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L’ontologia de Il signore degli anelli

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1.1 Un mondo di fatti morali

Il mondo de Il signore degli Anelli è un mondo di fatti morali. Per comprendere la base metafisica di sfondo a tutta l’opera è imprescindibile fare mente locale su questa peculiare caratteristica dell’opera di Tolkien. Definiamo con ‘fatto morale’ una qualunque entità fisica alla quale corrisponde una proprietà che lo contraddistingue moralmente, come ‘buono’ o ‘cattivo’. Sicché ogni entità definita come parte del dominio degli oggetti presenti nell’universo tolkeniano, intesi sia come cose che persone, ha una chiara definizione morale. Si può dedurre che nessuna entità non è né buona né cattiva, ma è o buona o cattiva, o, al più, entrambe. La maggior parte delle cose dell’universo tolkeniano sono definitivamente buone o cattive, ma possono essere sia buone che cattive, in alcuni casi limitati. Le sfumature del buono o cattivo a livello di fatti sono, in realtà, assai poche ma importanti.

Per quanto riguarda le cose esse possono essere caratterizzate come buone e cattive quando entrano in possesso di qualcuno che sia buono o cattivo. Ad esempio, la pietra del Palantir è sia buona che cattiva, giacché ha un grande potere che può essere buono o cattivo in base alla forza intenzionale che la guida. Ad esempio, quando Aragorn informa l’oscuro signore, Sauron, che il “re è tornato”, questo fa del Palantir un oggetto buono, mentre quando Saruman comunica con Sauron per mezzo del Palantir, quest’ultima cosa è chiaramente cattiva. Il punto è, però, che il Palantir altera la forza intenzionale di chi lo gestisce e, per questo, è comunque cattiva, sebbene usata per scopi buoni. Questo fatto è illustrato dal caso di Peregrino Tuc che afferra il Palantir e si fa scoprire da Sauron, con il che egli viene stravolto dalla vista dell’oscuro signore. In generale, vale il principio che gli oggetti dotati di grande potere non sono intrinsecamente buoni, perché il loro stesso immenso potere è di per sé qualcosa di ambiguo. Gli Anelli del potere, ad esempio, hanno questa proprietà.

Casi di fatti buoni e cattivi sono soprattutto bene illustrati dagli esseri viventi, in particolare dagli uomini. Infatti, nel regno delle entità pensanti (ma, vedremo, quasi tutto è pensante nel mondo tolkeniano) si dà una scala di positività/negatività che deve essere pensata nel modo più forte possibile, vale a dire che le singole entità sono dotate di proprietà fisiche buone o cattive.

Gli Elfi sono gli esseri pensanti più buoni, dove Elrond, Celeborn e Galadriel rappresentano gli ideali sommi di perfezione fisica e morale e vengono descritti fisicamente in modo da rendere atto di tale commistione (Galadriel è l’unico essere femminile che fa tradire una sensazione sensuale in Frodo e in Sam e addirittura il nano Gimli, tradizionalmente avverso alla simpatia verso gli Elfi, scoprirà di nutrire una ammirazione tanto sconfinata per Galadriel, moralmente e esteticamente inviolabile, che avrà un’accesa disputa con Eomer, il futuro re del Mark): “Erano molto alti [Celeborn e Galadriel], e la statura della Dama pari a quella del Signore; i loro volti erano gravi e belli. Le vesti erano bianche, e i capelli della Dama di un oro intenso, e quelli del Sire Celeborn d’argento, lunghi e lucenti; nessuna traccia d’età, salvo forse la profondità dei loro occhi, penetranti come lance, eppur impenetrabili, abissi di arcaici ricordi”.[1]

Dopo gli Elfi si posizionano gli Ent, gli alberi semoventi, la cui presenza nel mondo delle Terre di mezzo è attestata sin dal principio dei tempi, ma anche alcuni di essi si lasciano andare ad una certa malvagità, gli Ucorni, particolari tipi di Ent, vengono tratteggiati in modo quantomeno ambiguo, sebbene la loro forza si sprigionerà contro un essere chiaramente cattivo, lo stregone Saruman.

I Nani sono, in generale, degli esseri buoni, sebbene soltanto Gimli figlio di Gloin faccia capolino nella storia de Il signore degli Anelli, indirettamente vengono anche considerati altri Nani, tutti buoni. Sebbene la loro avidità li abbia condotti a scavare negli abissi della terra, incappando in esseri dall’antica malvagità, la peggiore. Come si ricorderà, infatti, il Balrog che vive nelle profondità delle miniere di Moria era stato creato addirittura prima dell’avvento dell’oscuro signore, Sauron.

Dopo i Nani probabilmente stanno gli Hobbit o mezz’uomini. Costoro sono l’immagine riflessa del buon borghese: amanti della placida pace, della tavola e di peculiari forme di laboriosità innocue. Non sono dotati né di grandi ambizioni né di grandi intelligenze, il che li rende i migliori sostenitori di un mondo avulso dalle problematiche del conflitto. L’esempio più calzante è proprio Samvise Gamgee, che non a caso è un giardiniere, arte tipicamente borghese e tradizionalmente British. Sam incarna tutte le virtù del buon hobbit: è poco intelligente (ma lo è abbastanza da saperlo e lo dice a sé stesso esplicitamente in più di un’occasione), non ha ambizioni, se non quella di avere un piccolo giardino da coltivare, è amante della tavola (tanto da portarsi quasi sino alle soglie del Monte Fato le sue amate pentole), è l’unico che avrà una famiglia e che, per i suoi (ottusi) meriti verrà insignito della carica di Sindaco di Hobbiville per lunghi anni. E che Sam incarni la perfezione hobbit, rispetto a Frodo o Bilbo, di maggiore intelligenza ma traviati dalla volontà di viaggiare e conoscere troppo e, soprattutto, dall’Anello; la perfezione di Sam, dunque, si esplicita nel fatto che senza di lui Frodo non sarebbe mai giunto alla meta, e proprio perché sempre disposto ad essere fiducioso, anche quando la mente sembra condurlo alla prostrazione. La caratteristica di saper provare fiducia è una delle virtù più alte e, non a caso, condivisa da tutti i più illustri personaggi del libro: Aragorn, Gandalf (grigio e bianco che possiede uno degli Anelli che ha la capacità di infondere fiducia in chi gli sta vicino), Faramir etc. Ad ogni modo, comunque, esistono anche hobbit meno buoni, come Lotho e Lobelia, avidi e avari allo stesso tempo. Sebbene siano l’assoluta minoranza, ciò ci servirà a mostrare che nessun regno razziale, a parte gli Elfi, sembra essere assolutamente buono perché nulla c’è di buono che non possa cadere in tentazione e venire traviato dal male.

