti i sensi:

a)                 bevo la birra.

b)                La birra fa gonfiare la pancia.

c)                 Ciò che rilascia gas fa gonfiare il recipiente in cui è immersa.

Solo dalla composizione di questi sensi, che sono tutti contenuti e implicati nella frase, si può risalire alla comprensione dell’enunciato.

A questo punto rimane da vedere la formazione stessa degli enunciati a partire dalle parti più semplici. Un enunciato è un predicato completato dal termine singolare. Un predicato è una funzione definita da un predicato costante e da una variabile associata tale per cui essa ha un significato se e solo se la variabile ricade completamente nell’estensione del predicato. In senso formale, un predicato è una funzione F(x) tale che essa è vera se e solo se x appartiene a F e falsa in tutti gli altri sensi.

Un predicato di per sé si presenta con la forma F(x) che è chiaramente incompleta per avere un significato, motivo per il quale, il predicato non è un oggetto in quanto non denota alcuna cosa esistente, di per sé. Ma se combinata opportunamente con un termina singolare, e ciò significa che il termine singolare rientra nell’estensione del predicato, allora il predicato acquista un senso e, dunque, diventa un enunciato; a questo punto ci si può domandare del valore di verità dell’enunciato stesso e rispondere: se esso avrà un significato allora sarà vero, altrimenti no.

Un altro modo per esprimere la predicazione è, sempre partendo da un ragionamento di tipo matematico, quella della definizione di due insiemi “A” e “B” tale che “B” è argomento di A ( nella notazione funzionale l’insieme “B” è rappresentato dalla variabile “x” ): se ogni b appartiene ad A allora la predicazione è vera. In questo senso, quando ci chiediamo se un predicato è soddisfatto da un certo termine singolare non ci stiamo chiedendo altro se il termine singolare rientra nella gamma di significati sostenibili dal predicato.

Per fare degli esempi chiari: “x sa volare” è un predicato. Tale predicato, come è evidente, non indica alcun che di realmente esistente, e, per ciò, Frege sostiene che il predicato sia un concetto e non un oggetto ( quindi non implica alcun valore di verità ). Se al predicato viene saturato con un certo termine singolare allora potrà essere o vero o falso ( o né vero né falso quando il termine singolare sia una descrizione impropria ovvero sia una descrizione che non rimanda chiaramente a nessun oggetto esistente ): per esempio, se alla “x” sostituiamo la parola “il maiale del porcile di mio zio” chiaramente otteniamo un risultato falso, giacché, almeno il maiale del porcile di mio zio non sa volare. Ma se alla “x” sostituiamo il termine singolare “Superman” ecco che l’enunciato acquista un significato. O no? In effetti, Superman è un personaggio dei fumetti, non realmente esistente, dunque, anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un enunciato falso: i fumetti sono di carta, dunque un personaggio fatto di carta, fino a prova contraria, non sa volare ( può volare se lanciato ma un pezzo di carta non “sa” volare ). Se sostituiamo alla “x” il valore “il mio canarino” allora, chiaramente, il predicato acquisterà un certo significato compiuto.

A questo punto rimane da chiarire il significato di enunciati del tipo: “tutti gli uomini sono mortali”. In questo caso, si può procedere sempre con il principio di composizionalità, tale per cui l’enunciato risulta vero se e solo se risultano veri tutti i suoi componenti. “Tutti gli uomini” è un termine singolare o una descrizione definita? Secondo Frege, tale termine non è né un nome proprio né una descrizione definita ma è l’espressione di un’altra funzione. In effetti, “tutti gli uomini” è l’enunciazione di una certa relazione tra i termini di un certo insieme e un altro insieme ( che è poi il resto dell’enunciato ). Tale fatto, per nulla evidente, è mostrato chiaramente dal fatto che “tutti gli uomini” non indica nulla di reale, è un termine incompiuto diverso da un termine del tipo “la pipa” ( che è un oggetto concreto ) o “il mio cane”. “Tutti gli uomini” o “qualche uomo” o “esiste un uomo” non indicano ancora nulla ed, in effetti, non indicheranno alcuna cosa se non viene esplicitato il resto. Frege tratta tali espressioni, appunto, come funzioni e ciò perché esse sono espressioni, appunto, che ammettono una certa “costante” che però è definita solo in relazione ad una certa variabile. L’enunciato è così scisso secondo due funzioni: il soggetto della frase “tutti gli uomini” è una funzione della funzione “x sono mortali”. Motivo per il quale per rispondere alla domanda “tutti gli uomini sono mortali” è vera o falsa, ovvero, chiedersi il suo valore di verità, bisogna prima di tutto saturare la funzione di primo grado “x sono mortali” quindi saturare la funzione di secondo grado “tutti gli uomini”. “x sono mortali” è saturata per tutti gli “x” che ineriscono alla qualità “mortalità”: tutto ciò che è mortale soddisfa la prima funzione. A questo punto dobbiamo passare alla seconda funzione: “tutti gli uomini” è soddisfa la “x” di sono mortali dunque l’enunciato è vero. In effetti, se l’espressione “qualche uomo è mortale” è ambigua perché sembra ammettere che esiste qualche uomo che non lo sia, tuttavia, è anche vera perché nell’insieme “qualche uomo” tutti i termini dell’insieme soddisfano il predicato “essere mortale”.

Facciamo un altro esempio: “tutti i gatti di mio fratello sono grigi”. Esistono due funzioni, una è quella di primo grado, una è quella di secondo. La prima è definita come G(x) dove la “g” sta per grigio e la “x” sta per qualunque cosa possa essere grigia. La seconda funzione è “tutti i gatti di mio fratello” essa ha la stessa estensione della “x” di G(x) dunque la funzione TGMF(G(x)) è vera.

A questo punto possiamo anche cercare di dare una formulazione in termini logici dei vari assunti. “Tutti i gatti di mio fratello sono grigi” è equivalente alla scritta:  x esser-grigio. Ogni gatto di mio fratello x essere-grigio (x). () gatto di mio fratello x essere grigio (x).

Riferimenti.

Filosofia del Linguaggio. A cura di Paolo Casalegno. Raffaello Cortina Editore. Milano. 2003.

Il senso.

« Se dunque il segno “a” si distinguesse dal segno “b” solo come oggetto ( nel caso specifico per la forma ), e non come segno, ossia per il modo in cui designa qualcosa, allora il valore conoscitivo a = a sarebbe sostanzialmente uguale a quello di a = b posto che quest’ultimo enunciato sia vero. Una differenza può sussistere solo se alla diversità di segno corrisponde una diversità nel modo di darsi di ciò che è designato. Siano a, b, c le rette che connettono i vertici di un triangolo con il punto mediano dei lati opposti. Il punto di intersezione di a e b coincide con il punto di intersezione di b e c. Abbiamo qui modi diversi di designare lo stesso punto e questi nomi ( ossia: “il punto d’intersezione di a e b” e “il punto d’intersezione di b e c” ) accennano al tempo stesso al modo in cui esso ci è dato; pertanto nell’enunciato è racchiusa una conoscenza effettiva ».

P. 18.

Il segno.

« Da quanto detto sopra si evince che con “segno” e “nome” intendo una qualsiasi espressione in grado di fare le veci di un nome proprio, il cui significato sia un oggetto determinato ».

P. 19.

Il nome.

« L’espressione che designa un oggetto individuale può constare anche di più parole e di segni d’altro genere: per brevità la chiamerò “nome proprio” ».

P. 19.

La rappresentazione.

