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Dante Alighieri – Vita e pensiero oltre la Divina Commedia

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…per dare ad intendere che questo amore era quello che in quella nobilissima natura nasce, cioè di verità e di vertude, e per ischiudere ogni falsa oppinione da me, per la quale fosse sospicato lo mio amore essere per sensibile dilettazione.

Dante

Vita

Dante (Durante) Alighieri nasce a Firenze nel 1265. Il padre si chiamava Alighiero di Bellacione e la madre era una Bella, della quale si ignora totalmente la vita. Dante rimane orfano di entrambi i genitori assai presto, con diversi fratelli. La famiglia di Dante apparteneva alla piccola nobiltà, priva di grandi possedimenti e di grande capitale economico, come mostrano le ripetute cambiali che Dante sarà costretto a firmare per richiedere anticipi in denaro. In effetti, la vita di Dante non sarà nell’agio, come si potrebbe pensare dall’idea della sua grandezza poetica, dalle sue attive battaglie politiche e dalla sua nobiltà d’origine. D’altra parte, la stessa appartenenza alla nobiltà se, da un lato, circonda Dante di un certo prestigio di nascita, tuttavia lo costringerà a compiere determinate imprese per poter partecipare alla vita politica, giacché, contrariamente a molti altri periodi storici, la nobiltà fiorentina dell’epoca era interdetta alle cariche pubbliche.

Dante contrae il contratto di matrimonio nel 1277.

La giovinezza di Dante, nonostante i problemi della sua condizione, è trascorsa all’insegna della vita sociale fiorentina. Egli riceverà anche una discreta istruzione, nonostante i problemi economici: egli frequentò delle scuole e, successivamente, il dotto Brunetto Latini, traduttore di opere classiche. Tuttavia, la frequentazione con Brunetto è considerata da molti come sporadica e, di fatto, ben poco incisiva: Dante, infatti, sembra aver incontrato Brunetto più volte, ma solo per discussioni estemporanee e, per tanto, è lecito dubitare che Brunetto sia stato poco più che un buon conversatore per il Poeta. Non solo, lo stesso Brunetto è una figura emblematica di quel genere di dotti, eruditi sostanzialmente privi di una cultura profonda ed amalgamata, che si nutre più di informazioni disorganiche che di una precipua visione del mondo, o di una sua parte.

L’evento, fin troppo noto, della giovinezza di Dante è il suo incontro con Beatrice, donna di cui si può dire di sapere ben poco, nonostante tutto. Si sa, di certo, che Dante incontrò Beatrice, quand’ancora era bambino. Fu, per lui, un grande turbamento quando la donna le rivolse il suo saluto molti anni dopo a Firenze. Questo turbamento, e la successiva morte prematura di Beatrice, costituiscono, tradizionalmente, la prima svolta importante della vita di Dante in chiave personale, umana e poetica.

Dante inizia a scrivere poesie e rime attorno ai vent’anni ma questo non deve indurre che l’attenzione degli intellettuali del suo tempo gli fu rivolta immediatamente. Si sa che egli compì diversi tentativi di entrare a far parte dell’elite del suo tempo inviando lettere con poesie, talvolta anche dedicate, per farsi conoscere. Evidentemente, la Storia è un processo assai conservativo, se si pensa che i sistemi grazie ai quali si può essere conosciuti, anche in senso buono, sono rimasti sostanzialmente gli stessi. Comunque sia, grazie a queste lettere, Dante farà la conoscenza del primo vero uomo al quale si legherà per amicizia letteraria-intellettuale: Guido Cavalcanti. Cavalcanti riconoscerà in Dante un talento e questo segna l’avvio della loro amicizia. Le prime rime di Dante evidenziano un provenzalismo di seconda mano, un guittonismo, la presenza delle tematiche amorose come preminenti e il gusto per un certo tecnicismo, non ancora pienamente organico. Dante inizia subito a scrivere opere in volgare, motivo per il quale deve necessariamente adattarsi ai canoni tematici del tempo, giacché il volgare, come lingua sostanzialmente popolare, non era considerata adatta dai dotti per scrivere argomenti più seri. Non a caso, Dante scriverà due libri (De vulgari e il Convivio) nei quali compaiono lunghe giustificazioni per la scelta della lingua volgare italiana anche per scopi non frivoli.

