Press "Enter" to skip to content

Categoria: I Grandi Temi della Filosofia

Introduzione schematica all’Epistemologia analitica

Iscriviti alla Newsletter!


Ordell: Le hai sparato, ed è morta?

Luis: Be’, si, penso di si.

Ordell: Come pensi di si? Non è una risposta. Voglio sapere se è morta.

Luis: Io penso di si, io credo di si.

Ordell: Tu credi di si, quindi non sei sicuro!

Luis: E’ morta, è morta.

Jackie Brown

1. I tre generi di conoscenza e la definizione di conoscenza come credenza vera giustificata (Justified True Belief JTB).

L’analisi della conoscenza è una delle principali analisi della filosofia, in particolare della filosofia moderna. Pensatori quali Cartesio [1645], Spinoza [1675], Locke [1690], Leibniz [1714], Hume [1740] e Kant [1787] sono tutti impegnati nel fornire una teoria che dia un fondamento certo alle nostre conoscenze. Sebbene alcuni arrivino a formulare la questione in termini scettici (Hume [1740]), vale a dire che non per tutto si può avere conoscenza ma ci si deve accontentare di un raffinamento su basi statistiche (era il caso della connessione di causalità tra fatti contigui nello spazio-tempo che ricorrono spesso insieme per Hume [1740]) rimane il fatto che lo sforzo nella definizione dei fondamenti della conoscenza sia stato cospicuo. Rimane il fatto, però, che fino al XX secolo, non c’era una chiara separazione dei vari generi di conoscenza, trattazione che intende distinguere la conoscenza in tre grandi categorie: la conoscenza oggettivale (diretta), la conoscenza competenziale (know how) e la conoscenza proposizionale (per una trattazione più specifica di queste tre categorie rimandiamo a Vassallo [2002]). La conoscenza diretta riguarda ciò che intendiamo esprimere con le proposizioni del tipo “Luigi conosce Gianna”, vale a dire che il predicato “conoscere” è utilizzato per indicare l’acquisizione di un’informazione che non riguarda né un saper fare (know how) né una proposizione; così che esso definisce una relazione tra un soggetto (Luigi) e un oggetto (Gianna) e la natura di tale relazione ha a che fare con le idee di Luigi su Gianna. La conoscenza competenziale riguarda una particolare capacità a fare qualcosa così che “Luigi sa andare in bicicletta” indica quel che Luigi è in grado di svolgere con un oggetto che appartiene alla categoria “essere bicicletta”. Si può osservare la distinzione tra la conoscenza competenziale rispetto alla conoscenza diretta: la conoscenza competenziale attiene a una pratica, mentre la conoscenza diretta riguarda l’idea di un soggetto direttamente connessa con un oggetto. In fine, la conoscenza proposizionale riguarda i casi in cui un soggetto può dire di sapere una certa proposizione. La conoscenza proposizionale, dunque, riguarda la natura delle proposizioni credute da parte di un soggetto, così che non si dà conoscenza proposizionale se un soggetto non ha una credenza di qualcosa. Ad esempio, “Luigi sa che Milano è in Lombardia” ci dice che un individuo appartenente all’insieme degli esseri umani sta in nella relazione “conoscere” con la proposizione “Milano è in Lombardia”: (Conoscere(Luigi, Milano è in Lombardia). Stando a quanto appena detto, Luigi deve possedere la credenza che Milano è in Lombardia. Immaginiamo la negazione di ciò, per renderci conto dell’assurdità: se Luigi sa che “Milano è in Lombardia” non può non pensarlo, intendendo con “credere” e “pensare” due predicati che indicano la semplice presenza di una proposizione nella mente di una persona. In altre parole, si assume per convenzione che “credere una proposizione” significhi semplicemente “avere una proposizione nella testa” e non qualcosa di simile a quel che in genere si intende con “credere” nel linguaggio comune (cioè una proposizione possibile che esclude tutte le altre, come quando si dice “io credo che Dio esiste” si intende che tale credenza sconfigge tutte le altre, cioè che essa è più forte delle proposizioni contrarie possibili). Così, la conoscenza riguarda un soggetto che pensa ad una credenza e tale credenza deve essere sia vera che giustificata. Perché si dia conoscenza la credenza pensata dal soggetto deve essere vera: “Luigi sa che Milano è in Francia” è palesemente una frase falsa. In fine, la credenza deve pure essere giustificata. Infatti, la sola credenza vera non ha alcun fondamento tale per cui possiamo dire, a livello intuitivo, di possedere alcuna ragione per credere in quella particolare cosa. Ad esempio, quando ci chiedono se domani pioverà e noi rispondiamo di si, solo perché è la prima cosa che ci passa per la testa, anche ammesso che l’indomani piova, non costituisce conoscenza.