« Da significato e dal senso va distinta la rappresentazione a essi connessa. Quando il significato di un segno è un oggetto percepibile dai sensi, la rappresentazione che ne ritengo è un’immagine interna, che è il risultato di atti, sia interiori che esteriori, da me compiuti. L’immagine interna è spesso intrisa di sentimenti e la nitidezza delle singole parti è disuguale e fluttuante. Neppure per una stessa persona la stessa rappresentazione è sempre associata allo stesso senso. La rappresentazione è soggettiva: quella dell’uno è diversa da quella dell’altro ».

Pp. 20-21.

Differenza tra significato e rappresentazione e senso.

« Il significato di un nome proprio è l’oggetto stesso che con esso designamo; la rappresentazione che ne abbiamo è soggettiva. IN mezzo sta il senso, che naturalmente non è più soggettivo come la rappresentazione ma non è neppure l’oggetto stesso ».

P. 21.

Enunciato contiene un pensiero e significato di pensiero.

« Domandiamoci ora come stanno le cose con il senso e il significato di un enunciato assertorio nel suo complesso. Un tale enunciato contiene un pensiero. Questo pensiero è da intendersi come il senso o come il significato dell’enunciato? (…) Il pensiero non può dunque essere il significato dell’enunciato, ma dobbiamo piuttosto concepirlo come il suo senso ».

P. 23.

Se il senso è sufficiente all’esistenza di un enunciato, allora perché ci interessa il suo significato.

« Siamo così condotti a riconoscere il valore di verità dell’enunciato quale suo significato. Per valore di verità di un enunciato intendo la circostanza che sia vero o falso. Non vi sono altri valori di verità ».

P. 25.

Significato e valore di verità e principio di sostituibilità.

« Se è giusta la nostra congettura che il significato dell’enunciato è il suo valore di verità, quest’ultimo deve restare invariato se una parte dell’enunciato viene sostituita con un’espressione che ha lo stesso significato ma senso diverso ».

P. 26.

Conseguenza del valore di verità.

« Se dunque il valore di verità di un enunciato è il suo significato, allora tutti gli enunciati veri avranno lo stesso significato e lo stesso dicasi per tutti quelli falsi ».

P. 26.

Il principio di composizionalità vale anche per enunciati formati da altri enunciati.

« Se è giusto il nostro punto di vista, il valore di verità di un enunciato che ne contiene un altro come parte deve restare invariato se al posto dell’enunciato subordinato sostituiamo un enunciato che ha il medesimo valore di verità ».

P. 27.

I pensieri nelle espressioni di credenza.

« Che nei casi esaminati il significato dell’enunciato subordinato sia proprio un pensiero lo si vede anche dal fatto che per la verità dell’intero è indifferente se quel pensiero sia vero o falso. Si confrontino, ad esempio, i due enunciati: “Copernico credeva che le orbite dei pianeti fossero cerchi” e “Copernico credeva che il moto apparente del Sole fosse dovuto al moto reale della terra”. E’ possibile qui sostituire una subordinata con l’altra senza modificare la verità del tutto ».

P. 28.

Possibili fraintendimenti linguistici.

« Ritengo altrettanto opportuno mettere in guardia dai nomi propri apparenti, che sono privi di significato ».

P. 32.

La proposizione.

« Le espressioni concettuali possono dunque essere formate indicandone le note caratteristiche mediante enunciati attributivi, come, nel nostro esempio, dall’enunciato “che è minore di 0”. E’ istruttivo osservare che tale enunciato attributivo, al pari dell’enunciato nominale (…), non può né avere come senso un pensiero né come significato un valore di verità, ma ha senso solo in quanto parte di un pensiero e in alcuni casi può anche essere espresso con un singolo aggettivo ».

P. 32.

L’implicazione logica.

« E’ proprio attraverso questa indeterminatezza che il senso acquista quella generalità che ci si attende da una legge. Ed è proprio questa indeterminatezza che fa sì che l’antecedente da solo non esprima come senso un pensiero completo, ma solo insieme al conseguente, ed esprima invero un unico pensiero le cui parti componenti non sono più pensieri ».

P. 33.

Perché non sempre vale il principio di sostituibilità.

« 1. L’enunciato subordinato non ha come significato un valore di verità, in quanto esprime solo parte di un pensiero.

2. L’enunciato subordinato ha sì come significato un valore di verità, ma non si limita a esso, in quanto il suo senso racchiude oltre a un pensiero anche parte di un altro pensiero ».

P. 39.

Spunti di riflessione.

Il problema delle descrizioni: un problema logico?

La descrizione è di tre tipi: definita, indefinita e impropria. I tre tipi di descrizione denotano tre cose distinte, nel primo caso un oggetto, nel secondo caso un insieme e nel terzo caso un insieme vuoto ( un individuo che non esiste è un insieme vuoto ). Il problema della descrizione è il problema di stabilire cosa sia l’elemento atomico del linguaggio, ovvero cosa possa essere l’enunciato atomico minimale dotato di senso compiuto.

Un enunciato è formato da predicato e termine singolare, s’è visto, ma l’enunciato, per esistere, necessita tanto dei predicati quanto dei termini singolari. I termini singolari sono nomi e descrizioni definite, espressioni che denotano oggetti. Ma quale differenza c’è tra nomi e descrizioni definite? La differenza è che tra un nome proprio e l’oggetto denotato c’è perfetta aderenza, ovvero posto un nome, ammesso che abbia un significato, esso ha un solo oggetto referente senza dubbio. Una descrizione definita ha la stessa funzione logica del nome proprio ma esprime qualcosa di diverso dal nome proprio: il nome proprio sembra dire “esiste uno e un solo individuo ed è x”. La descrizione definita sembra invece essere meno vincolante rispetto al nome nella denotazione, ma essa esprime, in un certo senso, anche delle proprietà dell’oggetto e dovrebbero essere proprio quelle proprietà capaci di discriminare un oggetto tra gli altri di un certo contesto.

Una descrizione definita, in effetti, è del tutto impensabile senza un contesto “pragmatico” di riferimento altrimenti “il tavolo” è semplicemente “un tavolo”. Dunque, una descrizione definita è definita solo in quanto rimanda ad una serie di relazioni ad hoc, particolari e irripetibili ( giacché se fossero ripetibili allora con la stessa descrizione definita intenderemo cose diverse ).

In questa differenza d’uso sta la differenza tra nome proprio e descrizione definita: il nome proprio, in un certo senso, è un nome singolare assolutamente irripetibile, a prescindere dal contesto: un nome proprio infatti denota solo un oggetto e non più di uno e questo oggetto è pensato a prescindere dalle sue determinazioni contestuali.

Ma a questo punto sorge il problema: noi con le descrizioni definite e con i nomi cosa vogliamo effettivamente denotare? Dire “gli oggetti del mondo” è insufficiente: perché dovremmo voler usare dei termini assolutamente irripetibili per degli oggetti? In effetti, la necessità di usare nomi propri è assolutamente minoritaria rispetto alla necessità di usare descrizioni definite: i nomi propri, a ben vedere, sono poco ricorrenti nel linguaggio mentre sono molto più diffuse le descrizioni definite.

