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Categoria: Filosofia Applicata

1. La moda come sistema complesso: normatività, prescrizione e descrizione

Cathleen Naundorf, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

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Consigliamo Leggere il linguaggio della moda


La moda si configura come insieme di imperativi. Ad esempio, la prescrizione ‘usa i jeans slavati’ indica come ci si deve vestire, ma anche come giudicare il vestito degli altri. Sicché la moda è, tipicamente, un esempio di disciplina ambigua, in cui la prescrizione e la qualificazione seguono dallo stesso tipo di precetto. Ovvero, la formulazione della regola consente tanto la valutazione quanto la prescrizione. E non è un caso, infatti, che alcuni percepiscano la moda sia come una (imposizione) morale che come un sistema precetti pratici.

La descrizione nella moda, invece, è tipicamente l’identificazione di un modello che è anche un oggetto specifico: lo specifico capo di vestiario mostrato nella rivista non solo è un oggetto particolare, ma è anche il ‘modello’ di un concetto astratto di modo di vestire. Classicamente si considera il problema della rappresentazione di sé come qualcosa di codificato mediante regole che sono sia normative (sanciscono qualità) sia prescrittive (ti dicono cosa fare e come farlo).

Leggere il linguaggio della moda (P1)

Cathleen Naundorf, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

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Consigliamo Leggere il linguaggio della moda


Introduzione e premesse

Fissiamo subito alcune premesse di questa analisi Leggere il linguaggio della moda: (a) essa ha una utilità prettamente descrittiva, non si impegna in una disamina morale di quanto viene analizzato ed ha, così, uno scopo puramente scientifico. Questa postilla e premessa generale ci scongiurerà da considerazioni eventuali di natura morale. Va detto che ciò che rientra nell’esibizione è un contenuto moralmente carico e passibile di una indagine morale, come implicitamente si può evincere da alcuni richiami kantiani. Ma non era questo il nostro scopo, perché su questo io penso che ciascuno debba essere libero di farsi una sua opinione. A condizione che, appunto, se ne faccia una.

Trash! – Una guida filosofica all’incategorizzabile

Trash

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Una delle attività più diffuse nell’era dei social, di internet e dei media della rete è la condivisione, diffusione e produzione di materiali comunemente qualificati come “trash”. Si intende, che senza gli spettatori, la produzione di simili materiali sarebbe ipso facto inutile. A differenza di un quadro di Goya, di un film di Orson Wells, che hanno un valore intrinseco, estetico, inestimabile, la categoria del trash ha senso solamente se c’è qualcuno che la guarda. E’ lo spettatore che conferisce in modo significativo la qualifica di “trash” a qualcosa. Su questo ci torneremo.

Prima di cominciare, vorrei chiarire il fatto che questo è uno studio filosofico, una analisi scientifica che non vuole prendere parte alla questione morale. E come tale, dunque, rifiuta ogni sua categorizzazione in tal senso. Sicché il lettore è avvisato: non troverà giudizi di valore e l’autore non si sente impegnato a dover eventualmente difendersi in tal senso, come si conviene ad una spassionata analisi filosofica.

Case di studenti – Tra autarchia e anarchia

© Scuola Filosofica

A Emilio, Matteo, Luca

e tutti gli altri miei coinquilini

che, in tutti questi anni,

hanno arricchito la mia vita,

al di là di ogni rottura di palle!

Preambolo

Dopo dieci anni di vita in affitto nei posti più diversi, posso dire di avere una certa cultura sulla natura delle case di studenti. O, per meglio dire, di una loro componente che spesso sfugge ad ogni logica di razionalizzazione, nel senso che in pochi dedicano studi e interesse a tale argomento che investe, invece, una enorme quantità di giovani. Vale a dire la codifica o, almeno, la disamina critica dei regolamenti che rendono possibili (o impossibili) le più elementari forme di convivenza tra perfetti estranei. Infatti, sia detto chiaramente, che non essendoci alcun legame di “classe”, laddove gli studenti sono tipicamente una compagine eterogenea ben difficilmente unita da interessi collettivi (a parte, e non sempre, la volontà di rompere la solitudine con feste e divertimenti di varia natura), se ne può concludere che la vita nelle case di studenti sia resa possibile dall’autoregolamentazione delle parti in causa.