La prima opera fondamentale di Dante è la Vita nuova nella quale la figura di Beatrice compare attraverso una parabola di vita e morte, concettualmente simile ad un’agiografia, la storia dei santi. In quest’opera Dante tratta il tema amoroso sempre, però, nell’ottica simbolica medioevale nella quale dominava l’idea che esistessero sempre diversi piani di lettura. La Bibbia, ad esempio, veniva interpretata mediante i quattro livelli che Dante stesso farà propri per fornire le chiavi di interpretazione delle sue opere successive (le ballate del Convivio): il livello letterale, il livello metaforico, il livello morale, il livello spirituale. Di questi “livelli interpretativi” avremmo da parlare più avanti. La Vita nuova è un insieme di poesie con delle parti in prosa poetica che introducono il lettore alla parte poetica vera e propria. Come previsto dai livelli d’analisi, il livello letterale coinvolge Dante come uomo concreto in prima persona che analizza la sua esperienza amorosa che, tuttavia, già assurge a simbolo di un amore più ampio: la donna di Dante è il tramite stesso, perché simbolo, perché portatore delle qualità divine, tra l’uomo e Dio. Questo duplice livello è un’originalità di Dante perché, in generale, la poesia precedente concepiva l’amore nel suo aspetto più passionale, arrivando anche a forme di desiderio frustrante e annichilente, come in Cavalcanti. Mentre nella scuola siciliana non trovava spazio la tematizzazione di un amore che fosse anche l’espressione di una luce superiore, la luce stessa della divinità.

Nel 1290 Dante inizia gli studi filosofici, che lo impronteranno in modo decisivo, com’è evidente dal De vulgari eloquentia, Monarchia, Convivio e in moltissimi passi della Divina commedia. Egli legge alcuni libri di Aristotele tradotti e di Cicerone. Uno dei libri che rimane impresso alla memoria e all’attenzione di Dante, come di molti medioevali in quanto tramite di collegamento con la cultura pagana romana, il De consolatione filosofiae di Severino Boezio. Dante è un pensatore molto costante e sono constanti, in lui, le spinte profonde e i temi della sua indagine. La conoscenza della filosofia lo condurrà ad un diverso impegno verso la società civile e verso la sua stessa lingua. E’ da questo momento che in Dante emerge quella carica etico-morale che lo spingerà ad abbracciare importanti impegni politici, dapprima, e culturali, poi. In questo periodo, comunque, Dante approda a nuove esigenze sul piano linguistico: egli sperimenta moltissimi generi letterari diversi che vanno dalle egloghe latine alla stesura di lettere che, nel medioevo, erano un genere letterario assai codificato.

Dopo il 1300 Dante contrarrà nuovi muti, sintomo di una condizione economica non particolarmente vantaggiosa. Ma è nel periodo immediatamente precedente che Dante inizia la sua attività politica: nel 1289 partecipa alla battaglia di Campaldino e ad un successivo assedio. Tuttavia, ancora le sue qualifiche non sono sufficienti a farlo entrare alla vita pubblica e così si iscrive alla corporazione dei medici e degli speziali per poter, finalmente, accedere alle cariche politiche. S’immagini quante difficoltà Dante, per il solo fatto di esser nato nobile (il colmo, ci vien da pensare), abbia dovuto incontrare per riuscire a realizzare quelle semplici ambizioni di vita che egli anteponeva ad altre strade. Ma egli sperimenterà in prima persona il peso dell’oblio e del rifiuto della società, in un periodo che in molti pensano unitario e idilliacamente felice e semplice!