La ragione sta nel fatto che i nomi propri denotano solo un oggetto e tra due parlanti per comprendersi è necessario che quel nome proprio sia conosciuto da entrambi. Se uso un nome sconosciuto, non c’è modo di intendersi con un’altra persona a meno che non sia in grado di parafrasare quel nome proprio in un oggetto dotato di certe proprietà e inserito in un certo contesto determinato: se dico “Wolfgang è biondo” per chi legge non ha semplicemente alcun significato, anche perché di “Wolfgang” ne esistono molti. Se invece dico “Wolfgang è una persona della mia famiglia ed intrattiene con me la relazione di fratello” sto definendo sia che cosa è “Wolfgang” sia in che contesto esso esista: per definire un individuo non basta dire cosa è, devo anche definirlo in un certo dominio, in questo caso, il dominio è l’insieme dei miei familiari e “Wolfgang” fa parte del dominio.

I nomi propri sono dei “designatori rigidi” nel senso che essi si ( dovrebbero ) attribuiscono ad un solo individuo, mentre le descrizioni definite si attribuiscono a più individui in generale, ma nel caso specifico soddisfano un solo individuo: è questa la critica di Russell, alla fine. Le descrizioni definite, per lui, non erano in grado di arrivare a definire l’oggetto come un nome proprio. Ma non potrebbe forse essere preferibile l’opposto?

La descrizione definita è il termine che usiamo per una qualsiasi definizione: “il triangolo è la spezzata chiusa che ha tre lati e tre angoli”. Noi possiamo definire i nomi propri, li possiamo usare solo perché essi sono effettivamente sostituibili alle descrizioni definite, nei casi in cui ciò è possibile. Ma un linguaggio senza nomi propri è pensabile ed è anche molto utile, mentre un linguaggio senza descrizioni definite è un linguaggio molto povero. Inoltre, il grande limite dei nomi è che essi non esplicitano alcuna proprietà particolare dell’oggetto che denotano a meno di voler ammettere che i nomi sono effettivamente dei casi particolari di descrizioni definite e, per ciò, un nome è un’abbreviazione di descrizione definita: “Beethoven” non dice assolutamente nulla di per sé in quanto potrebbe essere, per esempio, un cane, un musicista o il fratello del musicista che era un falegname e così via. Se invece dico “il mio compositore preferito” oppure “il più grande musicista dopo il 1791” sto dicendo molto di più di quello che direi se mi accontentassi di pronunciare il nome “Beethoven”: nel primo caso ho esplicitato che è un compositore e che è il mio preferito, nel secondo caso che è un grande musicista e che il migliore dopo il 1791. Insomma, le descrizioni definite sono espressioni capaci di denotare molto bene gli oggetti perché ci danno subito un pulviscolo di informazioni preziose sull’oggetto anche qualora noi non conoscessimo per nulla quell’oggetto: se non so chi è “Beethoven” ma so che cos’è un compositore ( e ciò è molto più probabile perché esistono moltissimi compositori che non sono Beethoven ) è molto più utile parlare in termini di descrizioni definite piuttosto che in termini di nomi propri.

Insomma, le descrizioni definite effettivamente possono applicarsi a molti oggetti, anche se di volta in volta, specificando o presumendo un contesto, si applicano ad un solo oggetto. L’applicazione delle descrizioni definite è pressoché infinita e universale ed è presumibile che al principio del linguaggio non ci fossero nomi propri ma solo descrizioni definite in quanto è molto più utile, quando si ha un linguaggio povero, usare più cose con un solo nome piuttosto che un solo nome per un solo oggetto.

In fine, le descrizioni definite hanno un uso molto elastico e il linguaggio ama l’elasticità giacché esso deve essere comprensibile e, contemporaneamente, deve poter comunicare informazioni: con un nome, a meno di conoscerne già il significato, si indica ciò che si indica con una descrizione definita, con la differenza che a un nome corrisponde un solo oggetto. Il nome è l’abbreviazione di una descrizione definita dove, se si volesse riscrivere propriamente il nome nei termini del nome allora si dovrebbe enumerare tutte le singole proprietà dell’oggetto: a voler riscrivere “Beethoven” nei termini di una descrizione definita si passerebbe il tempo: “Il musicista nato a Bonn nel 1770…” il nome dunque è usato solo quando a) entrambe le persone conoscono l’uso del nome, b) quando l’uso del nome è l’insieme delle descrizioni definite dell’oggetto denotato, in tutti gli altri casi si usano descrizioni definite.

In conclusione, nomi e descrizioni definite sono termini singolari in sensi diversi e hanno usi diversi: i nomi sono casi particolari di abbreviazioni di più descrizioni definite, mentre le descrizioni definite denotano degli oggetti di un certo contesto, ma possono essere usate per più contesti.

Secondo me è tutta una questione linguistica…

Era una questione personale. Tutto negli scacchi diventa una questione personale, il fatto e il non fatto, il detto a parole e soprattutto il non detto in alcun modo. In fin dei conti la madre di tutte le superstizioni è l’immaginazione, la volontà recondita di trovare cause sbagliate per eventi veri. Uno sguardo sbagliato si tramuta spesso in infinite interpretazioni: gli scacchisti sono sempre in bilico tra la verità e l’assurdo.

Nella casa del grande maestro lettone, Aron Nimzowitsch, si disputava una partita importante per nessuno tranne che per lui e per il geniale Capablanca, suo sfidante. Era ormai patta quando Aron lascia un pezzo in presa e così finisce la partita: una beffa. L’ironia alla dea invisibile degli scacchi non manca e si diverte spesso a vedere saltare i nervi. Ma, nonostante la provocazione divina, Nimzowitsch sembra essere tranquillo: fallace apparenza.

Aron: “Eh, ho lasciato quel pezzo in presa…”

Capa: “…e ho vinto la partita!”

Aron: “Si, ma la mia posizione era superiore…”

Capa: “Ma che ci sia mai stato uno scacchista che senza aria di vittimismo ti dica –ho sbagliato-, –la mia posizione era persa-, -bravo, hai giocato meglio-. Tutti che trovano ragioni per dire che si era in vantaggio però… come a dire: è colpa del fato…”

Aron: “Senti, alla fine tutti trovano ragioni per stare male e giustificano il loro odio e il loro malessere in molti modi, talvolta trovano spiegazioni geniali, belle, straordinarie, non rendendosi conto che non fanno altro che crogiolarsi nel proprio dolore: perché non dovrei trovare una ragione per sentirmi meglio?”

Capa: “Perché noi siamo scacchisti e quindi, in un modo o nell’altro, cerchiamo sempre la verità. Ed è solo la verità che trova ragioni per stare bene e non stare male. False giustificazioni intatti problemi, intatti dolori…”

Aron: “Forse hai ragione, scusa. Mi sono fatto prendere dalla tensione.”

Capa: “Figurati…”

Aron: “Se rivediamo la partita?”

Capa: “Non l’ho scritta, ma me la ricordo. Comunque, se ti interessa la butto giù se mi dai un pezzo di carta.”

Aron glielo porge e Capablanca si mette a scrivere con la rapidità di chi si trova a casa propria. Aron vede tra le righe una notazione che non aveva mai visto: segni strani, del tutto particolari.

Aron: “Ma come stai scrivendo? Non avevo mai visto quei segni…”

Capa: “Questa è la notazione inglese. Ci sono anche altre annotazioni, come quella che usi tu, poi c’è quella descrittiva e altre. Si, sono diverse.”

Aron: “Non lo sapevo. Certo che è curioso. Alla fine usiamo linguaggi diversi per esprimere una sola cosa e…”

Capa: “Pardon. Usiamo due simbologie diverse, non due linguaggi diversi. Infatti entrambi arriviamo a denotare le stesse mosse, ma attraverso una serie di simboli equivalenti ma diversi”.