Gli uomini costituiscono il punto di cesura tra i fatti morali intrinsecamente buoni e intrinsecamente cattivi. Alcuni sono buoni, altri cattivi, ma nessuno, neppure Aragorn e Gandalf, sono assolutamente privi del rischio di cadere in tentazione, cioè di lasciarsi tentare dal male a fin di bene, al principio, e poi finirne soggiogati. Così ci informa Gandalf sulla natura degli Anelli:

Un mortale, caro Frodo, che possiede uno dei Grandi Anelli, non muore, ma non cresce e non arricchisce la propria vita: continua semplicemente, fin quando ogni singolo minuto è stanchezza ed è esaurimento. E se adopera spesso l’Anello per rendersi invisibile, sbiadisce: infine diventa permanentemente invisibile e cammina nel crepuscolo sorvegliato dall’oscuro potere che governa gli Anelli. Sì, presto o tardi, tardi se egli è forte e benintenzionato, benché forza e buoni proposito durino ben poco – presto o tardi, dicevo, l’oscuro potere lo divorerà.[2]

Perché, sin da ora, sarà bene osservare che, una volta venuti a contatto con il male, cioè una volta che si è fatto del male, tale male si paga sempre con la morte. E’ il caso emblematico di Boromir, soggiogato dalla volontà di prendersi l’Anello, che, nonostante si ravveda immediatamente, pagherà il suo errore morendo. Anche Theoden, re del Mark, nonostante si faccia malamente consigliare e avrà la forza di riscattarsi, finirà col morire, quasi ad indicare la sua finale espiazione per la sua malvagità interiore. In qualche modo, dunque, il fatto cattivo deve essere distrutto e solo con la sua distruzione si può far strada un fatto positivo. Ciò è dimostrato con la vicenda stessa dell’Anello del potere, laddove esso doveva essere distrutto nell’unico posto in cui ciò era possibile, altrimenti il suo male avrebbe sempre regnato latente o no nella terra di mezzo. Questa spietata logica fisico-morale pervade tutto il libro.

Come dicevamo, dunque, gli uomini possono essere buoni o cattivi e buoni e cattivi. Intere torme di uomini fanno parte delle schiere di Mordor (ad esempio i Sudroni), sicché essi sono intrinsecamente cattivi. Mentre gli occidentali, più occidentali, cioè i Numenoreani, sono gli uomini più vicini alla perfezione, tanto che, infatti, vengono continuamente accostati agli Elfi e lo stesso Aragorn viene chiamato “Gemma Elfica”. Un esempio di altro grande corrotto è Saruman, colui che per la sua conoscenza finisce per cadere in tentazione e farsi traviare dal male. Come viene spesso ribadito, i peggiori non sono i più malvagi intrinseci, come Sauron, perché, in qualche modo, l’essere cattivi risiede proprio nella loro natura e non ci si può far nulla, se non eliminarli fisicamente. I peggiori sono i traditori, coloro che passano al male, pur avendo potuto fare del bene. In questo senso, sono coloro nei quali il fatto morale negativo ha prevalso.

Gli Elfi, i Nani, gli Ent, gli hobbit e gli uomini sono le razze buone o che lo sono più spesso che il contrario. Il fatto è tanto più evidenziato dal gruppo dei membri volontari della compagnia dell’Anello, fondata per portare l’Anello del potere nel luogo in cui fu forgiato, per essere distrutto. Quattro hobbit, un elfo, un nano, tre uomini. Gli Ent, dal canto loro, daranno un aiuto decisivo al momento giusto.

Sebbene nel regno di Tolkien facciano raramente capo gli animali in senso stretto (si parla giusto di qualche uccello, di cavalli – o pony – e olifanti), essi sono, in generale, buoni o cattivi in base al paese di provenienza, sicché i cavalli del Mark, dal quale proviene Ombromanto, sono buoni e efficienti e Ombromanto ne rappresenta ogni virtù. Mentre le bestie di Mordor sono esseri traviati dall’oscuro signore e i destrieri dei Nazgul sono, infatti, stati martoriati dall’oscuro signore. Ma con tanta quantità di esseri viventi pensanti, sembra che gli animali ordinari, cioè quelli del nostro mondo, interessino abbastanza poco Tolkien, laddove, ad esempio, nessuno della compagnia possieda un cane, il miglior amico degli uomini.

Dopo tutti questi esseri, più qualche altro, viene la lunga schiera di entità totalmente cattive, irrimediabilmente traviate: orchetti, Uruk, Nazgul, fantasmi etc.. In particolare, tutto ciò che è frutto di un artifizio, specialmente se cattivo, è destinato ad essere malvagio per sempre. In generale, vale l’idea che tutto ciò che è frutto del male non è di per sé qualcosa di originale, puro in questo senso di “originale”, cioè di verginale, ma è una brutta copia di qualcos’altro. Ciò perché nulla di realmente puro può essere il frutto di una intermediazione con qualcosa di anche solo potenzialmente malvagio. Gli orchetti pare che siano stati creati su “imitazione degli Elfi” e, ovviamente, con scarsi risultati. Ma anche i grandi marchingegni sono spesso associati a proprietà malvagie, se non ottenuti da mente buona: il grande opificio costruito sul “vecchio mulino” nella Contea dimostra questo fatto in modo chiaro:

Pensate al mulino di Sabbioso. Pustola lo demolì non appena si fu insediato a Casa Baggins. Poi chiamò un branco di loschi individui a costruirne uno più grosso, e lo riempì di ruote e di aggeggi stranieri. Solo quello stupido di Ted ne fu contento, e adesso lavora lì, e pulisce le ruote per far piacere agli Uomini, mentre suo padre era il Mugnaio e padrone. L’idea di Pustola era di macinare di più e più in fretta, a sentir lui. Ha altri mulini simili. Ma per macinare ci vuole grano, e non ve n’era certo di più per il mulino nuovo che per quello vecchio. Ma da quando è arrivato Shrkey non macinano più del tutto. Stanno sempre a martellare, e fanno uscire un fumo nero e puzzolente; a Hobbiville ormai non c’è pace neanche di notte. E scaricano sudiciume per puro piacere: hanno inquinato tutto il basso corso dell’Acqua, e stanno per rovinare anche il Brandivino. Se vogliono trasformare la Contea in un deserto ci stanno riuscendo bene.[3]

Impossibile non notare l’uso oculato dei termini per descrivere, mutatis mutandis, un uso industriale della merce e della manodopera: “demolì”, “loschi individui”, “aggeggi stranieri”, “macinare di più e più in fretta”, “stanno sempre a martellare”, “fumo nero e puzzolente”… Sono tutte parole per entità negative, laddove l’attività di un’entità negativa non può che essere negativa in tutti i suoi molteplici effetti. Un mulino che produce fumi nefasti e desertifica il circondario non può avere effetti positivi, tanto più che, si dice, non aumenta neppure la produzione. E anche se la aumentasse, a che pro? Questo l’implicito da tenere a mente. Ancora una volta, il male genera male e dalla distruzione di entità fattuali moralmente positive non può che discendere male. Non si danno possibilità mediane proprio perché tutto è moralmente carico.

In fine, il male perfetto è incarnato da Sauron che, infatti, si parla di lui e di “Mordor” anche in zone molto lontane dalla sua terra e dalla sua presenza, come a rinsaldare l’idea che ogni male è una sua peculiare espressione localizzata:

“Questo è molto peggio di Mordor!” disse Sam “Molto peggio, in un certo senso. Ti colpisce dritto al cuore, come si suol dire, perché questa era la casa del cuore, e ce la ricordiamo come era prima”.

“Si, questo è Mordor”, disse Frodo”.[4]

Il male è definito come una proprietà di un’entità capace di avere solo effetti negativi per tutti gli esseri viventi o, ancora, è una entità capace di determinare intenzioni malvagie in sé o per mezzo di sé con conseguenze malvage.

Coerentemente con la visione fisico/moral/biologica, Tolkien costruisce, forse consapevolmente forse no, un mondo totalmente creazionista, per quanto non dovuto alla supposizione di un Dio esterno. Non si parla mai di evoluzione, né di cambiamenti delle razze, ma solo di un’enventuale corruzione. Ad esempio, gli Elfi sono giunti “di là dal mare”, mentre gli orchetti sono stati “creati” dalle mani di Sauron. Così altri esseri cattivi sono stati creati da altri più malvagi, come i Balrog pare che furono creati da Morgot, il precedente signore oscuro. Ma anche gli Uomini sono venuti di là dal mare, e non è chiaro da chi provengano i Nani e i mezzuomini o hobbit, ma di certo essi sono tali e rimangono tali. In questo senso, i miscugli tra razze sono considerati impossibili, giacché non se ne parla mai. Ma questo sembra conseguente all’adozione di una metafisica in cui gli elementi sono categorizzati come parte di un certo dominio in modo definitivo. Sono possibili delle variazioni intraspecie, come uomini più o meno alti e “belli”. Ad esempio, i Numenoreani sono più alti e imponenti (migliori) degli uomini del Mark, per quanto anche questi siano valorosi e fisicamente prestanti.