E’ un bene mettere al mondo un figlio?

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bonobo_sexual_behavior_1.jpg

Iscriviti alla Newsletter!


Ogni uomo e ogni donna, raggiunta una certa maturità biologica, sentono il bisogno di avere un figlio e non semplicemente di compiere atti sessuali. Esiste una differenza importante tra l’esigenza di compiere un atto sessuale e quella di avere una prole. Nel primo caso, si tratta di voler sfogare un bisogno impellente e di abbassare il proprio senso di solitudine sessuale il che può essere operato in molti modi e non necessariamente attraverso un atto sessuale che comporta, anche solo in linea di principio, la genesi della prole. Questo fatto può essere rimarcato dall’evidenza singolare e dalle statistiche sulle pratiche sessuali: molte persone preferiscono atti sessuali non vaginali per la soddisfazione del proprio bisogno, così che se tale bisogno è estinto con pratiche che rendono impossibile la procreazione e vengono preferite a quelle che, invece, possono causare la nascita di un nuovo individuo, allora può sussistere (e sussiste) la necessità esclusiva di esaurire il proprio bisogno sessuale indipendentemente dal bisogno di avere della prole. Viceversa, sussistono casi in cui si compiono atti sessuali con la finalità di avere dei figli. Tale necessità è, in genere, avvertita in modo cosciente e le persone se ne accorgono in base al fatto che la loro soddisfazione o felicità risulta indipendente dal loro benessere sessuale: si può essere sessualmente soddisfatti pur avendo il bisogno di avere un figlio. Ammesso che non sia un’esperienza umana sostanzialmente universale, riportiamo alcune evidenze che suggeriscono questa conclusione: (1) ci sono persone che sono disposte a praticare delle azioni figlie della superstizione pur di raggiungere l’agognato obiettivo; (2) ci sono persone che adottano dei bambini per averne uno; (3) ci sono persone che sono disposte a perseguire il proprio obiettivo con ogni mezzo consentito dalla scienza. Per tanto, è lecito distinguere il bisogno puramente sessuale da quello di procreare. Ne concludiamo che si parla molto spesso a sproposito di “bisogno di procreare” quando si parla di “istinto sessuale”. Da ora in poi assumiamo che le due proprietà siano distinte e, almeno parzialmente, indipendenti.

William James – La concezione della coscienza

Di Notman Studios (photographer) – [1]MS Am 1092 (1185), Series II, 23, Houghton Library, Harvard University, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=16250941

Iscriviti alla Newsletter!


Il discorso che riassumo (e commento) è stato tenuto da James a Roma in occasione del V Congresso Internazionale di Psicologia del 1905, ed è un testo centrale per capire la filosofia pragmatista e quella di James (pensatore dalle idee chiare ma non sempre chiaramente espresse). Il testo dà un’analisi perfettamente pragmatista d’uno dei postulati ancor’oggi centrali della psicologia, m’anche della filosofia.

Il paradosso dell’ultima spiaggia, ovvero dell’argomento ultimo

Molto spesso capita di ritrovarsi in disaccordo con il proprio partner. Di fronte all’analisi, uno dei due può capitolare con un ultimo straordinario argomento: “hai ragione, ma sono fatto così”. Di fronte a questo controargomento molto spesso ci si sente con le spalle al muro ed è, in vero, l’ultima spiaggia per chi lo pronuncia. Abbiamo detto che si tratta di un “controargomento” perché, in realtà, è una formulazione di una posizione che nega la possibilità di una discussione ulteriore per due ragioni (a) riconosce le ragioni dell’altro rispetto alle proprie (dunque, non c’è più bisogno di continuare a discutere) e (b) ciò nonostante afferma che tali ragioni non sostituiranno la propria precedente convinzione. L’argomento nasconde, naturalmente, una sfida implicita: se mi vuoi, devi prendermi così come sono, anche quando non ho ragione, so di non averla e non farò nulla per modificare il mio comportamento. Chi proferisce una frase del genere è all’ultima spiaggia perché formula un argomento che nega qualunque altra possibilità di replica perché sostiene la validità della posizione dell’avversario e, tuttavia, non la riconosce sufficiente per cambiare idea o atteggiamento. Da un punto di vista più rigoroso, si potrebbe tradurre la frase come segue: io possiedo una credenza a tale che essa ha un certo peso all’interno delle credenze che reputo importanti; la tua credenza non a risulta vera o valida e squalifica la mia precedente credenza a; ciò non di meno, la forza della credenza a è tale per cui la manterrò come se fosse vera o valida, così che il mio comportamento, per quanto irragionevole o sbagliato, sarà reiterato sulla base della non cancellazione della credenza a.