Dante finalmente entra a far parte della vita pubblica e diviene priore. I comuni italiani, divenuti lentamente indipendenti dall’Impero, divengono dei centri politici di primo piano, che manterranno il loro primato politico, culturale e economico fino a che le guerre del cinquecento e la scoperta dell’America, comporteranno l’ascesa di più grandi potenze, Francia e Spagna soprattutto. Ma la vita politica di così piccoli centri è sempre infiammata da grandi lotte che, talvolta, scadono in vere e proprie ribellioni, sommosse o stragi. In quel periodo, la città di Firenze era divisa in due schieramenti: Guelfi e Ghibellini. I primi erano i seguaci del Papa, assumendo che costui avesse il primato sull’Imperatore; viceversa, i Ghibellini erano filoimperiali. Dante si schiera a favore dei Guelfi ma anche all’interno di questi c’era la divisione tra moderati-filoimperiali e sciovinisti filopapali: i guelfi neri erano dell’idea che il papa, l’odiatissimo Bonifacio VIII, avesse il diritto di intromettersi negli affari pubblici della città, mentre i guelfi bianchi erano dell’idea che fosse necessaria una certa indipendenza. Dante si schierò con i guelfi bianchi. Per ragioni che ci sfuggono, almeno in parte, Dante viene inviato nell’ambasceria che doveva chiedere al papa di non intromettersi negli affari di Firenze. Ma Bonifacio VIII spedisce Carlo di Valois alla volta di Firenze: costui vi entra nel 1301 e impone al comando della città lo schieramento dei guelfi neri. E’ la catastrofe per Dante. Alla presa della città, infatti, segue la condanna di tutti i guelfi bianchi ma viene loro offerta la possibilità di rientrare nei ranghi, a patto che si presentino a Firenze entro pochi giorni. Dante non tornò a Firenze e fu costretto a riparare a Siena: fu condannato a morte e gli fu sequestrato per intero il patrimonio. Egli, inoltre, dovrà anche attendere un certo tempo per ricongiungersi alla famiglia, formata dalla moglie (chissà quante se ne sarà sentite, questa povera donna!) e da tre o quattro figli.

Al principio dell’esilio, Dante si unisce con altri esuli, nella speranza di poter rovesciare il governo della città. Tuttavia, a causa di disaccordi e, probabilmente, della mancanza di un’organicità nell’organizzazione, com’è noto, infatti, gli uomini disuniti dai propri interessi finiscono per ricadere nel cieco egoismo e temere qualunque azione perché potenzialmente dannosa per la loro personalità; costoro, per l’appunto, finiscono per non riuscire nemmeno a provare ad attuare i loro presunti piani. Dante riserverà qualche osservazione violenta a beneficio di costoro. Il Poeta, al principio, è speranzoso di riuscire a ritornare nell’amata Firenze, ma, dopo essersi reso conto che rovesciare la situazione politica fiorentina era impossibile, incomincia ad accettare la sua condizione di esule. E’ il periodo dell’esilio nel quale Dante dovrà fare i conti con la precarietà della vita, con l’assenza di un reddito stabile, con la benevolenza dei potenti, che, spesso, si guadagna prestando loro dei servigi scomodi. Rimarrà sempre con la speranza di tornare a Firenze ma passerà l’intera sua maturità tra la peregrinazione intellettuale nei tre regni del cielo e le varie corti d’Italia. Sebbene si sappia che egli viaggiò per la parte “sinistra” dell’Italia (con “parte sinistra” Dante intendeva la parte della penisola che sta alla sinistra degli Appennini), non è chiaro dove egli sia stato di preciso perché della vita di Dante si dubita e si è dubitato di tutto: anche dell’autenticità della lettera a Cangrande della Scala.