Aron: “Intendi dire che alla fine, anche se parliamo due lingue diverse in un certo senso esprimiamo le stesse cose?”

Capa: “Si, ma con cautela. Il problema delle mosse è facilmente risolvibile, esso si può esprimere benissimo in modi equivalenti in diverse lingue naturali e ci si capisce lo stesso. In fondo la bellezza degli scacchi deriva proprio da questo: in tutte le parti del mondo ci capiamo attraverso quel gioco. Possiamo andare in Cina e giocare a scacchi, andare in India e giocare a scacchi! Gens una sumus, non lo scordare.”

Aron: “Un bel motto. Peccato che gli scacchisti non siano così uniti tra loro, il gioco è individualista ma universale. Effettivamente, in un certo senso, siamo tutti uniti e tutti in lotta. Come nella vita.”

Capa: “Affascinante. Gli scacchi li ho sempre preferiti alla vita proprio perché, in fin dei conti, fanno vedere senza inganni ciò che siamo, di fronte a noi stessi e di fronte agli altri. Forse è per questo che è tanto difficile giocare, perché vedere se stessi nell’errore, nella rabbia e in tutte quelle emozioni che la ragione ci insegna di rifiutare è cosa difficile, faticosa e non per tutti.”

Aron: “Però quante cose ti insegna e quanto ti soddisfa…”

Capa: “Sai, io ormai non gioco nemmeno più per provare emozioni. Sembra strano, ma non gioco nemmeno per vincere.”

Aron: “Eppure vinci, maledetto!”

Aron strizza l’occhio a Capablanca che sorride.

Aron: “E allora perché giochi?”

Capa: “Perché è il mio modo per arrivare alla verità.”

Aron: “Questione difficile. Ma cosa è vero e cosa è falso?”

Capa: “Devo dire che la questione della verità, a mio parere, vede coinvolti due sfere diverse, due regni. La verità, da un lato attiene al linguaggio, perché solo di frasi si può dire che siano vere o false. Ma per sapere se una frase è vera o falsa bisogna aver un senso molto profondo della realtà.”

Aron: “Altrimenti si rischia di intrecciare le questioni…”

Capa: “… e di scambiare ciò che esiste per ciò che non esiste. In effetti, secondo me il genere umano compie un sacco di errori, nella vita quotidiana, perché non ha una conoscenza chiara delle cose. Pensa se ogni volta che un uomo pensa, pensa a cose che esistono davvero invece di pensare a cose che non esistono! Mi ricordo che da bambino mi dicevano che ero un prodigio. In realtà il prodigio era solo il frutto del fatto che sapevo vedere ciò che era una fantasticheria e quella che non lo era.”

Aron: “Son perfettamente d’accordo con te. E tu hai avuto questo dono dalla tua stessa natura. Vedi il vero quando gli altri devono lottare con tutto se stessi per distinguere la fantasia dalla realtà.”

Capa: “Non sarei campione del mondo! Abbiamo assodato che la realtà è il punto di partenza della nostra conoscenza. Per realtà intendo le mosse che realmente esistono e le considero sotto un punto di vista prettamente esistenziale: ci sono, sono quelle e di quelle dobbiamo discutere.”

Aron: “Si, per esempio, la mia mossa di alfiere che ha dato la possibilità alla torre di farmi l’infilata sull’ultima traversa”.

Capa: “Esatto. Ma dobbiamo procedere con calma e precisione. Potremmo esprimere la tua affermazione in questo modo: -l’alfiere in f1 è una mossa sbagliata-.”

Aron: “Certo. In questo modo mettiamo in evidenza che esiste un pezzo, in questo caso l’alfiere, che è posto in f1 e che tale mossa è sbagliata.”

Capa: “In una frase abbiamo quindi due componenti: una parola che esprime un pezzo, una casella o una cosa in generale, e un sintagma che esprime una proprietà di quella parola.”

Aron: “Si, precisamente. Abbiamo un termine che indica una e una sola cosa: l’alfiere in f1 non può che essere l’alfiere delle case bianche e in quella casella in quel determinato momento ci può essere solo l’alfiere. Ma poi c’è anche un verbo e un complemento che associa ad una certa cosa una sua proprietà.”

Capa: “Potremmo anche chiamare –termine singolare- quel termine che ci indica una e una sola mossa, uno e un solo pezzo e l’altro predicato. Ma…”

Aron: “Esistono molti modi di parlare di cose singolari, per esempio posso dire: una mossa è giusta, senza dire –la- mossa e…”

Capa: “Secondo me ti stai sbagliando: -una mossa- non ha lo stesso significato di –la mossa-. Guarda, ti faccio subito l’esempio della nostra partita: se ti dico –la mossa d’alfiere in f1 è sbagliata- è, in questo caso, vera. Ma se dico –una mossa di alfiere in f1 è sbagliata- tu subito mi fermeresti…”

Aron: “Effettivamente con –una mossa d’alfiere in f1 è sbagliata- non sto dicendo la stessa cosa. Non solo, ma nel caso specifico della nostra partita, sarebbe anche sbagliata perché in precedenza avevo messo l’alfiere in f1 e in quel caso era una mossa molto forte…”

Capa: “…mi pare alla quindicesima mossa. Precisamente. Dunque non possiamo parlare di termini singolari quando una parola è introdotta da un articolo indeterminativo: essa introduce più cose e non solo una. –Una mossa d’alfiere in f1 è sbagliata- non significa –quella e solo quella mossa è sbagliata- ma che esiste un insieme di mosse d’alfiere tra cui ne esiste una che è effettivamente sbagliata. In un caso introduco una mossa specifica, nell’altro caso introduco un insieme di mosse. Guarda, in pratica, in questa ragione sta il fatto che se ci son due cavalli che possono raggiungere la stessa posizione o due torri sulla stessa traversa bisogna specificare quale dei due pezzi vada a finire nella casa: senza specificazione possiamo dire che –una torre si sposta- è vera ma è imprecisa rispetto a –la torre in f1 si sposta-.”

Aron: “Ho capito. E ti propongo anche questo mio pensiero: che non sia lecito considerare allo stesso modo di –la mossa d’alfiere in f1- una cosa di questo genere –il re spostato ad elle- cioè non si può considerare un’espressione corretta quella che contenga una descrizione sbagliata, di una cosa che non esiste: non esiste nessun re che muove ad elle, lo sanno tutti!”

Capa: “Questo mi pare sacrosanto. Se vogliamo esprimerci con cognizione di causa, non possiamo certo ammettere nel nostro linguaggio termini privi di significato, termini che non rimandano a nulla di realmente esistente. Correremmo il rischio di parlare di mosse che non esistono…”

Aron: “Però se dico –credo che il re si muova ad elle…-“

Capa: “Aspetta, cerchiamo di risolvere un problema per volta: non si possono chiudere più porte con la stessa mano nello stesso tempo. Affrontiamo il problema di frasi molto semplici, quelle che ci consentono di conoscere la realtà. Siamo arrivati a definire abbastanza compiutamente i termini che possiamo unire ai predicati. Ma non abbiamo detto ancora nulla di questi. Bisogna considerarli, secondo me, come delle funzioni.”

Aron: “Ascolta, ti va una tazza di te e se ci spostiamo di fronte al caminetto? Mi pare che stia rinfrescando e mettere qualcosa di caldo e dolce non può che farci venire delle ottime idee!”

Capa: “Incredibile: non hai ancora del te caldo nello stomaco e già hai avuto un’ottima idea!”