Abbiamo chiarito il primo punto fondamentale dell’ontologia tolkeniana, mostrando come tutto abbia una chiara connotazione morale e le sole unità incerte non lo sono per sempre ma solo nel momento. Solo il male è assolutamente puro e incontaminabile, sicché esso, come entità fisica, deve essere eliminato, per cessare di avere diretta influenza sul resto della realtà. Viceversa, il bene è la proprietà di qualunque entità capace di produrre intenzioni buone e dagli effetti perdurantamente positivi, a meno che non si sia corrotti dal male. E questo ha una precisa conseguenza sul piano Etico: se il male e il bene sono fatti intrinsecamente fisici, allora la loro conoscenza e la loro applicazione non dipende da regole giuste o buone, ma dal possesso di qualità fisiche positive. Così per gli esseri viventi pensanti, così per le cose iNanimate, così per gli animali.

1.2 Lo spazio-tempo e la fisica magica

Illustrate le entità in gioco, è arrivato il momento di parlare della geodetica tolkeniana. Lo spazio è intuitivamente euclideo, sebbene si presentino spesso delle peculiarità spaziali non intrinsecamente riducibili a quelle del nostro spazio fisico. In esso regna una sorta di relatività polarizzata, laddove lo spazio, in quanto costituito da entità morali, ha determinate ripercussioni su se stesso. Innanzi tutto, lo spazio è moralmente orientato da occidente a oriente, giacché a occidente sta Lotlhorien, Gran Burrone, il Mare mentre a oriente stanno le terre di Mordor, il Monte Fato e le altre terre desolate. Già questo orientamento geografico lascia aperte molte metafore, ma noi, qui, prendiamo in considerazione solamente il fatto che lo spazio sia curvo, nel senso che tanto più si va ad occidente e tanto più esso si innalza in qualità positive e, viceversa, tanto più procede ad oriente, e tanto più si abbassa in qualità negative.

Esistono luoghi in cui lo spazio influisce direttamente sia sulla meteorologia, come nel caso dei luoghi Elfici (Lotlhorien) o dei luoghi malvagi (Mordor). In queste “terre” il sole brilla più o meno, e nubi o cielo sereno costituiscono il panorama usuale della terra. In altre parole, v’è una diretta relazione causale tra la dimensione propriamente spaziale, a sua volta definita dalle entità che la compongono, e la dimensione metereologica. Questa relazione ha altre conseguenze importanti: in base allo spazio gli oggetti reagiscono diversamente, come nel caso emblematico dell’Anello che ha diversi effetti sul suo portatore in base alla regione spaziale in cui è entrato.

In altre parole, nello spazio tolkeniano v’è una legge di Gravità superiore alla nostra, laddove alcune zone della realtà influenzano direttamente il comportamento degli oggetti in modo diverso. Oltre all’Anello, un altro esempio potrebbe essere quello della fiala di Galadriel, che brilla o non brilla in base alla sua dislocazione spaziale (neppure essa brillò nella prossimità del Monte Fato).

Ma è in chiave temporale che si hanno le maggiori ripercussioni della ontologia tolkeniana. Esso è in diretta relazione con le entità presenti in una determinata zona, che hanno il potere di cambiare parzialmente le usuali relazioni causali (come appena visto) e che impone un preciso riflesso sullo scorrere del tempo. Esiste pur sempre una forma di tempo assoluto, cronometrato in base alla partizione temporale invalsa nel nostro mondo (giorni, mesi, anni…) e ha un corrispettivo in una logica temporale ciclica, laddove l’alternarsi delle stagioni costituisce la base per il calcolo degli anni (da notare, infatti, che non si parla mai né di clessidre né di orologi, mai in nessuna circostanza). Eppure ogni azione accade nel momento giusto, il che è una logica conseguenza della moralità fisica del mondo: non si può dare il caso che qualcosa accada senza una precisa ragione morale che dà vita al susseguirsi degli eventi del mondo e non si sostanzia sopra di essi. Ad esempio, in più di una circostanza, si usa la locuzione “è tempo di partire” e non “sono le dodici, dunque parte la carrozza”. Inoltre, in determinati luoghi il tempo fluisce in modo diverso, come a Lotlhorien o come la realtà (non pienamente precisata) nel quale finisce Gandalf, dove ogni giorno del mondo delle Terre di mezzo equivale a un anno nell’altra realtà. Sicché alla distorsione spaziale corrisponde una distorsione anche temporale, laddove ci sono zone dove il tempo accelera o decelera il suo corso.

Sulla base di questa costruzione spazio/temporale si sostanzia una serie di leggi della fisica su basi causali, per quanto leggermente differenti rispetto al nostro mondo. In altri termini, le considerazioni di Kant o di David Hume sulle leggi di causalità sarebbero grossomodo ancora valide nel mondo tolkeniano, ma sono violate alcune condizioni ordinarie della loro applicazione. Ad esempio, non tutti gli effetti sono commisurati alle cause: un piccolo Anello può avere grandissimi effetti su gran parte del mondo, se non su tutto; una parola può imporre degli effetti decisivi sull’andamento di una guerra o, ancora, una spada Elfica può distruggere un’entità altrimenti ineliminabile (il Nazgul). In altre parole, neppure la fantasia di Tolkien può fare a meno di una costruzione causale del mondo, sebbene può calibrarla in modo tale che grandi eventi possano avere piccola portata locale (come la guerra dell’Anello rispetto alla contea o alla foresta di Tom Bombadil), mentre piccoli eventi possano avere fisicamente delle grandi conseguenze globali (la distruzione dell’Anello impone la fine del regno di Sauron). Alla fusione dell’Anello nella lava segue un terremoto che distrugge le fortezze di Sauron, così come Gandalf può far bruciare dei pezzi di legno in una tormenta di neve pronunciando solo poche parole, così come delle gemme possono rendere più alto e dotato di luce propria qualcuno (anche se ciò non mai ben chiaro, se si tratti solo un’apparenza o una distorsione fisica dovuta all’impiego di una potenza dell’oggetto; per ragioni di coerenza, scegliamo questa seconda interpretazione). In questo senso sembra che ci siano delle violazioni nelle leggi della conservazione dell’energia e della massa, come quando, ad esempio (oltre a quelli appena visti) Merry e Pipino bevono la bevanda fornita loro da Barbalbero e crescono ulteriormente in altezza, vale a dire che tale pozione fornisce delle energie biochimiche supplementari in grado di alterare il loro metabolismo!

