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La forma – Il quarto capitolo de L’Arte della Guerra

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L’arte della guerra si basa sull’inganno e sulla capacità di sfruttare gli errori del nemico, perché l’errore implica la presenza della debolezza da sfruttare. La possibilità di non perdere dipende dalle nostre sole forze, mentre la vittoria dipendente congiuntamente dalla nostra capacità e dalla debolezza dell’avversario. La difesa è in vantaggio sull’attacco perché può essere inattaccabile mentre l’attacco è costretto a prendersi dei rischi per attaccare. Prendersi dei rischi significa concedere debolezze e avere debolezze significa esser caduti in fallo, così che l’attacco ha molte più probabilità di sbagliare che non la difesa, per questo “Se ti difendi sei più forte, se attacchi sei più debole”. La vera abilità consiste nel vincere chi si può battere facilmente e la vera abilità non è vincere cento battaglie: la suprema arte sta nell’abbattere un nemico già sconfitto. Il metodo della forma consiste di cinque condizioni: calcolare la lunghezza,  calcolare il volume, calcolare il numero degli elementi coinvolti, confrontare le parti e raggiungere la vittoria. Il territorio genera la lunghezza, la lunghezza il calcolo, il calcolo il confronto, il confronto la vittoria. Così si può concludere che “l’operazione militare vittoriosa è come cento grammi contrapposte a una piuma”.

La forma è l’insieme di proprietà degli elementi del conflitto la cui conoscenza è indispensabile per raggiungere la vittoria. Vien subito detto che la vittoria non dipende esclusivamente da noi, ma è in funzione congiunta sia della nostra abilità e dall’errore del nemico: “In passato, i generali esperti si rendevano invincibili e attendevano che il nemico commettesse degli errori”.[1] La possibilità di vittoria consiste nella duplice condizione di imbattibilità (arte della difesa) e di capacità offensiva sulla debolezza (arte dell’attacco): “L’invincibilità dipende da noi. La vulnerabilità del nemico dipende dai suoi sbagli. Così i generali esperti sanno rendersi invincibili, anche se non possono provocare la vulnerabilità del nemico”.[2] Questa è una logica conseguenza di quanto affermato prima: se il nemico è abile, sarà privo di debolezze e aspetterà a sua volta la debolezza dell’avversario. In questo caso, l’abilità sta nel non cedere e muovere per primi verso il nemico, creando, così, delle debolezze che possono essere proficuamente sfruttate.

Ma senza errore, il nemico è senza debolezze e, per ciò, è imbattibile perché non si realizza la condizione necessaria per cui la tua forza possa irrompere come un muro d’acqua contro un castello di sabbia: “Per ciò vale il detto: «Si può sapere come vincere, senza necessariamente vincere»”.[3] Questo è un principio che mostra due assunti distinti: (1) la conoscenza pura non è condizione di vittoria, bisogna sapere anche come sfruttarla (know-how relazionato al know-what); (2) la conoscenza non è ancora sufficiente, laddove rimane aperta la possibilità che il nemico sia imbattibile in quel momento. Dunque, conoscere è indispensabile per vincere, ma non è sufficiente. La propria invulnerabilità dipende dalla propria capacità di non avere punti deboli e di non mostrarli, se ci sono. Così è possibile saper vincere senza necessariamente vincere. In particolare, l’arte della difesa e del saper attendere il momento propizio sono le due virtù cardine dell’azione militare virtuosa: “L’invincibilità sta nella difesa. La vulnerabilità sta nell’attacco. Se ti difendi sei più forte, se attacchi sei più debole”.[4] Il passo si rivolge all’obbiettivo supremo dell’arte militare: vinci mantenendo intatto il nemico, senza inutile dispersione di tempo ed energia.