Si spostano nel salotto e nel mentre la vecchia domestica di Aron porta il te.

Aron: “Grazie, cara. Stavi dicendo dei predicati…”

Capa: “A, già… Si, dico che secondo me vanno considerati come funzioni.”

Aron: “Non ti seguo.”

Capa: “Una funzione è un’operazione di tipo matematico, ma posso anche spiegartela in termini più semplici: prendi un insieme di mosse e un insieme di pezzi. La funzione è l’associazione di una mossa all’insieme dei pezzi che rendono possibile quella mossa: per esempio, prendi l’inizio della partita. Se ti dico –muovo in f3- tu non sai se è il pedone o il cavallo ad essere mosso: questo perché la funzione espressa da –muovo in f3- è incompleta, manca del termine singolare che potremmo chiamare argomento.”

Aron: “Cioè manca il termine del secondo insieme da associare a quello del primo? In questo caso l’insieme delle mosse con quello dei pezzi…”

Capa: “Esatto. Infatti non tutti i pezzi si possono muovere all’inizio in f3, per esempio se dico –la donna si sposta in f3- tu mi dirai che questa mossa è impossibile!”

Aron: “Dunque una funzione è soddisfatta solo da quei termini che esprimono un pezzo che effettivamente soddisfa quella mossa: quindi se dico –la donna si sposta in f3- segue che la mossa non ha significato.”

Capa: “Proprio così! E mi è capitata una cosa, da spettatore, piuttosto curiosa: vicino a me giocava un non vedente e dovevano ogni volta comunicargli la mossa a voce. Ad un certo punto i due, il non vedente e l’altro, fanno confusione e uno aveva una posizione sulla scacchiera diversa dall’altro. Si scoprì che era successo: il cieco aveva messo un pezzo al posto di un altro nella stessa casa: e tutto tornava! O meglio, all’inizio sembrava tornare. Infatti aveva un significato preciso, per il cieco, la mossa che l’altro non aveva giocata, peccato poi che le cose non tornassero. Ma il punto è che la frase aveva un significato compiuto perché l’espressione della mossa era corretta: la funzione era soddisfacibile anche in quel modo.”

Aron: “E questi problemi sembra che esistano solo nel linguaggio, invece hanno applicazioni anche nella realtà!…”

Capa: “Questo accade spesso nelle cose che paiono astratte: ma la nostra conoscenza non inizia forse nell’esperienza? Cioè, possiamo anche dire che l’astrazione, se non è vaniloquio, inizia con la conoscenza empirica…”

Aron: “Però l’esempio del cieco è interessante: la frase supponiamo fosse –il cavallo si sposta in c6- mentre poi era il pedone a finire in c6. In che senso possiamo dire che la frase –il cavallo si sposta in c6- è sbagliata?”

Capa: “Ancora una volta bisogna attenersi alla realtà. La realtà era che il cieco aveva capito male e quindi la mossa di pedone era quella realmente giocata. Il fatto è che non c’è modo di sapere a priori se –il cavallo si sposta in c6- è vera o falsa se non si va a vedere se effettivamente c’è o non c’è quel cavallo proprio nella casa c6.”

Aron: “Insomma, bisogna sempre andare a vedere se quella frase ha significato oppure no, se c’è un oggetto reale che risponde alle proprietà poste dal predicato oppure no: se c’è e soddisfa il predicato, la frase è vera, se non soddisfa il predicato è falsa e se non c’è nessun oggetto non è né vera né falsa.”

Capa: “Esatto, dobbiamo verificare che il linguaggio sia aderente all’insieme delle cose realmente esistenti. Possiamo anche dire che una frase come –il cavallo si sposta  in c6- ha due livelli di esistenza, per così dire. Uno è il senso della frase, l’altro la sua denotazione, il suo significato: il senso sarebbe il modo di dare il significato e la denotazione o significato è l’oggetto realmente esistente a cui si riferisce la frase.”

Aron: “Il senso sarebbe l’insieme dei segni particolari che…”

Capa: “I segni non c’entrano con il senso… il senso di un termine singolare è il nome proprio o la descrizione definita, il modo attraverso cui diamo l’informazione. Mentre il senso di un predicato è un concetto, cioè una funzione, ma non ritorniamo sul già detto.”

Aron: “Se il senso non è un segno o un insieme di segni, allora è un che di soggettivo? E’ un mio modo di dare un significato?”

Capa: “Lo escludo. Quando vogliamo comunicare ci appigliamo a cose che sono indipendenti da noi e proprio per questo sono prive di ambiguità. Così i sensi non sono le cose realmente esistenti, ma dei pensieri, che, secondo me, vanno considerati come una realtà a se stante.”

Il sopraciglio destro di Aron si alza in posa inequivocabilmente ironica: era uno di quei casi in cui non c’era bisogno di parlare per manifestare il proprio parere.

Capa: “Questa è una mia proposta… Non dico che sia necessariamente così. Però dobbiamo poter pensare che il linguaggio sia fondamentalmente intersoggettivo e che funzioni allo stesso modo per tutti. D’altra parte, ci capiamo anche quando esprimiamo delle mosse che non ci sono ma che sarebbero possibili in linea di principio. Riprendendo l’esempio di prima, se dico –la donna si muove in f3- come sarebbe possibile che un altro mi capisca, e che mi dica che la frase è falsa, se non perché quella frase esprime un pensiero, indipendentemente dal fatto che essa non è vera?”

Aron: “Potremmo pensare alla stessa cosa: vedo che la donna è lì dov’è e non si può spostare. Quindi, secondo me, non ci può andare.”

Capa: “Però è una cosa tua, soggettiva, la percezione della donna e io, magari, ne ho un’altra: prendi il caso che sia allucinato e vedo la donna dove non c’è. La frase –la donna si muove in f3- è vera o falsa?”

Aron: “Capisco il problema… per ciò tu dici che con la rappresentazione soggettiva non c’entra nulla il linguaggio?”

Capa: “Non vedo, altrimenti, su cosa si possa fondare. Secondo me, è meglio pensare che il linguaggio sia concepibile a partire da realtà intersoggettive, oggettive.”

Aron: “Non mi hai convinto del tutto… comunque, non fa niente.”

Capa: “Abbiamo chiarito quando una frase è vera. Sarà falsa quando il predicato non è soddisfatto dal termine singolare: -la donna è in f3- è falsa perché al principio la donna è in d1.”

Aron: “Ho capito. Umm, e se ti dico questo: -la donna è in f3- ha lo stesso valore di verità di –l’alfiere campo scuro va in f1- cosa mi dici?”

Capa: “Il valore di verità è vero o falso. Le frasi sono entrambe false. Si, hai ragione. Hanno lo stesso valore di verità.”

Aron: “Vedi un po’ se ho avuto l’intuizione giusta: mettiamo il caso che indico lo stesso pezzo in due modi diversi: per esempio, -l’alfiere campo chiaro- e –quel pezzo che muove in diagonale nelle case bianche-: le due descrizioni denotano la stessa cosa. E ora formulo due frasi: -l’alfiere campo chiaro è in f1 all’inizio della partita- e –il pezzo che muove in diagonale nelle case bianche muore nelle case bianche-: se ora scambio il primo termine singolare con il secondo ottengo ancora due frasi vere, dotate di stesso valore di verità?”

