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Capitolo 14. Jnana – canto alla saggezza ispirata

Prarthana1830590, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

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Consigliamo I veda – Capitolo 1


La pubblicazione intende chiarire, attraverso l’analisi del contenuto d’un passo del Rg-veda (X,71), la relazione che, secondo la concezione vedica, sussiste tra la Parola e gli uomini saggi che ne fanno uso, ma, più in generale, tra la Parola e la comunità umana.

La Parola (Vac) per i Veda è della massima importanza. I Veda stessi sono Parola, ovvero la rivelazione vedica, contenuta nei quattro testi che compongono la Samitha, è Parola. Ma cosa significa essere Parola? Non è subito chiaro. Solo una volta conclusa l’analisi dei testi credo si possa avere una risposta in grado di fare chiarezza sul punto. Per ora possiamo dare solo qualche utile indizio. Innanzitutto la Parola, nel senso inteso dai Veda, è Parola eterna e primordiale. È dunque una Parola precedente alla divinità stessa: non è di Dio e nemmeno da esso ispirata. Sembrerebbe dunque che ci troviamo di fronte ad un altro principio primo.

La Jnana dice che l’origine della parola (e della Parola) è da rintracciarsi nel momento in cui i Saggi cominciarono a nominare le cose. Furono dunque i Saggi a crearla. Il processo di creazione segue regole simili a quelle seguite dal processo di creazione dell’universo. I Saggi generarono la parola motivati dalla forza dell’amore: essi volevano rivelare ciò che di più profondo, puro e migliore risiedeva nel loro cuore. Ma l’operazione di formazione della parola fu, proprio come l’operazione di generazione dell’essere dal non essere, mentale:

I Saggi forgiarono la Parola per mezzo delle proprie menti, / setacciandola come si vaglia la farina con i setacci.

Il secondo verso indica semplicemente che l’operazione di creazione fu meticolosa: solo le parole migliori furono selezionate, sicché, possiamo pensare, ora disponiamo di un vocabolario in grado di farci riconoscere ed esprimere i sentimenti più intimi e importanti, ad esempio, come suggeriscono altrove i testi, l’amicizia.

Proprio come successe per la creazione del cosmo, fu necessario un atto sacrificale, o diversi e continui atti sacrificali (nei testi comunque non chiariti nel loro specifico consistere), per diffondere la parola tra gli uomini.

Possiamo intuire ancora una cosa dai primi passi dello Jnana. L’origine nobile della parola, creata da Saggi, la imparenta di conseguenza con la verità. Il Saggio non può inventare la parola per esprimere menzogne, ma l’intento originario deve essere quello di esprimere la verità, credo, intesa come corrispondenza a ciò che è reale, esterno ed interno, ovvero sia gli oggetti che vengono nominati sia i sentimenti che possono venire espressi. Il testo non chiarisce ulteriormente chi siano questi Saggi. Penso si possa asserire che alla comprensione dei passi sia sufficiente notare l’intenzione degli autori vedici di avvicinare il concetto di parola al concetto di verità e purezza, attuata attraverso la narrazione della creazione della parola da parte di un gruppo di persone sagge, ovvero nella verità e nella purezza.

Dobbiamo poi notare come, di fatto, a conferma di quanto detto, la Parola, pur distribuita tra molti, non sia da tutti compresa. Alcuni comprendono la Parola, altri invece no. Qui mi pare si voglia dire due cose: la prima è che non tutti colgono il significato dei discorsi vedici, intendendo parola come sinonimo di conoscenza, la seconda è che non tutti colgono il vero significato o intenzione linguistica o contenuto dell’espressione verbale delle parole altrui. E questo implica anche differenze di comportamento nella sfera sociale tra gli uni e gli altri. Alcuni rifiutano l’amicizia e la vita in società, e falliscono nei loro sforzi poiché non riescono a cooperare con i vicini, altri invece si muovono nella direzione opposta. La Parola è dunque innanzi tutto principio di coesione sociale, veicolo di amicizia e di reciprocità, tanto che chi rifiuta la società e l’amicizia di conseguenza rifiuta anche la Parola (e la parola, ovviamente). Conoscenza e comprensione dell’altro per mezzo dell’ascolto delle sue parole sono cose perfettamente legate e interagenti.

Ma anche tra chi comprende la Parola, nel senso appena chiarito, vi sono differenze. Alcuni sono in grado di averne una comprensione più profonda di altri, la cui comprensione è dunque superficiale. E la comprensione profonda o, per meglio dire, l’unica vera comprensione possibile, escludendo la quale siamo nell’ignoranza, è la conoscenza del Brahman, il sapere cosmico intuito durante il sacrificio, possibilmente con l’aiuto del soma (dal sanscrito soma; nome usato per indicare la pianta e il succo inebriante dagli effetti psicotropi che da essa si estraeva, usato durante i sacrifici e rituali vedici). Durante il sacrificio, sorta di piccolo universo racchiudente in sé l’intero cosmo, gli uomini ricoprono diversi ruoli, i quali rispecchiano diversi usi della Parola. Qualcuno si occupa di creare i versi, dunque di sviluppare il linguaggio poetico, qualcun altro di cantare la Parola, un altro ancora sarà il brahmano, colui che detiene e declama la saggezza e aiuta a svelare il mistero delle cose, infine qualcuno si occuperà, per mezzo della Parola, di prescrivere le regole del sacrificio stesso. Si sarà notata la sovrapposizione tra la divisione degli uomini in questi ruoli e la divisione della Parola all’interno dei Veda.


Francesco Margoni

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento. Studia lo sviluppo del ragionamento morale nella prima infanzia e i meccanismi cognitivi che ci permettono di interpretare il complesso mondo sociale nel quale viviamo. Collabora con la rivista di scienze e storia Prometeo e con la testata on-line Brainfactor. Per Scuola Filosofica scrive di scienza e filosofia, e pubblica un lungo commento personale ai testi vedici. E' uno storico collaboratore di Scuola Filosofica.

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