Attaccare significa esporre le proprie truppe al fuoco nemico, giacché ogni spostamento comporta una dilatazione delle proprie forze e la disponibilità di nuove imboscate e debolezze. Un esempio è quello della colonna di carri armati: essi sono vulnerabili quando si muovono in linea retta, ma sono fortissimi quando si piazzano in modo da non scoprire i fianchi: i cingoli sono i punti deboli del carro e, non per niente, i carri armati della serie M1 Abrams, in dotazione dell’esercito degli Stati Uniti, sono protetti da una corazza di Kevlar e, recentemente, di uranio impoverito pari a 590mm di acciaio proprio per compensare l’intrinseca debolezza, mai eliminabile del tutto.[5] Non per nulla gli opliti marciavano in modo da coprirsi i fianchi vicendevolmente e così le testuggini romane potevano avanzare senza scoprirsi: minimizzavano i rischi della marcia verso il nemico. Inoltre, l’attacco non solo implica la creazione di nuove debolezze, ma implica pure la necessità di distruggere i beni del nemico. Si prenda il famoso sacco di Magdeburgo nella guerra dei trent’anni: gli eserciti imperiali distrussero intera una città, la più ricca della regione. Consideriamo i nefasti risultati dell’avanzata dell’armata rossa: distruzione, stupri e morte. Tutto questo è uno spreco per chiunque abbia a cuore la massimizzazione del vantaggio, indipendentemente dal fatto che uccidere e stuprare possa essere giusto o sbagliato. Sun Tzu non vuole insegnarci se sia giusto o sbagliato distruggere, ci vuole soltanto mostrare quanto sia stupido, se siamo egoisti, cioè se intendiamo massimizzare la nostra utilità. Parafrasando la situazione in un discorso economico, sarebbe come investire 100 euro per acquistare un oggetto rotto o un debito. Non ha senso.

L’abilità suprema dell’arte della guerra è la capacità di battere un nemico già battuto, risultato della creazione delle condizioni di vittoria e dell’accumulo del vantaggio così da giungere al risultato nel modo più virtuoso. Questo è un punto particolarmente importante, così che solo Sun Tzu stesso può aiutarci a comprendere il punto:

Non è abile chi prevede una vittoria che chiunque potrebbe conseguire.

Vincere in una battaglia universalmente considerata difficile non è vera abilità,

Allo stesso modo in cui staccare un capello che cade d’autunno non significa avere molta forza.

Riuscire a vedere il sole e la luna non significa avere una vista acuta.

Riuscire a sentire il tuono non significa avere un udito fine.

La vera abilità consiste nel vincere chi si può battere facilmente.

Così le battaglie degli esperti si risolvono senza vittorie straordinarie, senza acquisire grande fama derivante dalla propria saggezza e dal proprio coraggio.[6]

Questi principi sono di straordinario impatto psicologico e razionale, essi mostrano tutta la capacità didattica e la profondità di pensiero di Sun Tzu. In questo passo vengono puntualizzate due importanti proprietà. Innanzi tutto, che l’abilità suprema non consiste nel conseguire risultati straordinari, ma nel vincere chi è facile da battere. In un certo senso, Napoleone viola palesemente questo principio: egli era un abile generale, ma non riuscì a trovare il sistema per vincere senza combattere, senza dissipare le proprie energie. Questo comportò che, alla lunga, dovette cercare di forzare il blocco commerciale impostogli dalla Russia e dall’Inghilterra congiuntamente e, alla fine, per questo fu costretto alla sconfitta. In guerra si vince silenziosamente. Giulio Cesare si limitò a pochissime battaglie campali in Gallia (tre, di cui l’unica rimasta celebre è quella di Alesia contro Vercingetorige) e se diventò famoso è proprio perché, alla fine, riuscì in un’impresa che appariva straordinaria proprio per l’assenza di cospicui spargimenti di sangue. Prendiamo, invece, il caso della guerra contro Giugurta: essa venne combattuta con un estremo spargimento di sangue e distruzione, il risultato di un approccio estremamente negativo alla guerra. Nonostante ciò, Mario conquistò grande notorietà e fama e, non per niente, Sallustio, nonostante fosse appartenente al partito popolare (pur essendo un moderato conservatore nell’animo), non dipinge Mario come una grande figura ma come un uomo vinto dalla voglia di essere celebre.

Per vincere è necessario operare prima, giungere prima nel “campo di battaglia”. La battaglia deve essere solo il terminale di un lavoro cospicuo nel quale si sono già realizzate le condizioni per vincere. Se non si è lavorato prima per creare le condizioni necessarie alla vittoria, si giunge rapidamente alla sconfitta oppure si rischia nella lotta di vanificare quanto fatto (in uno scontro di pari possibilità). Per questo, lavorare prima e capitalizzare dopo sono le sole due possibilità sicure per giungere alla vittoria mantenendo intatte le proprie risorse e quelle del nemico. Il punto è nodale: vincere significa entrare sul campo già vittoriosi. Per questo, una volta raggiunta la vittoria, in tanti si stupiranno del risultato. Così valgono i seguenti principi:

E così, si vincerà senza alcun dubbio.

E senza alcun dubbio, le proprie azioni porteranno alla vittoria,

Poiché si vince chi è già sconfitto.

Chi è abile in battaglia si attesta sul campo in posizione di vantaggio,

E non si lascia scappare alcuna situazione che porti il nemico alla sconfitta.

Nell’operazione militare vittoriosa prima ci si assicura la vittoria e poi si dà battaglia.