Capa: “Intendi sostituire un termine singolare con un altro dotati di medesimo oggetto di riferimento: certo, si può fare. Per esempio se dico –il cavallo in c6 è forte- e –il pezzo spostato da b8 in c6 è forte- ottengo ancora una frase che ha lo stesso significato, cioè che indica la stessa mossa. Certo. Assolutamente. Propongo di chiamare questa operazione linguistica come –principio di sostituibilità-.”

Aron: “Questo può anche tornarci utile sotto un profilo conoscitivo: spesso accade che conosciamo cose diverse di una stessa cosa proprio perché veniamo a scoprire che due espressioni rimandano allo stesso oggetto. Interessante. Il meccanismo di unione di un predicato con un termine singolare invece?”.

Capa: “Considerato che sembrano comporsi assieme direi di chiamarlo di composizionalità.”

Aron: “Elementare, mio caro Capa! Potremmo riassumere il principio di composizionalità in questo modo: una frase qualunque si ottiene dall’unione delle sue parti semplici.”

Capa: “Ottimo.”

Aron: “Senti un’ultima cosa: ma se dico –io credo che il cavallo sia forte in c6- non posso sostituire la parola –il cavallo- con un’altra… o no?”

Capa: “Questo è un bel problema. Però è tardi, e devo proprio andare, domani abbiamo entrambi il torneo, ti sei dimenticato forse?”

Aron: “Sei tu che mi hai costretto a pensare…”

Capablanca ride di gusto.

Capa: “Già, però penso che pensare richieda molte energie che ho proprio esaurito… la discussione possiamo riprenderla in un altro momento, non ti pare?”

Aron: “… i termini singolari sono sia i nomi propri che le descrizioni con gli articoli determinativi, ma siamo proprio sicuri che funzionino allo stesso modo nel linguaggio?”

Capa: “Mio caro, ho fatto di te un filosofo e non uno scacchista! Ti prometto che domani vengo e ne riparliamo: magari diventi un buon scacchista e un pessimo filosofo. Notte!”

 

Come Frege avrebbe descritto una partita a scacchi.

Per capire cose complesse, non c’è niente di meglio che riportarle in condizioni privilegiate e semplificate nelle quali ci troviamo pienamente a nostro agio. Quando abbiamo familiarità con una situazione è più facile, solo per questioni psicologiche, approciarci proficuamente ad essa e studiarla, così mi accingo a raccontare come la teoria semantica fregeana, possa interessare anche gli scacchisti, o come gli scacchi possano essere pensati a partire dalla semantica fregeana.

Intanto, direi che è bene partire da alcune considerazioni di fondo sulle quali si basa poi tutta la semantica di Frege. Intanto, il problema è stabilire cosa vogliamo dire con un linguaggio e con che fine, spesso, usiamo il linguaggio naturale: non rispondiamo a questa domanda in generale, ma riportiamola agli scacchi.

Quando faccio una partita a scacchi generalmente non parlo, ma posso parlare di scacchi quando, per esempio, analizzo qualche posizione. Anzi, tale operazione d’analisi è fondamentale nel gioco in quanto mi fa conoscere molte possibilità che, altrimenti, mi sarebbero del tutto celate. Se leggo un libro di scacchi lo faccio molto più che per intrattenimento, proprio con lo scopo di conoscere una qualche cosa, fosse anche solo il nome di un impianto di apertura. Oppure, se mi è sconosciuto un trattamento tecnico di un finale, vado a vedere se il libro di Dvoretsky mi dice qualcosa di interessante e così via.

Quando vado a leggere quelle informazioni da un libro, invece che chiederle direttamente a qualcuno in grado di spiegarmele, sto usando il linguaggio per conoscere cose come stanno. L’uso del linguaggio, dunque, è essenzialmente informativo. Ed è la conoscenza del linguaggio informativo a darmi la possibilità di esprimere dubbi, domande e imperativi: “la mossa di cavallo o è giusta o è sbagliata, andiamo a vedere” implica la conoscenza delle parole “mossa di cavallo” dei due predicati “esser-giusto” e “esser-sbagliato” e l’uso dei connettivi logici “o”. Dunque, per capire la frase, devo avere un’idea chiara dello stato di cose che il dubbio implica: non è un caso che il significato di una frase del genere sarebbe solo intuito da chi di scacchi non ne capisce nulla. Anche per quel che riguarda le domande può valere la stessa affermazione “L’alfiere è in d5?” implica che si conosca il significato della frase “l’alfiere è in d5”. Lo stesso discorso vale per gli imperativi: provare per credere!

Per queste ragioni d’uso, soprattutto di presupposizione del linguaggio “conoscenza” rispetto a tutti gli altri possibili usi linguistici, Frege decide di fondare la sua analisi del linguaggio sugli enunciati dichiarativi. Gli enunciati dichiarativi sono quelli in generale che stabiliscono delle definizioni o, in generale, delle informazioni intorno al mondo: “l’alfiere delle case scure è alla sinistra del re bianco” o “il cavallo muove a elle” sono frasi dichiarative.

A questo punto, però, dobbiamo addentrarci nella questione. Intanto, gli enunciati sono delle frasi composte da più termini, anche nel caso più semplice: “l’alfiere muove in diagonale” ci sono due termini, fregeanamente parlando. Infatti “muove-in diagonale” per Frege ha un significato unico, da non pensarsi come scindibile: il predicato “muovere” in questo caso sarebbe insufficiente a descrivere la proprietà dell’alfiere, e ciò sembra una ragione forte per sostenere che i verbi, intesi come predicati, non sono sempre sufficienti a mostrare proprietà complesse delle cose, a meno di specificazioni ulteriori ( per esempio, dire “credo che la donna dovrebbe andare di fronte al re” è diverso che dire “io credo”: il verbo “credere” senza ulteriori specifiche, sarebbe privo di significato ).

Gli enunciati sono formati da termini singolari e predicati. I termini singolari sono o i nomi propri o le descrizioni definite. Negli scacchi ci troviamo perfettamente a nostro agio perché la maggior parte dei pezzi hanno tutti un loro nome proprio e così capita rare volte che ci siano ambiguità, cosa che capita spesso nel linguaggio naturale. Il proprio “re”, la propria “donna” sono intendibili come nomi propri. Diverso è, per esempio, il caso dei pedoni: i pedoni di una scacchiera sono otto e sono tutti uguali, motivo per il quale se non specifico le proprietà particolari dei pedoni ( per esempio la casa in cui stanno ) non sono in grado di indicare uno e un solo oggetto. Il nome proprio è quel termine singolare usato per indicare uno e un solo oggetto.

Per Frege, però, i termini singolari non sono solo i nomi propri ( come pensa Russell ) ma anche le descrizioni definite: una descrizione definita è un insieme di parole usate tutte insieme per indicare uno e un solo oggetto. Per rimanere nell’ambito dei pedoni, se dico “Luigi usa il pezzo incapace di indietreggiare” quando dico “il pezzo incapace di indietreggiare” sto intendendo proprio il pedone. Un’accortezza: quando dico “il pezzo così e così” non sto dicendo una cosa in generale, ma sto indicando solo un oggetto tra tutti: tale uso linguistico è evidenziato, in italiano, dall’uso dell’articolo determinativo “il” che indica un solo oggetto in particolare.

Nomi propri e descrizioni definite svolgono in grammatica la stessa funzione logica e, per Frege, sono perfettamente interscambiabili quando hanno lo stesso significato. Ma quale è il significato di una descrizione definita o di un nome proprio? Per Frege, il significato di un termine singolare, qualunque, è l’oggetto a cui si riferisce. Così il termine “il cavallo”, “il re”, “Luigi”, “Alessandro”, “l’alfiere nero” sono tutti termini che indicano uno e un solo oggetto.