Ma la legge fisico/morale più stupefacente che si innesta nella teoria della causalità tolkeniana è senz’altro il principio che ad ogni azione buona corrisponde una serie di conseguenze buone, mentre ad ogni azione cattiva corrisponde una serie di conseguenze cattive. Questa è, come si può intuire, una logica conseguenza della concezione morale immanente nel mondo fisico. Sicché c’è una quarta legge della dinamica in cui ad ogni azione, buona o cattiva, corrisponde una reazione buona o cattiva in base alla qualità dell’azione di partenza. Questo principio pervade continuamente la trilogia dell’Anello e ne esporremo qualche esempio:

Il prezzo chiesto da Billy Felci era dodici soldi d’argento, almeno tre volte il valore corrente di un pony da quelle parti. Fu accertato che l’animale era pelle e ossa, denutrito e avvilito: ma non pareva che stesse per morire. Il signor Cactaceo lo pagò personalmente, e offrì a Merry altri diciotto soldi per compensarlo alla meglio degli animali andati persi. Era un uomo onesto, o perlomeno tale era consdierato a Brea: tuttavia trenta soldi d’argento erano un colpo duro da ingoiare, ed esser preso in giro da Billy Felci rendeva il tutto ancora più penoso e sgradevole. Ma a dir vero, a guadagnarci, in fin dei conti, fu proprio lui. Più tardi si accorsero che un solo cavallo era stato effettivamente rubato. Gli altri, allontanati, o scappati per il terrore furono trovati a girovagare in vari angoli della Terra di Brea. (…) Fu così che (…) il signor Cactaceo, il quale si ritrovò con cinque buone bestie pagate bene: perciò nell’insieme si considerarono soddisfatti: avevano evitato un viaggio duro e pericoloso. Ma non giunsero mai a Gran Burrone.[5]

Questo passo è estremamente indicativo sulla questione perché mostra alcune peculiarità importanti del mondo tolkeniano: prima di tutto, Cactaceo ha delle ripercussioni positive per il suo buon atto (esplicitamente! perché Tolkien costruisce l’intera digressione, altrimenti inutile e superflua – cosa che lo rende, infatti, un passo quasi irritante dal punto di vista letterario e non filosofico! – proprio per spiegarci quanto sia valido nel suo mondo il principio di azione e reazione morale). In secondo luogo, che all’assenza di una buona azione, anche se pagata con della fatica, ne consegue una assenza di una buona azione. Gli animali, che si evitano un lungo e pericoloso viaggio, non vedranno uno dei posti più belli e prosperosi della terra, Gran Burrone. Ma altrettanto chiaramente vien esplicitato questo principio nel dialogo più importante del libro, quello tra Gandalf e Frodo al principio de La compagnia dell’Anello, momento in cui vengono espressi molti degli importanti concetti filosofici de Il signore degli Anelli:

“… Al punto in cui è arrivato è certo malvagio e maligno come un Orchetto, e bisogna considerarlo un nemico. Merita la morte.” “Se la merita! E come! Molti tra i vivi meritano la morte. E parecchi che sono morti avrebbero meritato la vita. Sei forse tu in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi: sappi che nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze. Ho poca speranza che Gollum riesca ad essere curato ed a guarire prima di morire. Ma c’è una possibilità. Egli è legato al destino dell’Anello. Il cuore mi dice che prima della fine di questa storia l’aspetta un’ultima parte da recitare, malvagia o benigna che sia; e quando l’ora giungerà, la pietà di Bilbo potrebbe cambiare il corso di molti destini, e soprattutto del tuo”.[6]

Questo passo è il più importante dell’intero libro e mostra pienamente quanto detto.

In fine, ai quattro principi della dinamica delle Terre di mezzo, ne va aggiunto un quinto, vale a dire il principio di simmetria delle cause morali rispetto alle sue conseguenze: ad ogni causa buona o cattiva corrisponde una conseguenza buona o cattiva nella misura in cui lo è la causa. Così, se non vale pienamente il principio di azione e reazione a livello di fisica-non morale, vale questo quinto principio limitativo, rispetto al quarto.

In più, come prima, vale il principio (che espliciteremo dopo) che, per quanto le entità del mondo di Arda siano immerse in una logica stringente di natura fisico/morale, esse, comunque, non possono accedere alla conoscenza di tutti i dettagli del loro destino per poterne prevedere il corso degli eventi. Sicché, anche nelle migliori condizioni, la scienza fisica è di tale natura da non poter essere formalizzata proprio perché ha degli elementi matematicamente irriducibili, o così tali da far pensare ad una loro irriducibilità su base puramente quantizzabile. Ed infatti la saggezza di Gandalf non si sviluppa né in teoremi né in principi deduttivi o empirici di sorta, ma svolge una forma di paternalismo doxastico, laddove egli ha solo delle pure intuizioni e elabora qualche ragionamento che suggella in poche incisive frasi, che elargisce come un padre con i figli. E non è un caso che gli hobbit si irritino spesso con lui per la sua reticenza.

In generale, comunque, le usuali leggi della fisica dovrebbero valere a livello geofisico, mentre non è chiaro il livello astrofisico: ne Il signore degli Anelli non si parla del moto di stelle o pianeti e non è dato capire, ad esempio, se il sole si sposti o se si sposti la terra. Né, ad esempio, c’è alcun essere vivente, per quanto saggio, che conosca interamente la terra di mezzo. Si sa solamente che oltre il mare esista un’altra terra, che sembra avere delle proprietà magiche opposte a quelle della terra di Mordor, laddove tutti gli esseri veramente buoni, per delle ragioni specifiche, hanno diritto di andarci: Frodo, Gandalf, Elrond, Galadriel… Ed è stato detto che tale terra sia oltre l’occidente. Ma non è specificato altro. Non sappiamo, dunque, molto sulla cosmologia tolkeniana, cosa che egli tracciò più compiutamente in altri libri, a quanto pare.

1.3 Il vitalismo tolkeniano e le intelligenze immanenti come conseguenza del mondo morale: la fenomenologia dello spirito secondo Tolkien

Ogni entità o è buona o è cattiva e ha una sua peculiare forma di influenzare le leggi usuali della fisica, assumendo che le leggi psicologiche rispettino e non violino le leggi fisiche. Con queste premesse, si nota immediatamente che le singole cose sono una peculiare forma di vita, nel senso che agiscono in modo da avere una loro peculiare volontà. Quasi tutto del mondo di Tolkien è considerato come se avesse una “vita”, come una spada o un albero e non solo gli Ent, ma proprio gli alberi. Persino la terra ha dei peculiari spiriti che la animano: “Poi all’improvviso capì di essere prigioniero e di non avere scampo: era in un tumulo. Uno Spettro dei Tumuli l’aveva afferrato, soggiogandolo probabilmente con uno di quegli abominevoli sortilegi di cui parlavano le misteriose leggende. Non osava muoversi e rimase lì disteso come si trovava…”[7] Traccia di questo si può trovare anche in un altro passo:

Udivano rumori raccapriccianti nel buio che li circondava. Forse non si trattava che di un gioco del vento tra le fessure e le crepe della parete rocciosa, tuttavia il suono era quello di stridule grida e di selvaggi scoppi di risa. Dei massi rotolarono già dai fianchi del monte, ululando sulle loro teste, sfracellandosi sul sentiero accanto a loro. Di tanto in tanto udivano un brontolio sordo, mentre un grosso macigno precipitava da alture nascoste.

“Non possiamo andar oltre, stanotte”, disse Boromir. “Chi vuole lo chiami pur vento; vi sono nell’aria voci crudeli, e codeste pietre sono dirette contro di noi”.

“Io lo chiamo vento”, disse Aragorn. “Il che non implica però che ciò che dici non sia vero. Vi sono molte cose malefiche ed ostili nel mondo, che nutrono poco amore per coloro che vanno su due gambe e che non sono tuttavia in lega con Sauron poiché hanno i loro propri scopi. Alcune sono sulla terra da più tempo di lui”.

“Il Caradhras era chiamato il Crudele” disse Gimli, “e godeva di una cattiva nomea anni ed anni addietro, quando di Sauron nessun rumore ancora era giunto in queste contrade”.[8]

Ma lo stesso vale per le piante. Ad esempio ne La compagnia dell’Anello la prima foresta è descritta come “cattiva”, con alberi “malvagi”: “Gli alberi a due lati del viottolo si fecero sempre più vicini e i viaggiatori non riuscivano a vedere che pochi passi avanti a sé. Mai come allora sentirono l’ostilità e la cattiveria del bosco concentrate su di loro”[9]; e vengono salvati dal bislacco Tom Bombadil, Merry e Pipino, quando vengono intrappolati da uno strano albero malvagio. Ma la spada di Elendil, quella che mozzò il dito di Sauron con l’Anello, è considerata quasi come se fosse una persona.