Nell’operazione militare destinata alla sconfitta prima si dà battaglia e poi si cerca la vittoria.[7]

La guerra immaginaria dei cavalieri medioevali (ché, nella prassi, non era propriamente identica che alle sue rappresentazioni letterarie) è esattamente ciò che va condannato: non si cerca la guerra per il puro gusto di mettere alla prova il proprio coraggio. Questo è profondamente idiota ed estraneo all’arte della guerra che è, molto prosaicamente, un modo per raggiungere obiettivi strategici e vantaggi, nulla di più. Ad esempio, il Falstaff di Orson Welles inscena chiaramente un personaggio del tipo appena descritto, Henry Percy: costui si rifiuta di concedersi alla bellissima moglie, pur di andare a sfidare il suo rivale per conquistare la corona con la forza. Ma Percy, lungi dal lottare per questo obbiettivo, è solo interessato a vincere lo scontro contro il figlio del re, per onore e gloria. Onore e gloria: due sentimenti che ottundono la ragion pratica del conflitto e che rendono vana ogni ricerca dell’utile. Sicché Sun Tzu lo deve ricordare di continuo: non per la gloria, non per l’onore, non per la fama, ma solo ed esclusivamente per il risultato finale, la vittoria totale.

Gli strumenti per giungere alla vittoria, dunque, non potranno fare appello alle emozioni o al coraggio, inteso come pura emotività sprigionata di fronte al momento di combattere. Il metodo deve seguire una linea assai asciutta, fondata sul contare e organizzare le proprie forze e nulla di più:

Per quanto riguarda il metodo –

In primo luogo si misura la lunghezza.

In secondo luogo, il volume.

Terzo, il calcolo.

Quarto il confronto.

Quinta è la vittoria.

Il territorio genera la lunghezza.

La lunghezza genera il volume.

Il volume genera il calcolo.

Il calcolo genera il confronto.

Il confronto genera la vittoria.[8]

In altre parole, il metodo offerto consiste nella scomposizione in fattori primi degli elementi coinvolti da entrambe le parti, dalla loro enumerazione, ricomposizione e comparazione. Per comparare è necessario conoscere i dettagli, che sono conoscibili solo a seguito di una loro enumerazione. Tutto può essere quantificato, a condizione di operare riduzioni virtuose: il campo genera lo spazio (lunghezza), il calcolo genera i tempi di manovra (tempo), gli eserciti costituiscono la somma degli elementi coinvolti (componenti semplici dello scontro). Il risultato sarà che: “Colui che soppesa in tal modo la vittoria, sa far combattere le truppe come se liberasse all’improvviso una gran massa d’acqua accumulata in una gola profonda mille jen“.[9]

Determinare il crollo psicologico dell’avversario è, a livello individuale, il principale obbiettivo della guerra del singolo, laddove ti si deve credere sempre vigile, capace di respingere qualunque attacco e in grado di non essere mai sconfitto nello spirito. Dare l’impressione di invulnerabilità, di forza dello spirito e di potenza è la prospettiva che bisogna dare a un nemico più debole. Viceversa, un nemico più forte deve credere che non ti fiaccherà nello spirito e che ogni battaglia che intraprenderà contro di te non la vincerà facilmente, ammesso che riesca nell’intento.

La somma abilità, dunque, consiste nel portare il nemico dove lui non può che concedere debolezze né può fare a meno di sentirsi indebolito senza rimedio. Saper condurre il nemico dove tu vuoi è un’arte difficile che si fonda sulla tua possibilità di fargli vedere vantaggi dove non ci sono che svantaggi.

Per essere superiori all’avversario ci vuole grande disciplina e capacità di autocontrollo. L’autocontrollo si esercita per tre vie: non cedere nello spirito alla paura, avere l’unità nel cuore e nella mente e saper gestire le tue informazioni in modo che l’altro ti segua credendo di arrivare a conoscere i tuoi svantaggi mentre lo stai guidando verso il tuo pugno di ferro. L’arte del conflitto è, dunque, la suprema abilità dello spirito applicata allo scontro di interessi.


[1] Ivi., Cit., p. 16.

[2] Ivi., Cit., p. 16.

[3] Ivi., Cit., p. 16.

[4] Ivi., Cit., p. 16.

[5] http://it.wikipedia.org/wiki/M1_Abrams

[6] Sun Tzu, L’arte della guerra, Mondadori, Milano, 2003, p. 17. Corsivo Nostro.

[7] Ivi., Cit., p. 17.

[8] Ivi., Cit., p. 18.

[9] Ivi., Cit., p. 18.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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