Per formare un enunciato bisogna avere anche qualcos’altro, ovvero, ci servono dei predicati. In effetti, un linguaggio che tenesse conto esclusivamente dei termini singolari sarebbe un linguaggio parecchio misero: con esso, di una partita a scacchi, non potremmo che indicarne i pezzi. Ma come si fa a parlare di una partita con i soli nomi dei pezzi?!

I predicati sono degli enunciati privi di termine singolare: “x muove ad elle” è un predicato ed è un’espressione insatura. Perché l’espressione raggiunga la sua completezza, richiede la presenza di un termine singolare. Per Frege, i predicati sono delle funzioni definite dalla forma “F(x)” dove la “F” è il predicato, mentre la “x” è l’argomento del predicato. Il predicato, dunque, è definibile come una funzione proposizionale che ha come valori, valori di verità, che sono vero o falso e nessun altro valore.

Partiamo proprio dall’espressione “x muove ad elle”: se alla “x” sostituisco un nome errato allora anche l’enunciato sarà falso: “l’alfiere muove ad elle” è chiaramente falso. “La donna muove ad elle” è falso mentre “Il cavallo muove ad elle” è vero. Dunque, un enunciato è vero se il predicato è soddisfatto dal termine singolare che sostituisce la variabile.

Un enunciato ha un senso e un significato, o denotazione. Il senso di un enunciato è il modo di darsi di un certo significato. Ciò non va confuso con il segno di un enunciato. Il segno di un enunciato è l’insieme dei simboli che una lingua adopera per formulare frasi. In questo senso, i sensi non sono relativi alle lingue, bensì sono entità universali, intersoggettive.

Il significato di un’espressione è l’oggetto o le proprietà a cui si riferisce: il mondo dei significati è il mondo reale, l’insieme delle cose realmente esistenti.

A questo punto facciamo qualche esempio: un enunciato come questo “l’alfiere campo scuro diventa campo chiaro” esprime una proprietà falsa perché l’alfiere che nasce scuro muore scuro. Il significato dell’espressione è chiaramente falsa, ma la comprendiamo lo stesso. Come mai? Perché, per Frege, essa esprime un pensiero. Un pensiero è il senso di un enunciato ed il pensiero è un’entità extramentale, intersoggettiva: il pensiero non è un che di psicologico, ma è una realtà oggettiva, a suo modo, a se stante. Un po’ come pensare che una serie di mosse degli scacchi esiste non soltanto nel mondo reale ed oggettivo, ma anche, in un altro modo, in un mondo astratto, ma altrettanto intersoggettivo che l’altro.

“La donna mangia l’alfiere” esprime un pensiero, dunque, e il pensiero pone i criteri di verità per cui si può dire se l’enunciato sia vero o falso. Il pensiero dunque è il punto di partenza per sapere se una frase è vera o falsa: sarà vera se avrà corrispondenza nel mondo, sarà falsa altrimenti. “La donna mangia l’alfiere” sarà vera se la partita che ho giocato or ora prevede l’enunciato, sarà falsa altrimenti.

Si potrebbe dire che Frege avrebbe potuto sostenere che i pensieri sono effettivamente delle entità mentali, in verità, egli aveva una buona ragione per sostenere il contrario: secondo lui, la verità o la falsità degli enunciati e in generale il funzionamento del linguaggio, può essere vero o falso solo perché esso non è in alcun modo soggettivo. E’ come pensare che ci si può capire intorno agli scacchi non solo perché le partite oggettivamente giocate siano quelle e solo quelle, ma anche perché tutte le combinazioni possibili di mosse sono altrettanto oggettive che quelle giocate nella realtà. Ed in effetti, se pensiamo al valore che per noi possono avere le strisce di varianti di Friz non possiamo che farci venire qualche scrupolo prima di etichettare come stupidaggine l’idea di Frege ( che tra l’altro non ammette ulteriori implicazioni riguardo all’essere: tutto ciò che esiste e che è esprimibile dal linguaggio, per Frege, sono persone e cose e proprietà di cose e persone e basta ).

Ad ogni modo, per chiarire ulteriormente le cose, se ce ne fosse bisogno, Frege ricorda che il linguaggio non esprime in alcun modo rappresentazioni: la rappresentazione fregeana è proprio quello che generalmente intendiamo con “pensiero” e cioè una realtà interiore e soggettiva, uno stato mentale. Quando ci esprimiamo nel linguaggio non possiamo mai pretendere di dare a queste rappresentazioni un qualche significato perché ognuno c’ha le proprie: “d2-d4 è la mia mossa d’apertura col bianco” è un enunciato la cui verità prescinde dal fatto che possa avere un contenuto mentale personale o che voi possiate averne uno vostro. Per capire quella frase bisogna aver chiaro solo cosa significhi in termini reali la mossa “d2-d4”, nulla di più. Per tale ragione, chi non conoscesse il significato scacchistico dell’enunciato, cioè sarebbe incapace di riportarlo autonomamente sulla scacchiera, sarebbe anche incapace di comprendere il significato dell’espressione.

Per ogni senso esiste un solo significato, però per ogni significato esiste più di un senso: “1) e4, c5 è l’apertura siciliana” ha un significato ed è vero: l’oggetto che denota è realmente esistente. Ma la frase “l’apertura che gioco sempre col nero è l’apertura siciliana” denota sempre la stessa cosa, ovvero, sempre lo stesso pedone. Dunque, diciamo la stessa cosa in modi diversi: in altri termini, esistono più sensi per ogni significato. Su quest’idea, Frege sostiene che si può applicare a tali espressioni il principio di sostituibilità: alla frase “1) e4, c5 è l’apertura siciliana” può essere scambiata una parte dell’enunciato “l’apertura che gioco sempre col nero è l’apertura siciliana” ottenendo così un terzo enunciato che ha ancora lo stesso significato e lo  stesso valore di verità, sebbene un diverso senso: “1) e4, c5 è l’apertura che gioco sempre col nero”.

Per ogni senso, poi, esistono una pluralità di segni: e sono proprio i segni a fare la differenza tra le varie lingue e non si significati o i sensi. E questo è facile da capire facendo caso alle varie notazioni con cui si segnano le partite di scacchi: esiste quella standard, quella russa, quella descrittiva, quella inglese ma tutte riescono a denotare le mosse realmente giocate ( significate ) e anche quelle possibili in via di principio ( sensi ).

I principi che regolano il linguaggio dichiarativo, per Frege, sono soltanto due: il principio di composizionalità e il principio di sostituibilità. Del secondo s’è già parlato, veniamo dunque al primo. Il principio di composizionalità esprime il meccanismo di saturazione di un predicato con un termine singolare: il principio si applica tanto ai sensi che ai significati dei termini. Se i termini hanno un significato allora uniti insieme avranno un significato, altrimenti no. In questo senso da “x è una mossa da due punti esclamativi” e “la famosa mossa di cavallo di Nimzowitsch” si ottiene “La famosa mossa di cavallo di Nimzowitsch è una mossa da due punti esclamativi” è una frase vera perché ottenuta a partire da parti vere.

A questo punto possiamo anche dire che la semantica di Frege potrebbe esprimere assai poco, perché non prevede alcun trattamento delle espressioni riguardanti insiemi di oggetti. Ma il trattamento di queste espressioni è stata una delle più grandi elaborazioni della logica contemporanea ed ha segnato il passo tra la logica precedente e quella formale moderna.