Ma più che vitalismo intrinseco, si dovrebbe parlare di una peculiare fenomenologia dello spirito di Tolkien. Se ogni entità della realtà influisce fisicamente a livello morale, se tutte le regioni dello spazio/tempo sono soggette a leggi fisiche e morali, se alcune regioni sono buone e altre cattive e se gli eventi sono buoni o cattivi, allora l’evoluzione del mondo segue un principio di alternanza degli opposti, dove il bene contrasta col male e viceversa. In questo senso, si assiste ad una visione del destino sia del generale che del singolare: ogni cosa ha un suo preciso posto nel mondo e reagisce in base a forze che, in parte, lo sovrastano e impongono un determinato andamento delle cose del mondo. Da qui in poi useremo la lettera maiuscola per distinguere il Destino collettivo, forma di una immanente provvidenza e intelligenza, dal singolo destino individuale.

Ma non siamo in una dimensione di trascendentalismo, non v’è niente del genere nel mondo di Tolkien e ciò è testimoniato da due fatti principali: non v’è religione e nessuna specie ne ha una, e il culto dei morti prevede riti funerari volti a preservare la memoria di colui che è caduto. Dunque, la morte è la distruzione di una peculiare entità fisica alla quale non v’è corrispettivo non-fisico. Se la fisica ha già in sé il principio morale, una volta che un’entità si dissolve si porta con sé la dissoluzione della suddetta proprietà morale. Non si può, dunque, pensare ad un Dio (o, comunque, non si può pensare in base a ciò che compare nel libro, non perché non sia nel mondo di Tolkien logicamente postulabile) né ad una realtà ultraterrena, ma al massimo ad un qualche universo parallelo (il caso di Gandalf).

Sulla base di queste considerazioni si può definire il susseguirsi degli eventi come la risultante di forze fisiche e morali in continuo conflitto vicendevole, dove emerge solo una linea risultante determinata dalle peculiari leggi fisico/morali immanenti nel mondo di Arda (o delle Terre di mezzo). Il Destino, dunque, non pervade solamente gli esseri intenzionali (la gran parte) ma anche gli esseri non intenzionali (come alcuni oggetti), giacché tutte le entità hanno un preciso posto nel mondo e in esso prendono parte attiva alle vicende costitutive della realtà. La presenza del Destino è esplicitamente dichiarata solo in pochi passi, ma tutti sono decisivi: “Dietro a questo incidente vi era un’altra forza in gioco, che il creatore dell’Anello non avrebbe mai sospettata. E’ difficile da spiegarsi, e non saprei essere più chiaro ed esplicito: Bilbo era destinato a trovare l’Anello, e non il suo creatore. In questo caso, anche tu eri destinato ad averlo, il che può essere un pensiero incoraggiante”.[10] Da notare l’uso dei corsivi non nostri, che sottolineano il fatto che vi è una linea perdurante e sottile che è il risultato di forze contrapposte nella quale i singoli si incastrano e si scastrano in base al preciso concatenarsi delle forze in gioco, che li sovrastano.

Bene e male, dunque, interagiscono insieme per delineare una superiore visione di intelligenza che guida tutte le azioni del mondo. Questa intelligenza, però, non è attiva, non interviene dall’alto come la mano di Dio, ma appare più simile alla “mano invisibile”, così ben descritta e considerata dall’economia di Adam Smith: vediamo che l’evolversi degli eventi segue una sua intelligenza, intrinseca alle leggi del mondo, ma la possiamo cogliere solo a posteriori. Gli esseri, dunque, si trovano ciechi di fronte al coglimento dell’intelligenza immanente, a parte alcuni che hanno il dono della preveggenza: Gandalf, Saruman, Aragonr e, alla fine, Frodo. Tolkien, naturalmente, non coglie l’aspetto paradossale di chi legge il futuro senza poterlo influenzare (giacché conoscere l’andamento delle cose future significa retroattivamente causarlo, ma allora si prevede una regressione all’infinito delle previsioni che alternano gli eventi e il futuro altera il passato e viceversa… insomma, un paradosso inaccettabile); ad ogni modo, comunque, coloro che sono in grado di riconoscere i segni di questa intelligenza, frutto dell’interazione di tutti gli elementi fisici/morali in gioco, non sembrano comunque essere in grado di potersi giovare in modo determinante di tali conoscenze, a parte, forse Gandalf e Aragorn. Anche perché ci sono altri che riescono ad avere una versione distorta degli eventi futuri, come Sam quando vede il futuro nell’acqua di Galadriel, o come quando Saruman guarda il Palantir: costoro vedono solo le conseguenze dell’azione del male e ne rimangono soggiogati, ma l’intelligenza non è solo la conseguenza del male, ma pure quella del bene, di modo che essa è sempre il risultato dell’azione di entrambe. E non a caso sia Aragorn che Gandalf non perdono mai speranza proprio perché sanno che sussistono questi due fronti immaginari che si fronteggiano e che generano l’unica realtà finale.

Conseguentemente a questa visione immanente di un destino individuale che è l’espressione di una peculiare intelligenza, possiamo notare, a questo punto, che il mondo non è necessariamente orientato verso il meglio, ma, oltre ad essere irrimediabilmente soggetto a cambiamento (come Sam deve imparare a sue spese), è almeno localmente destinato a migliorare o peggiorare: se la risultante delle forze fisico/morali in contrapposizione è a favore del bene, il bene non può che imporsi, sebbene ciò sia inconoscibile addirittura ai più saggi. Così che è lecito supporre che alla caduta definitiva dell’oscuro signore, eliminate molte delle cose molto malvagie, si passi ad un mondo molto più buono. Ma dato che le cose buone si lasciano corrompere, non è chiaro se il mondo delle Terre di mezzo sia sempre indirizzato al cambiamento verso il meglio. Di certo, a differenza di Hegel, non si può parlare di una progressione dell’immanenza della razionalità nel mondo, prima di tutto perché non c’è niente di intrinsecamente buono che sia necessariamente razionale, in secondo luogo perché la razionalità in sé stessa non è affatto qualcosa di buono. Ad esempio, esistono conoscenze che è bene non conoscere, perché, in quanto fatti morali negativi, possono influenzare in modo nefasto la nostra condotta: Saruman cadrà in questo trAnello, come dice esplicitamente Gandalf. Il fatto è che l’ordine buono sembra solo quello tracciato dal destino, ma non è il risultato di una adozione di condotta razionale, né molto né poco. La razionalità, dunque, è solo una condizione strumentale che non ha in sé un valore positivo, mentre può averlo negativo. In qualche modo la visione della realtà tolkeniana è vicina a una forma di stoicismo ilare, sfrondata della sua componente razionalista, dove l’ilarità sta nel riconoscimento della speranza. Forse, ancora più vicino, sta la visione protestante ribaltata, ribaltata solo perché ciò che c’è di buono è immanente, già parte del mondo e non è fuori di esso.

2. FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO

Ne Il signore degli Anelli sussiste una vera e propria varietà degli usi linguistici, arricchita dagli espedienti etimologici propriamente volti a evidenziare le varie differenze tra le lingua naturali disponibili nelle Terre di mezzo. Ma per apprezzare le differenze negli usi linguistici del mondo di Tolkien sarà bene tenere continuamente a mente quanto detto nel capitolo precedente.