Il paradosso del legalista radicale o il paradosso di Sabatini

Presentiamo un paradosso emerso dalla posizione di chi sostiene che per dirimere le questioni umane sia sufficiente adottare il codice legale, sia esso civile o penale, prescindendo da un’accurata analisi a livello morale. L’idea è quella che, stando alle controversie sui problemi morali, essi risultano insolubili sul piano della semplice analisi razionale, postulando che tale analisi sia impossibile per via del fatto che non sussiste alcuna ragione morale (sia essa intesa in modo forte, come possibilità di formulare leggi pratiche morali, sia essa intesa in modo meno forte, come possibilità di trovare accordo perché la morale è fondata su basi irrazionali). L’argomento può essere presentato come segue:

Il legalista nudo e puro riconosce la validità della seguente frase (a):

(a) Ogni legge vale solo se è inscritta nel codice legale di uno Stato.

Ragione ed emozione nella filosofia morale (3/3)

No machine-readable author provided. Sympho assumed (based on copyright claims)., CC BY-SA 3.0 <http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/>, via Wikimedia Commons

Iscriviti alla Newsletter!


3. la filosofia moderna

Con l’epoca moderna abbiamo i primi segni dell’incrinatura del dominio del paradigma razionalista[1]. Si può già vedere, in pensatori come Pascal e Nicole, i quali riprendono diverse direzioni del pensiero di Agostino, una sorta di recupero del sentimento contro la ragione, o per lo meno il superamento temporaneo della tradizionale contrapposizione tra sentimento e ragione. Non sono d’accordo con questa interpretazione. Penso piuttosto che queste filosofie possano essere tranquillamente catalogate come filosofie della retta ragione, per cui è sempre all’istanza della ragione che è demandato il compito di guidare l’azione. Per quanto riguarda l’amore di cui molto parlano queste filosofie credo basti quanto già osservato a proposito di Agostino; l’amore per il dio non va confuso con l’amore terreno. Che poi la ragione sia inerme senza la grazia del Dio, è una questione del tutto irrilevante per i nostri particolari interessi.

Le condizioni della felicità

Iscriviti alla Newsletter!


E’ bene riflettere sulle cose che possono farci felici: infatti, se siamo felici abbiamo tutto ciò che occorre; se non lo siamo, facciamo di tutto per esserlo.

Epicuro

L’analisi dei modi della felicità, delle sue condizioni e della sua ricerca è un discorso moralmente vincolato in modo limitato. Il vincolo è imposto dal fatto che gran parte delle azioni umane sono eticamente connotate. Useremo la parola “morale” come se fosse equivalente a “etica” e così gli aggettivi relativi. All’interno dell’etica si distinguono le azioni intenzionate al bene dell’umanità nel suo complesso. Tali azioni sono consapevoli e frutto della ragione indirizzata verso sé come scopo ultimo.

Ragione ed emozione nella filosofia morale (2/3)

No machine-readable author provided. Sympho assumed (based on copyright claims)., CC BY-SA 3.0 <http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/>, via Wikimedia Commons

Iscriviti alla Newsletter!


2. la filosofia medievale

È senz’altro ridicolo tentare di riassumere il pensiero filosofico etico medievale in poche parole. Per questo non tento qui tanto un riassunto, quanto piuttosto di mostrare attraverso le figure filosofiche più importanti o significative, sempre selezionando i contenuti in ragione di una risposta alla nostra domanda, come questo – il pensiero – si muova attraverso i secoli fino alla modernità tenendo per lo più fermo un suo comune dominatore, che è allora in grado di unificarlo: la retta ragione (recta ratio). Preliminarmente possiamo dire che, rispetto all’etica antica, l’etica medievale non concepisce più il peccato come sopraffazione della parte irrazionale dell’anima su quella razionale, ma piuttosto come libera volontà di fare il male. La categoria della volontà è senz’altro una grande novità del pensiero etico medievale. Punto di continuità con il pensiero antico è invece proprio la recta ratio. Mostreremo che anche il pensiero etico medievale per lo più privilegia la componente della ragione a discapito della componente emotiva del processo di presa di decisione e azione morale.

Entrambe le grandi tradizioni antiche, quella platonica e soprattutto quella aristotelica, rimangono ben vive nel pensiero medievale. La prima si impone soprattutto nella prima fase del pensiero medievale, dopo Agostino, che propriamente è un filosofo del tardo antico; la seconda si impone nella seconda parte del pensiero medievale, con particolare forza dopo la traduzione in latino dell’Etica Nicomachea. Contrariamente alle tradizioni antiche, si afferma spesso, durante il medioevo, la visione per cui il sommo valore non è la felicità ma l’amore, atto della volontà. Sicché la volontà riceve un’attenzione prima sconosciuta. Sottolineo questo solo per dire che questo primato della volontà, spesso sostenuto (da Agostino prima di tutti), non è di per sé in contraddizione con il pensiero per cui deve essere la razionalità a guidare il processo di presa di decisione e quello d’azione. La contrapposizione volontà ragione non è la contrapposizione passione (o emozione, sentimento) ragione, a meno di non concepire la volontà come determinata dalla passione. A noi interessa il rapporto ragione passione.