“Una torre su una colonna aperta è forte” è vera. O non è vera? Intanto, andiamo a vedere quale è il soggetto: “una torre –su una colonna aperta” e il predicato “x-è forte”. I due termini hanno un significato? Si, i due termini si possono comporre insieme? Si, dunque ottengo un enunciato di senso compiuto e dotato di significato. Frege mi avrebbe certamente rimproverato per questo ragionamento: “una torre” infatti non è una descrizione definita: non è introdotta da “il” ma da “un” e l’articolo indeterminativo è proprio indice di indeterminazione, vaghezza. Dunque, esso non è un termine singolare giacché non indica una sola cosa: infatti con la frase che ho asserito potrei aver riassunto una verità contingente degli scacchi. Ma le regole di questo tipo devono essere astratte proprio perché valgono per più contesti diversi: motivo per il quale non si può trattare l’enunciato “una torre su una colonna aperta è forte” come “la torre su una colonna aperta è forte”.

“Una torre” è l’espressione di un’esistenza di un individuo tra tanti: in questo caso dell’insieme dei pezzi. Così “una torre” potrebbe essere riscritta in questo modo “esiste un a torre tra i vari individui possibili”. Ma una frase del genere esprime solo l’esistenza di un individuo tra molti, perciò non è un’espressione di significato compiuto: essa non denota un individuo, ma solo un individuo di un insieme. Dunque, bisogna procedere nella specificazione. L’esistenza di un individuo è messa in relazione con il predicato della frase in modo tale che solo quando il predicato della frase ( funzione di primo livello ) soddisfa l’esistenza dell’individuo ( funzione di secondo livello ) la frase è vera.

Per esempio: “una torre su una colonna aperta è forte” si può riscrivere “esiste almeno una torre su una colonna aperta ed è forte quella torre” a questo punto, l’individuo è perfettamente determinato: esso è uno dei possibili individui ed è proprio quello che è forte. Un altro esempio: “tutti i finali di donna e re contro re sono vinti” è riscrivibile “tutte le posizioni definite come finali di donna e re contro re, sono vinte”.

Con questa impostazione riusciamo a dare un significato a tutte le espressioni intorno alle partite di scacchi, da un punto di vista conoscitivo: “l’alfiere mangia la donna, scacco!” è una proposizione verificabile, esprime un senso compiuto dunque è o vera o falsa nel linguaggio fregeano. “D2-d4 è una pessima apertura” è falsa perché negli scacchi la mossa denotata da “d2-d4” non rientra nel predicato “esser-pessima” dunque il pensiero espresso dall’enunciato è falso nel mondo reale.

Però si potrebbe obbiettare una cosa: quando parlo di scacchi non mi basta esprimere esclusivamente degli enunciati dichiarativi, che esprimono delle proprietà intorno alle cose del mondo, mi serve anche esprimere dei contesti relativi al pensiero di un certo giocatore. Da poco si è disputato il campionato del mondo tra Anand e Kramnik ed ha visto Anand vincitore. Abbiamo analizzato alcune partite al circolo e c’erano delle mosse che non erano affatto chiare, né per noi comuni mortali né per Friz. A questo punto sorgeva spontanea la domanda “Che cosa credeva Kramnik?, perché questa mossa?” In quanto le risposte non erano relative a dati di fatto, bisognava limitarci ad esprimere delle credenze: “Kramnik pensava che la torre fosse più forte sulla colonna –e- invece che nella colonna d”.

Ma “pensare”, “credere”, “sapere” non sono dei verbi capaci di denotare alcun che di esistente, essi possono, al limite, proporre un pensiero. Ed infatti, per Frege, gli asserti con verbi di credenza non hanno come significato alcun che di esistente, ma solo un pensiero. Così, quando dicevamo “Kramnik pensava che la torre fosse più forte sulla colonna –e-” non stavamo esprimendo un dato di fatto, ma un’intenzione di Kramnik.

In questi casi continua a valere il principio di composizionalità per gli enunciati, ovvero l’idea che “Kramnik pensava che la torre fosse più forte sulla colonna –e-” è ottenuta a partire dalla saturazione di un predicato con un termine singolare. Ma non è valido il principio di sostituibilità: per esempio, se dico “la torre è più forte sulla colonna e” ha lo stesso significato di “la torre bianca da c1 si sposta in e1” in questo caso, in casi diversi, potrei sostituire le parti delle due proposizioni e mantenere intatto lo stesso significato ( la torre è sempre la stessa ). Ma se dico “Kramnik pensava che la torre bianca da c1 si sposta in e1” non è la stessa cosa che se dico “Kramnik pensava che la torre fosse più forte sulla colonna e” perché, per esempio, Kramnik ragionava sul valore posizionale della mossa ma non sulla notazione della mossa stessa. Dunque, nei casi in cui ci siano enunciati di credenza il principio di sostituibilità non vale. D’altra parte è abbastanza intuitivo: se dico “Io credo che le due torri siano più forti della donna” non è la stessa cosa che dire “io credo che la torre sia più forte dell’alfiere” infatti potrei non credere nella prima frase ma credere nella seconda: un principiante sarebbe restio ad accettare l’idea che due torri siano più forti della donna perché intuitivamente la donna è pensata come il più forte dei pezzi, mentre senza dubbio sarebbe abbastanza sicuro nell’affermare la seconda frase.

A questo punto, possiamo riassumere l’idea di Frege: un enunciato qualunque è l’espressione di un certo significato attraverso un certo senso. Un enunciato ha significato se esprime qualcosa di reale, oggetto, persona o insieme di oggetti, un enunciato è falso se ad una determinata cosa associa una proprietà che non compete all’oggetto. Gli enunciati si formano a partire dal principio di composizionalità e, nel caso degli enunciati dichiarativi, vale il principio di sostituibilità, in altri contesti no.

Finiamo con un problema: se dico “il pezzo che muove in diagonale e a elle è in c4” è vera o falsa? Intanto, seguiamo il principio di composizionalità e scomponiamo in parti semplici l’enunciato: da un lato abbiamo il termine singolare “il pezzo che muove in diagonale e a elle ha mosso in c4” è un termine singolare. No, perché pur avendone la forma ( “il così e così” ) non ha però alcun significato: tutti sappiamo che non esiste quel pezzo. Questa descrizione è chiamata “descrizione impropria” perché non denota nulla di realmente esistente. E il predicato? Il predicato “x è in c4” ha un suo significato. Ma se saturiamo il predicato con la descrizione impropria abbiamo quell’enunciato. Per Frege, quell’enunciato esprime un pensiero perché ha un senso compiuto, ma non ha alcun oggetto di riferimento. Dunque possiamo giustamente chiederci se esso sia vero o falso, ma non possiamo rispondere perché quando andiamo a vedere quale oggetto reale soddisfi quel pensiero, rimaniamo delusi semplicemente perché non c’è.

A questo punto diciamo: Frege ha elaborato una semantica capace di denotare tutto ciò che ci interessa a riguardo delle partite a scacchi, egli propone un criterio di verità preciso e pone come valori di verità solo il vero e il falso. Tuttavia gli enunciati di credenza non hanno dei criteri di verità definiti chiaramente: “Kramnik crede questo” non è chiaro se sia vero o falso, oppure quando ci chiediamo valore di “l’italiano giocatore di scacchi campione del mondo è biondo”  dobbiamo accontentarci di non dire niente, in quanto non esiste alcun italiano attualmente campione del mondo ( né, purtroppo, ci sono stati! ).


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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