(1) Il linguaggio può denotare fatti, che, nel mondo di Tolkien, sono sempre morali.  (2) Ma con esso si possono fare anche grandi cose, vale a dire che sussiste un suo peculiare uso performartivo. (3) La lingua ha anche una funzione propriamente storica, cioè funge da depositario della memoria popolare, laddove nel mondo di Arda regna la lingua orale sulla scritta e la saggezza dei popoli è conservata mediante leggende e ballate che sono imparate a memoria dalla gente e, se non vengono conservate, sono destinate ad essere obliate (parola ricorrente nella traduzione che abbiamo letto del libro). (4) C’è, poi, un uso del linguaggio propriamente ludico, volto a divertire, sicché la figura del bardo, sia essa pur ricoperta da qualche personaggio specifico (tutti, a turno, sono bardi delle proprie storie o delle storie dei propri popoli), è importante.

Riprenderemo, ora, i vari punti in paragrafi, così da enunciare chiaramente le varie filosofie del linguaggio presenti ne Il signore degli Anelli. Prima di proseguire, stabiliamo che, per convenzione, il linguaggio sotto esame è quello utilizzato dai protagonisti e non dal narratore onnisciente (che pure sembra essere rintracciabile in un uomo della Terra di mezzo, laddove sia nel Prologo che nell’Appendice si forniscono il corpus fittizio di fonti sulla base delle quali viene descritta la storia).

2.1 Il linguaggio dei fatti

La semantica de Il signore degli Anelli segue quella corrente, vale a dire che il significato di un’asserzione dichiarativa sta per un fatto corrispondente. Essa sarà vera o falsa in base alla corrispondenza del fatto. Tenuto fermo il principio di bivalenza (una frase dichiarativa è vera o falsa e non può che essere vera o falsa e non entrambe) e il principio di non contraddizione, si può stabilire che la lingua puramente denotativa, referenziale, del linguaggio adottato rispecchi quelle che sono le usuali convenzioni logico-sintattico-linguistiche. Ci sono due proprietà importanti da sottolineare: innanzi tutto, il linguaggio esprime fatti, che sono caratterizzati da proprietà fisiche e morali, sicché ogni asserzione vera sarà anche giusta. In altre parole, la logica sottostante al linguaggio semantico delle varie lingue di Arda è di natura deontologica, intrinsecamente deontologica. Non per niente i più saggi dicono cose vere e giuste. Inoltre ciò viene mostrato dal fatto che esistono delle lingue con le quali la malvagità si esprime con più chiarezza ed efficienza che con altre e, lo stesso, vale per la bontà. Quando Frodo scopre l’origine dell’Anello vede che nell’Anello stesso ci sono scritte delle lettere in una lingua Elfica (Elfico arcaico) e Gandalf, che pure potrebbe leggerle, si rifiuta: “Le lettere sono Elfiche, scritte alla maniera arcaica, ma la lingua è quella di Mordor, che non voglio però pronunziare qui”.[11] Ma nell’importante ora del consiglio di Elrond, Gandalf, sebbene nel fatato locus amoenus di Gran burrone, dirà:

“…Su questo stesso Anello che hai visto innalzato davanti a te, tondo e disadorno, le lettere riportate da Isildur possono ancora essere lette, se si ha la forza di volontà di mettere l’oggetto d’oro un attimo nel fuoco. Io l’ho fatto, ed ecco cosa vi ho letto:

Ash nazg durbatulùk, ash nazg gimbatul, ash nazg thrakatulùk agh burzum-ishi krimpatul”.

Il cambiamento nella voce dello stregone era stupefacente. Divenne improvvisamente minacciosa, potente, dura come la pietra. Un’ombra parve offuscare l’alto sole, ed il porticato si fece scuro per qualche momento. Tutti tremarono, e gli Elfi si tapparono le orecchie.

“Nessuna voce aveva mai osato pronunciare parole in quella lingua qui a Imladris, Gandalf il Grigio”, disse Elrond, e l’ombra passò e tutti respirarono nuovamente.[12]

Non è un caso che Elrond apostrofi Gandalf, laddove a quelle parole addirittura il sole si oscura.

Merry e Pipino si lamentano spesso del fatto che non sono buoni cantori, anche perché la loro lingua non è avvicinabile a quella Elfica. Al di là dell’aspetto musicale, vi è il fatto che la lingua degli Elfi sembra essere grammaticalmente e semanticamente più idonea a trattare dei fatti buoni e, infatti, i personaggi più importanti e illustri se ne servono in determinate circostanze appropriate, come Aragorn, Gandalf e Legolas. Ma l’esempio migliore rimane l’impiego della lingua Elfica nella tana di Shelob, il grande e terribile ragno (femmina!), senza che né Frodo né Sam avessero la conoscenza di quella lingua. Questo perché, ancora una volta, per denotare delle cose buone, bisogna dirle nella lingua consona. Dunque, l’aspetto metafisico, che vede il mondo dominato da fatti buoni o cattivi, si riverbera anche sul linguaggio e sui suoi usi.

2.2 L’uso performativo del linguaggio di Arda

Con le parole si possono fare grandi cose, come avrebbe detto John Austin e Gandalf il grigio avrebbe sottoscritto (non ce ne voglia Austin per questa sua associazione con Gandalf!). Abbiamo detto e ripetuto che siamo in un mondo morale. Considerando che il linguaggio è un suono, cioè un fatto fisico in questo senso, esso potrà essere usato per compiere delle azioni.

Austin distingueva tre usi distinti del linguaggio performativo: locutorio, illocutorio e perlocutorio. Il linguaggio performativo riguarda l’uso del linguaggio espresso da una persona in prima persona, per mezzo del quale sta compiendo una precisa azione normata da un codice (versione Austiniana) o che, se viene riconosciuta una certa intenzione, il linguaggio diventa operativo, cioè l’espressione di un’azione (Strawson e altri). Quando Frodo dice a Gollum, nel momento che Faramir vuole ucciderlo, che promette di garantire per la sua incolumità (“Suvvia, Sméagle! – disse Frodo. – Devi fidarti di me. Non ti abbandonerò…”[13]), egli sta prestando un giuramento. Gollum non riesce a comprendere fino a che punto Frodo abbia eseguito l’azione di promessa, perché non ne riconosce la purezza delle intenzioni (essendo Gollum ora malvagio ora relativamente buono). Ma lo stesso accade all’inverso, quando Gollum è costretto a giurare sull’Anello (sul suo Tesoro) per garantire sul mantenimento della parola data. Quando Pipino presta giuramento di fronte al sovrintendente Denethor sta compiendo un preciso atto illocutorio, tale per cui al proferimento locutorio del performativo si esegue un atto illocutorio che ha determinati effetti: Pipino diventa un attendente del sovrintendente. Lo stesso accade all’inverso, quando Denethor, investito della sua autorità, scioglie l’obbligo di Pipino nei suoi confronti.

L’uso performativo del linguaggio è pervasivo ne Il signore degli Anelli perché, continuamente, le varie autorità compiono degli atti mediante il linguaggio. Tutto questo rientra nella normalità. Anche noi, quotidianamente, compiamo spesso atti mediante il linguaggio. Ma c’è una peculiare forma di atto illocutorio che viene compiuto dai personaggi de Il signore degli Anelli, che noi non possiamo compiere: la magia.