Infatti, gli studenti non costituiscono una “classe” analoga agli operai o agli insegnanti. In primo luogo perché non hanno diritti comuni da difendere (nonostante le apparenze) perché le differenze istituzionali e pratiche tra discipline e corsi di studio rende ciò implausibile. In secondo luogo perché non hanno scopi condivisi, nella misura in cui tutti devono laurearsi, cioè hanno un obiettivo personale e individualizzato, che non prevede per la sua riuscita la presenza di terzi (almeno non in senso stretto). In terzo luogo le differenze di età e di interessi rendono la compagine studentesca quanto mai sfuggente ed aleatoria, ben difficile da riassumere in unico movimento, almeno in questo momento di assenza di ideologie dominanti al di fuori del mondo studentesco. In quarto luogo, e ben più importante, gli studenti non sono ancora una forza lavoro, sicché non sono che un’appendice del vero potere, costituito dai soldi, ovvero dallo stipendio dei genitori. In assenza di un contratto lavorativo, in assenza di scambio di forza lavoro per un compenso, non c’è un diritto che debba venire difeso, fatto salvo il diritto allo studio. Inoltre, gli interessi degli studenti sono genericamente tre: studiare, avere un compagno/compagna, divertirsi nel tempo libero. Nonostante le apparenze, si tratta di tre obiettivi comuni, sì, ma quanto mai individuali. Una volta che si trova la compagna, una volta che l’elemento diversivo diminuisce di interesse, rimane ben poco altro che si può condividere di per sé, in quanto appartenenza di classe.

Zombie e fantasmi – Due figure complementari

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Scopria anche Il vampiro: un’analisi filosofica


Ispirato da una proficua discussione con Francesco Marigo, mio caro amico, vorrei proseguire la strada intrapresa da Il vampiro: un’analisi filosofica con una analisi sugli zombie. Innanzi tutto, gli zombie potrebbero essere ispirati ad alla religione voodoo, ma quelli a cui mi riferirò io sono gli zombie concepiti dalla cultura popolare dei film. Come anche i vampiri, gli zombie sono delle figure che non mi hanno mai detto niente, sicché, rifiutando di pensare che il loro successo sia dovuto alla superficialità della gente, sempre invocata per spiegare qualcosa che non si capisce, tento di comprenderne il significato. Anche perché pure la superficialità ha le sue ragioni e la sua logica, sicché spiegare un fenomeno invocando la superficialità non aggiunge molto alle nostre conoscenze, semmai sposta il problema e addirittura lo complica.

Prima di iniziare vale la pena dire che, a differenza del vampiro, gli zombie sono considerati un autorevole problema filosofico a tal punto che la Stanford Encyclopedia of Philosophy, una delle sovrane fonti filosofiche analitiche e non solo del nostro evo, dedica una intera pagina alla questione. Infatti, prima di tutto ci si può domandare se gli zombie siano possibili, se la loro esistenza sia compatibile con il nostro mondo o se siano impossibili. In secondo luogo essi possono essere utilizzati in esperimenti mentali, ovvero scenari ipotetici in cui si testano le teorie filosofiche: la letteratura epistemologica (dai problemi di Gettier allo scetticismo) e la filosofia della mente (celebri i casi della terra gemella o proprio degli zombie) sono costitutivamente indirizzate da simili scenari immaginari. Gli zombie sono spesso invocati per i problemi legati alla relazione mente/corpo nella theory of mind and consciousness. Detto questo, io mi concentrerò esclusivamente sulla figura simbolica dello zombie, così come ci viene presentata dalla cultura popolare. Per i più interessati alle altre vicende, rimando all’autorevole voce della Stanford sugli zombie.

Il vampiro – Un’analisi filosofica

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Forse qualcuno di voi si è chiesto il motivo per cui i vampiri piacciono tanto. Almeno, a me questa domanda è balenata per la testa più di una volta. Infatti a me i vampiri non dicono assolutamente niente. Non li trovo né belli né brutti, né affascinanti né repellenti. Non mi sembrano neppure una stramberia. Semplicemente li ignoro.

Naturalmente mi sono imbattuto nella visione di più di un film o narrativa che, in modo diretto o indiretto, considerava la figura del vampiro. Ma il mio problema non era capire in sé cosa fosse il vampiro, ma comprendere perché i vampiri piacciono tanto. E sin dalle origini, sin dai lavori di Bram Stoker e dell’eccezionale Nosferatu il vampiro di Murnau, il vampiro si è imposto subito all’attenzione del pubblico. Ci deve essere un motivo per questo. O, come sempre, una serie di motivi.