Nel periodo dell’esilio Dante darà anima e corpo alle sue opere. Scrive il Convivio tra il 1303 e il 1304. Egli usa la lingua volgare nel primo trattato di filosofia scritto in un volgare europeo. Ma non lo finisce. Scrive il De vulgari eloquentiae in latino, per dimostrare ai dotti, a quegli intellettuali di professione da cui fu sistematicamente ignorato, che la lingua volgare è altrettanto degna del latino per comporre opere di ogni genere, dall’arte alla filosofia. Esso doveva divenire illustre, ma c’erano altre ragioni di principio per cui il latino dovesse essere considerato superiore al volgare, la “lingua amata” di Dante. Ma non termina neppure questo trattato. La Divina commedia diventa il suo capolavoro, l’opera della maturità, nella quale il Poeta fa convergere, in un pluristillismo linguistico, tutti i temi a cui la sua curiosità innata e la sua grande cultura lo spinsero. Trova il tempo anche per scrivere la Monarchia un’opera in latino, rivolta ad un pubblico di specialisti, che attaccava l’idea che l’Impero dovesse sottostare alle prescrizioni del papato. Egli faceva leva, sostanzialmente, sull’idea che l’Impero romano fosse precedente alla Chiesa e voluto da Dio per meglio diffondere il cristianesimo sulla Terra e, di conseguenza, l’Impero traeva la sua stessa ragione d’azione e d’esistenza da Dio, così come la Chiesa. Ma come l’Impero doveva prendersi cura della pace dei suoi territori, perché l’impero aveva come ragione d’esistenza la felicità dei suoi cittadini, sicché Dante sperava nell’avvento di un impero universale; allo stesso modo la Chiesa doveva prendersi cura delle anime degli uomini. Il Monarchia fu un libro messo all’indice dalla Chiesa che, d’altronde, criticò aspramente. Il libro fu, per così dire, riconsiderato dall’istituzione ecclesiastica solo nel 1881! Già, perché nei vangeli c’era scritto che il libro di Dante era da proscrivere… Una sorte simile stava per capitare alla Commedia giacché, in essa, Dante figura quasi come un profeta (com’egli stesso, probabilmente, doveva pur essersi pensato) e in essa fanno la comparsa molti uomini potenti che, naturalmente, non furono così felici di essere messi all’inferno! Tuttavia, la Commedia ebbe una diffusione enorme in tutte le classi sociali e fu subito considerato un capolavoro di lingua volgare, tanto che alla morte di Dante seguirono leggende sulla sua vita, com’è attestato dal primo biografo di Dante, Boccaccio. Inoltre, la Commedia veniva letta nelle università, come esempio di bel scrivere e di grande arte. E questo è un fatto curioso perché Dante si batté strenuamente per sradicare l’idea che il latino dovesse essere l’unica lingua colta e che bisognasse scrivere per i soli dotti. Eppure, durante la sua vita, i vari intellettuali, pur simpatizzanti con lui, non smisero mai di rimproverargli di scrivere in quella misera lingua, invece di concentrare il suo genio nella più alto linguaggio del latino. A dimostrazione del fatto che Dante fu sistematicamente ignorato o, soprattutto, non fu tenuto in degna considerazione, rispetto a quella che fu, poi, la storia della “fortuna dantesca” ce lo mostra una sua dissertazione sulla cosmologia che non fu seguita da nessun universitario di professione, con la costernazione di Dante. Inoltre, già all’epoca di Dante c’erano “concorsi letterari” e, in particolare, in uno fu insignito l’alloro ad un poeta piuttosto mediocre (rispetto a Dante), con grande felicità del Nostro!

In genere si parla di queste persone geniali misconosciute ai loro tempi come “geni incompresi”, come se i “geni incompresi” avessero vissuto, in fondo, la miglior vita possibile che, d’altronde, per essere una vita eccentrica, non si poteva certo chiedere di più! Inoltre, la loro fama è tale che si finisce per retrodatarla e crederla genuinamente ereditata in quel passato luminoso che era stato quel genio in questione. Si pensa che, in fondo, ammesso e non concesso che costui, di mente sopraffina, abbia vissuto una brutta vita, comunque, avrà goduto della gioia della fama post mortem. Però si svia l’attenzione da un punto interessante: perché costoro furono sistematicamente ignorati da chi di dovere? Prima di tutto, perché essi costituiscono delle persone non uniformate all’opinione comune, generalmente espressa dagli stessi “dotti di professione” che non son né più né meno che la cristallizzazione dell’opinione comune. Costoro, infatti, finiscono assai spesso per scambiare la loro stessa parola per la verità, indipendentemente da ciò che può generare in loro quell’idea: essi sono stati investiti dalla comunità di dire cosa la comunità pensa. Andare contro di loro è andare contro la società stessa. In secondo luogo, l’andare contro l’autorità istituita produce effetti simili a quello di andare contro la polizia: le conseguenze sono l’emarginazione e la segregazione. In terzo luogo, un intellettuale di alto ingegno, com’era Dante, evidentemente, è un concorrente a livello di interessi e di prestigio: che figura farebbe un “dotto di professione” di fronte ad un uomo della piccola nobiltà in esilio che non ha mai contato niente per nessuno? Egli è bravo, certamente, ma la sua bravura ha qualcosa di storto e che, in fondo, non si può degnare d’attenzione. Tuttavia, per questi “dotti di professione” si pone la necessità di giustificare tale oblio perché l’interesse materiale puro e semplice, per quanto una base fondativa della sconsideratezza più che valida, deve pur essere giustificato secondo canoni diversi: anche costoro si rendono conto che non basta e non basta anche perché c’è sempre il rischio che l’attenzione di molti finisca per ricadere su gente come Dante. E allora urge una giustificazione. Dopo che ha scritto Aristotele e dopo che ha scritto Platone perché uno dovrebbe perdere tempo con Dante? E si parla e si discute e si scrive tanto, troppo, per esser letto tutto! Chi crede che sia solo un problema attuale, si sbaglia. Ma gente come Dante diventa estremamente preziosa non appena muore perché un grosso bue può dare da mangiare ad una grande quantità di avvoltoi, sciacalli e iene che amano cibarsi di carni morte, morte nel senso materiale del termine. Ecco che, allora, si parla della “fortuna” di Dante, come se il trionfo degli uomini nel futuro riscatti quell’oblio disgustoso al quale i “geni misconosciuti” devono fare i conti continuamente nella loro vita e si domandano perché la loro bravura non sia tenuta in debito conto da chi, effettivamente, avrebbe il potere di renderli più celebri al solo scopo di poter discutere e migliorare la loro opera. Gli esseri umani, evidentemente, non erano molto diversi ai tempi di Dante di quanto non lo sono oggi, nonostante i cambiamenti dei vestiti e dei nomi delle istituzioni. Ci sarà sempre una Chiesa, ci sarà sempre un’Opinione e ci saranno sempre persone come Dante.