Una formula magica è un insieme di parole, correlate o meno a un insieme precisa di gesti, che, una volta proferite, determinano un preciso evento fisico: “Finalmente Gandalf stesso diede loro, riluttante, una mano. Prese un fascio e lo tenne un momento alzato, quindi col comando naur an edraith ammen! lo colpì al centro con un’estremità del proprio bastone. Immediatamente si sprigionò una fiamma verde e blu, e la legna avvampò crepitando”.[14] Questo esempio illustra in modo esemplare in cosa consista un atto linguistico illocutorio magico: proferendo una serie di parole con i giusti gesti, sotto la normativa dell’accurato svolgimento di una procedura, si verifica un effetto preciso. L’effetto perlocutorio dell’atto illocutorio ben eseguito è l’accensione del fuoco. Un altro esempio di atto illocutorio magico è il seguente:

Si avvicinò [Gandalf] nuovamente alla rupe, e toccando leggermente col bastone la stella d’argento che brillava in centro sotto il segno dell’incudine, disse con tono di comando

Annon edhellen, edro hi ammen!

Fennas nogothrim, lasto begh lammen!

Le linee d’argento svanirono, ma la nuda e grigia roccia non si mosse.[15]

In questo caso assistiamo a un fallimento dell’atto comunicativo, laddove l’atto illocutorio magico non funziona per via dell’infrazione del buono svolgimento della procedura. Manca qualcosa perché l’atto diventi operativo. Osserviamo, dunque, che la filosofia degli atti linguistici in Tolkien prevede entrambe le posizioni, vale a dire quella che pensa agli atti linguistici come legati ad una precisa procedura, indipendentemente dalle intenzioni degli attori comunicativi (come avrebbe tendenzialmente preferito John Austin); ma pure quella che ritiene predominante l’aspetto delle intenzioni sull’esecuzione degli atti linguistici rispetto alla procedura (Strawson e Searle in particolare). In Tolkien entrambi gli aspetti sono presenti e nessuno dei due predomina sull’altro.

Data la natura del mondo di Tolkien, ci sono magie buone o cattive, che avranno degli effetti buoni o cattivi. In realtà, le formule magiche usate ne Il signore degli Anelli sono meno di quanto uno si aspetterebbe da un libro fantasy, anche perché i portatori degli Anelli del potere buoni hanno compiuto un giuramento in cui si autovincolavano  a non usare la propria forza contro quelle di Mordor, per evitare che essi stessi cadessero nella tentazione di diventare degli oscuri signori, anche se al principio avessero usato la propria forza a fin di bene (si ricordi sempre che Tolkien considera molto ambiguo un potere supremo). Ad ogni modo, comunque, le magie vengono eseguite mediante l’apporto di un linguaggio.

Una formula magica è, dunque, un atto illocutorio con precisi effetti perlocutori, atto illocutorio che presuppone che la formula sia eseguita correttamente, indipendentemente dalla recezione di essa da parte delle altre persone. Emblematica è la scena in cui viene conquistato Isengard e Saruman cerca di incantare Gandalf, Theoden e gli altri. In questo caso si assiste chiaramente ad una lotta tra un incantatore e i suoi avversari. Come per emettere un verdetto bisogna essere un giudice, così per effettuare magie bisogna essere degli stregoni. In quel momento, Saruman stava perdendo definitivamente la sua potenza, sicché le sue parole sortivano l’effetto solo parzialmente, così, sebbene egli compisse degli atti illocutori, che potremmo chiamare “incantativi”, ciò nonostante essi fallivano nel sortire i corretti effetti perlocutori (l’incantamento dei suoi avversari).

2.3 La lingua come depositario della memoria storica

Ne Il signore degli Anelli sembra regnare una naturale diffidenza nei confronti della lingua scritta. Testimonianza può essere il fatto che le parole marchiate da Mordor sull’Anello del potere sono tra le poche scritte riportate da Tolkien. Si parla anche di libri di storia, come il libro rosso, scritto da Bilbo e da Frodo. Anche Gandalf si reca a Minas Tirith per leggere alcune importanti carte contenute nelle biblioteche, per scoprire importanti informazioni sull’Anello. Ma i libri fanno raramente capolino nel testo.

Quasi tutte le informazioni davvero importanti non sono conservate nella carta o su delle steli, esse sono ricordate mediante ballate e canti, come più volte viene detto sia in termini positivi che negativi: se non si dispone di alcuna canzone o ballata, la memoria di qualcosa è andata irrimediabilmente perduta: “-E’ vero- disse Legolas. Ma gli Elfi di questa terra erano di una razza estranea a noi, gente silvana, e gli alberi e l’erba non li rammentano. Solo odo le pietre rimpiangerli: In noi profondo scavarono, con arte ci lavorarono, in alto ci elevarono: ma più non sono qui. Non sono più qui. Da molto tempo ormai fuggirono ai Rifugi Oscuri”.[16]

Non per niente i più saggi sono anche quelli che inventano nuove ballate e nuove storie, a beneficio di chi le dovrà mandare giù a memoria: Gandalf e Aragorn, più di tutti gli altri, sono esperti conoscitori delle antiche storie e ne inventano, di quando in quando, qualcuna. Ma anche Bilbo, la cui abilità nel creare storie e ballate si avvicina senza raggiungere a quella Elfica, è un personaggio considerato molto saggio, specialmente dagli hobbit, proprio per tali abilità.

Inoltre è interessante notare come il mondo delle Terre di mezzo sia dominato da specialisti di alcune specifiche arti il cui sapere si tramanda per linea familiare diretta, salvo rari casi. I Nani sono esperti nell’arte della lavorazione della pietra, dei metalli e dei monili, specialmente se composti da metalli preziosi; gli Elfi sono abili tessitori, capaci di grande perizia in tutto ciò che richiede una precisa abilità manuale; gli hobbit sono bravi giardinieri e contadini; gli uomini, invece, possono essere esperti un po’ di tutto, senza raggiungere alcun vertice se non, forse, nelle arti magiche: i più abili stregoni, venuti in tempi immemorabili (tanto che non si conservano storie o ballate su di loro) dall’est sono esseri umani, come Gandalf e Saruman. Congiuntamente alle cognizioni specifiche per i singoli mestieri, anche il lavoro si trasmette per linea familiare diretta, laddove, d’altra parte, si suppone che la saggezza si tramandi per linea biologica, giacché un padre buono lo è per delle doti fisiche che si trasmettono alla prole, sicché la loro crescita sarà volta a sviluppare quelle qualità morali già presenti nel fisico, in modo da dare alla progenie le stesse qualità che sono state così accuratamente preservate dalla filiazione.

Non è un caso, infatti, che si dispensino continuamente giudizi sulle qualità di una persona in base alla famiglia di appartenenza, come si usava fare nei tempi preindustriali anche in Occidente, laddove addirittura David Hume motivava questa ragione sulla base della correlazione più immediata tra le idee della famiglia e con quelle relative membro di appartenenza, sicché, pur in assenza di una relazione più forte, molte proprietà venivano associate naturalmente. Ma nel mondo di Tolkien questo principio si trasforma quasi in una legge di natura biologica, laddove, come abbiamo visto, v’è una legge di conservazione della natura morale dei fatti basilari, sicché da due buoni genitori non può che scaturire una buona progenie, indipendentemente dalle peculiarità della progenie stessa.

Le conoscenze si trasmettono oralmente e, specialmente, quelle relative alla storia del popolo. E il popolo colto apprende numerose storie e ballate sul proprio conto, tutte apprese per via orale. La lingua orale, dunque, regna sovrana nel mondo di Arda e, anche per questo, si fa molta cura alla tutela dell’uso della lingua, così da non renderla spuria. In questo senso, sebbene quasi tutte le razze abbiano una lingua propria, tanto più utilizzata quanto la singola razza è avulsa dalle altre (come gli Elfi e i Nani e meno le altre), tuttavia si è resa necessaria l’adozione di una lingua interculturale, simile all’antico latino o all’attuale inglese, il “comune”. Questa lingua è utilizzata soprattutto in sede di scambio comunicativo o informativo, ma per le vecchie storie (si vedano gli Ent o gli Elfi) si preferisce usare la propria lingua, anche perché essa è più adatta a trasmettere i fatti relativi alla propria gente e le traduzioni vengono definite “infedeli”, giacché non tutto che può dirsi di buono in una lingua può tradursi nella corrente.