Intanto il vampiro evoca una atmosfera gotica, di mistero e di antico, che può affascinare. Infatti, il vampiro (un essere di fantasia) ha un forte legame con il passato oscuro, quasi sempre del medioevo, in cui le immagini dell’immaginario sono spesso di morte e di dominio dell’occulto. Il fascino per i poteri misteriosi congiunti al male hanno sempre interessato le persone, perché rivedono un aspetto della loro realtà che li domina ma li vorrebbe vedere dominatori: essi si sentono schiavi della tecnologia, che non capiscono (quanti sono in grado di spiegare il funzionamento di uno smartphone o del computer, strumenti ormai indispensabili? Ma anche quanti sono in grado di spiegare il funzionamento della caffettiera?), ma allo stesso tempo vorrebbero essere i depositari di quel sapere che la tecnologia dispone e dischiude. Quindi il fascino goticheggiante avvolge il vampiro e lo rende comprensibile alla luce della società ad alto impatto tecnologico che, però, ignora i fondamenti naturali di quello stesso sapere. Il vampiro conserva il fascino del potere che non può essere dominato.

Gli Scacchi in Paradiso

[Nota dell’autore. Originariamente l’articolo costituiva il terzo dei miei commenti all’articolo Gli scacchi come fenomeno culturale: perché gli scacchi hanno avuto da dire nella storia dell’Occidente (11 Maggio 2014) di Giangiuseppe Pili; è stata sua l’idea di trasformarlo nel mio primo articolo in ScuolaFilosofica. Esso è stato rielaborato il 1° Maggio 2020 (Festa di San Giuseppe artigiano, Patrono dei lavoratori), con una leggera modifica del titolo.]

E poi che le parole sue restaro,
non altrimenti ferro disfavilla
che bolle, come i cerchi sfavillaro.
L’incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che ’l numero loro
più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla.
Io sentiva osannar di coro in coro
al punto fisso che li tiene a li ubi,
e terrà sempre, ne’ quai sempre fuoro.

(Divina Commedia, Paradiso XXVIII 88-96)

 

 

Dante e Beatrice si trovano nel cielo Cristallino (o Primo Mobile), sede dei nove cori angelici. Beatrice ha appena fugato i dubbi di Dante sulla struttura e la dinamica dei cerchi concentrici fiammeggianti (che ospitano i cori) e ruotanti intorno a quello che sembra essere il loro centro comune – il quale, in realtà, li contiene [Paradiso XXX 10-12] –, un punto luminosissimo corrispondente a Dio.

How can Epistemology improve Intelligence Analysis?

Jared Tarbell, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons

What enables the wise sovereign and the good general to strike and conquer, and achieve things beyond the reach of ordinary men, is foreknowledge.

Sun Tzu, Art of War, VI bc.

Intelligence agencies deals everyday with a massive amount of information collected by different gathering methods and they have to process them in order to produce assessments, reports and briefs for politicians and decision-makers. This is a real challenge, given the limited time, the huge quantity of data they have to go through and the imprecise and incomplete nature of these data. This intellectual challenge is the task of intelligence analysis, that stage of the process that has to “make sense” out of all this information received at the agencies’ headquarters. Both the institutional and the academic world have been concerned with issues about intelligence analysis, as it seems to be one of the most critical parts of intelligence: it is here that raw information are transformed and politicians receive the materials on which decide from here. Thus everyone would like to improve intelligence analysis as much as possible and many articles and books have developed and offered techniques and tools to reduce analysts’ errors while increasing their analytical ability.

Sulle limitazioni delle adozioni

Voglio presentare un semplice argomento che ho costruito dibattendo con altri amici. Non mi impegno a sostenere che sia la mia opinione né immagino che la mia opinione interessi a nessuno. Sicché non mi prenderò la briga di accettare critiche inutili, faziose o capziose in tal senso. Si tratta di un dilemma filosoficamente interessante e ne propongo solo un’analisi rapida. Inoltre l’obiettivo è stimolare il ragionamento del lettore, dato che il mio fu a suo tempo già solleticato in materia e quindi offro solo la linea argomentativa senza entrare né nel merito politico né in quello morale.

(1) I bambini che possono essere adottati hanno condizioni di vita tale che la loro esistenza può risultarne seriamente compromessa oppure il loro inserimento in società è altamente difficoltoso.

(2) Salvare la vita di un bambino o dargli l’opportunità di vivere felicemente in società sono valori intrinseci.

(3) Una coppia che voglia adottare un bambino nel peggiore dei casi non migliora la vita del bambino, già di per sé compromessa.