Ragione ed emozione nella filosofia morale (1/3)

No machine-readable author provided. Sympho assumed (based on copyright claims)., CC BY-SA 3.0 <http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/>, via Wikimedia Commons

Iscriviti alla Newsletter!


Introduzione

La storia della filosofia morale è senz’altro molto lunga e complessa, dunque ogni tentativo di ridurla a schema evolutivo secondo categorie dal potenziale dicotomico come quelle di ragione ed emozione non può che portarci ad una conoscenza parziale della complessità che compone il percorso della filosofia morale dal suo nascere ad oggi. La riduzione è nondimeno necessaria, e le categorie riducenti possono senz’altro avere due vantaggi: primo, agevolano la nostra comprensione della storia, altrimenti difficilmente raggiungibile; secondo, permettono alle volte, quando le categorie sono inusuali rispetto alla norma, di scoprire fatti nuovi o portare alla luce fenomeni prima all’oscuro, attraverso il darsi di nuove interpretazioni. Tolto l’ausilio della semplificazione e della categoria rimaniamo in preda al caos e all’indeterminazione più assoluti, i quali non permettono la nostra comprensione dei fatti. Il farsi carico di questa necessità però non implica sfigurare i fatti della storia attraverso le proprie categorie e il proprio metodo di comprensione – nonostante si ammetta questo sia in certa misura necessario o costitutivo al darsi della realtà – ma anzi tendere verso una sempre maggiore aderenza alle vicende storiche del pensiero.

Esaminate le vicende del pensiero filosofico morale, azzardo un’asserzione audace, che cercherò di supportare mostrando l’andamento della storia, interpretata alla luce della risposta che le varie filosofie nel loro susseguirsi hanno dato alla domanda del ruolo relativo di emozione e ragione nel processo di presa di decisione e azione morale. L’asserzione audace è che la storia della filosofia morale occidentale, almeno fino alla modernità, è caratterizzata da un pensiero che enfatizza ed esalta la componente della ragione nel processo di presa di decisione e azione morale, mentre demonizza e scredita la componente emotiva, alla prima opposta. Se la ragione ci mette in contatto con le idee più alte e nobili (es. con la divinità stessa), l’emozione non è che il ricordo nell’uomo della sua animalità. Dove la ragione è l’alta manifestazione dell’anima, l’emozione è la bassa manifestazione del corpo. La ragione favorisce e arricchisce la nostra vita morale, mentre l’emozione per lo più impedisce il suo corretto darsi. La moralità stessa è concepita come un sistema di principi coglibile astrattamente dalla ragione, e le emozioni come motivazioni che possono favorire o sovvertire la nostra decisione razionale, motivazioni che sono però moti (ciechi) non-razionali che tendono a dominarci. Questa tendenza generale della filosofia morale rappresenta per noi il paradigma della tradizione, messo in discussione dalla filosofia sentimentalista del XVIII secolo. A questa discussione del paradigma, o rivoluzione, come più avanti l’ho chiamata, segue la risposta della tradizione, che si compie in Kant. Il pensiero post-kantiano però vede il superamento del paradigma tradizionale, nel solo senso che tendenzialmente l’emozione non è più ignorata come elemento di disturbo o inessenziale alla morale.

Virtue Epistemology – Una introduzione

Iscriviti alla Newsletter!

A cura di Giangiuseppe Pili l’Introduzione schematica all’epistemologia


1. Introduzione

La Virtue Epistemology (VE) è una branca dell’epistemologia analitica che abbraccia vari ambiti della teoria della conoscenza (teoria della giustificazione, definizione di conoscenza). L’idea comune a tutte le posizioni di VE è che l’Epistemologia sia una ricerca normativa di tipo individualistico tale che la conoscenza scaturisca dall’uso di particolari virtù epistemiche, virtù variamente identificate come un tratto tipico di un soggetto cognitivo umano. La differenziazione principale, nonché distintiva, è appunto la caratterizzazione dei vizi e delle virtù epistemiche. Si tratta, dunque, comunque di un approccio individuale alla teoria della conoscenza e non sociale, nonostante ci sia chi, come Kvanving [1992], ha cercato di proporre problematiche non propriamente di epistemologia individuale.