Va notata la preminenza della storia, come narrazione di fatti, all’interno delle Terre di mezzo. Questa importanza non va sottovalutata. A prescindere dal fatto che l’autore, Tolkien, fu uno dei più insigni studiosi di storia antica e medioevale e che fu un esperto conoscitore della lingua inglese e delle lingue europee arcaiche, ciò che ci interessa qui è rilevare l’importanza della funzione della storia nel mondo di Tolkien. La storia, dunque, è testimonianza delle azioni di un popolo, ma vale anche come giustificazione morale della sua esistenza. Se, come abbiamo continuamente ribadito, i fatti del mondo di Tolkien hanno sempre una componente morale intrinseca, se ciò, come visto, vale all’interno del contesto biologico-generativo, allora la storia ha la funzione di evidenziare se un popolo è buono o cattivo, in base al fatto che la storia degli effetti di un popolo, se è buona, indica che il popolo è intrinsecamente buono, viceversa non lo è. D’altra parte, infatti, i traditori non sconfessano la storia del loro popolo, giacché si separano dalla loro comunità come esseri devianti (Saruman per tutti). In questo senso, la storia è sia descrizione di fatti antichi, sia giustificazione stessa di un popolo di fronte agli altri. Ma non solo.

La storia, come narrazione dei fatti antichi, è l’unica conoscenza che deve essere coltivata perché tanto più si scava nel passato e tanto più si rivedono i fatti antichi che non sono stati corrotti dalla commistione del bene col male. Tanto più si va a ritroso nel tempo e tanto più il bene era tanto maggiore, così come il male. Il tempo, infatti, ha disperso molto del male, ma esso ha contaminato molto del mondo buono, sicché solo andando al principio si ritrova tutto nella sua perfetta purezza. Così, ad esempio, le leggende sulla venuta degli Elfi o del capostipite dei Nani mostrano come la realtà arcaica fosse più pura e, in un certo senso, più incontaminata.

E’ da questi elementi di sottofondo (biologismo, preservazione pura delle specie, assenza di una morale sovrastante ma immanente al mondo, la storia come giustificazione delle azioni di un popolo) che sorge lo spirito conservatore di Tolkien, che ricorda molto certi aspetti del pensiero nietzschiano. La storia non è vista come l’eterno ritorno dell’identico, in superficie, ma lo è nel profondo: la lotta del bene contro il male ripercorre sempre il medesimo processo, pur mutando sempre di forma. Allo stesso modo, per questo continuo mutamento delle forme esteriori e contaminazione reciproca dei fatti morali buoni e cattivi, emerge l’idea che le cose all’origine fossero migliori. Anche Tolkien ama la natura perfetta e pura dei grandi eroi, che portano avanti le loro rispettive forze e, come vedremo, ciò vale tanto più all’interno della concezione tolkeniana della morale; ma qui non si può non evidenziare il vitalismo fiero della figura dell’eroe che ha il compito di guidare la plebaglia, interpretata come libera, se buona, o schiava, se cattiva. Non si dimentichi, infatti, che tutti coloro che si recano al cancello di Mordor sono volontari, mentre gli eserciti di Sauron sono schiavi.

La principale differenza tra Nietzsche e Tolkien, a questo riguardo, è che per il primo non esistono descrizioni privilegiate degli eventi reali, ma solo dei discorsi linguistici impossibili da ordinare in una scala gerarchica di attendibilità. Vale a dire, che per Nietzsche, ogni descrizione della realtà è solo una possibile interpretazione di essa e non l’unica possibile, compresa quelle stesse analisi sulla realtà che egli fornisce non sono da considerarsi privilegiate rispetto alle altre. Per Tolkien le cose stanno in modo decisamente diverso. Non soltanto esiste una possibile descrizione di ogni evento fisico, ma tale descrizione, se vera, è anche buona, sicché essa è sia l’espressione della verità immanente alle cose, sia l’esplicitazione, a livello morale, di ciò che è giusto fare e di ciò che va fatto. Niente di più lontano dall’acosmismo epistemico/descrittivo di Nietzsche!

  

2.4 L’uso ludico del linguaggio

La filosofia del linguaggio di stampo analitico, cioè il paradigma dominante, offre una gigantesca impalcatura di natura semantica, investigando i problemi della definizione dei termini semantici fondamentali (senso, denotazione e verità). Ma essa fallisce molto spesso nel riuscire ad offrire una descrizione e qualificazione del linguaggio ordinario e, per questo, la pragmatica analitica (da Grice e i neogriceani, alla teoria degli atti linguistici da Austin in poi) ha fatto molto per chiarificare i termini fondamentali della comunicazione (intenzione, implicito, esplicito, atto linguistico). Ma su un punto sia la semantica che la pragmatica si trovano concordi: comunicare significa scambiare informazioni, comunicare credenze, asserire enunciati veri o falsi. Eppure tutto questo sembra ignorare un uso fondamentale del linguaggio: il divertimento.

Sarebbe inutile, in questa sede, difendere questo ulteriore genere di approccio al linguaggio, ma è indispensabile notare che la logica del linguaggio ludico sfrutta sia i significati e le aspettative su di essi da parte del parlante e ricevente, sia le aspettative su quanto verrà compreso dal parlante e dal ricevente. In altri termini, il linguaggio ludico si fa beffe tanto degli aspetti propriamente semantici sia di quelli comunicativi, se volti alla diffusione di credenze. I giochi di parole, le barzellette sono espedienti che fanno leva, chiaramente, sulla semantica e sulle aspettative dell’uditore, ma non hanno alcun significato (talvolta, i nonsense) e non hanno interesse a comunicare credenze vere. Ad esempio:

(a) Cosa fa un gallo in acqua?

(b) Non so. Beve?

(a) Galleggia.

E’ evidente che, qui, non si vuole comunicare né l’idea che un gallo faccia qualcosa di particolare nell’acqua. Ed è addirittura irrilevante stabilire se il gallo galleggi oppure no. Il gioco di parole sfrutta l’assonanza tra le parole e i significati, cioè i termini “gallo” e “galleggiare” hanno una radice comune nel suono, ma non nel significato e il gioco sfrutta proprio questo fatto. Il divertimento nasce proprio dalla costruzione del nonsense.

Ne Il signore degli Anelli non compaiono nonsense, ma il linguaggio è continuamente sfruttato allo scopo di fornire un sano divertimento ai protagonisti. Essi cantano, raccontano storie buffe e divertenti non per sapere qualcosa ma come scopo diversivo. D’altra parte, basta essere entrati in un bar di qualche paese in cui gli anziani non erano persone abituate alla televisione (che fa proprio l’uso e abuso del linguaggio come strumento di divertimento) per ascoltare le loro chiacchiere e venire a scoprire che parlano quasi a vanvera, ma non senza scopo. All’interno de Il signore degli Anelli l’assenza di strumenti adatti al divertimento rende il linguaggio uno dei pochi mezzi in grado di distrarre i protagonisti dai problemi a cui sono continuamente soggetti, vista la dimensione drammatica delle loro vicende.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

2 Comments

  1. Master Etilico Master Etilico 30 Dicembre, 2020

    Articolo molto interessante, ho avuto un enorme piacere nel leggerlo anche se non sono ferrato in filosifia.

    • Redazione Redazione 31 Dicembre, 2020

      Gentilissimo,

      Grazie per questo commento che chiude i commenti di quest’anno. Un saluto!

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