Alla fine, Dante morirà nel 1321 per delle febbri.

Opere

Vita nuova.

Rime.

Convivio.

De vulgari eloquentia.

Monarchia.

Divina commedia.

Filosofia

Il problema della lingua ne il De vulgari eloquentiae

Il De vulgari eloquentiae fu scritto in latino in quanto rivolto ad un pubblico colto, vale a dire ad una ristretta cerchia di intellettuali, gran parte di essi di professione, che accettavano come unica lingua per il dibattito culturale, filosofico e teologico il latino. A differenza, dunque, del Convivio il De vulgari eloquentiae si colloca su un livello culturale più elevato. Eppure, come già si evince dal titolo, il libro è, sostanzialmente, un’apologia della lingua volgare, come di un linguaggio, non ancora pronto ma potenzialmente idoneo, per parlare di qualunque argomento, fosse pure di teologia e filosofia.

Il De vulgari eloquentiae prende sul serio il problema della lingua italiana, come una evoluzione del latino. Come spesso procede, Dante offre una ricostruzione di quella che è stata la storia idealizzata del suo oggetto in analisi, perché era opinione che la fonte stessa, l’origine, per così dire, anagrafica di qualcosa fosse anche la fonte stessa della sua legittimazione.

La lingua volgare è nata dopo il crollo della torre di Babele, prima della quale c’era, per il vero, un’unica lingua. La lingua è una necessità per l’umanità in quanto “null’altro si tratta se non di comunicare al prossimo quanto la nostra mente ha pensato”.[1] Così, la presenza di una lingua coincide con l’esistenza stessa del genere umano. Il primo linguaggio dev’essere stato l’ebraico, secondo Dante, perché esso fu usato per primo dall’uomo per rivolgersi a Dio: la prima parola doveva essere stata la fonte stessa di ogni nostra conoscenza e di ogni nostra felicità, cioè “El” che in ebraico significa, appunto, Dio. Dante nel Convivio parla di questo punto, sostenendo che non può credersi che sia stata davvero una donna a proferire la prima parola, giacché, com’è evidente, una cosa così importante non può essere originata da qualcosa di più imperfetto dell’uomo! Fu Adamo nell’atto stesso di riconoscere Dio, come sua stessa origine e come fonte generale di ogni bene, a pronunciare la prima parola.

Dopo il crollo della torre di Babele emerse in modo drammatico il problema della comunicazione. L’umanità, a quel punto, non avrebbe più potuto costruire la sua torre per via del fatto che non si può erigere alcun che senza cooperazione. Così, dopo la lingua ebraica ci fu una lingua “storica” che venne a formarsi e a diffondersi presso il popolo romano che poté portare la sua favella a gran parte dell’Europa e del bacino del mediterraneo. Il latino, però, è una lingua diversa dal volgare italiano perché è “perfetta” e perché ha una “grammatica”.

…chiamo lingua volgare quella che i bambini apprendono da chi sta loro intorno dal momento che cominciano ad articolare i suoni; oppure, per essere più brevi, lingua volgare è quella che, senza bisogno di regole, impariamo imitando la nostra nutrice. C’è poi un’altra lingua, per noi seconda, che i Romani chiamano grammatica.[2]

La “perfezione” del latino sta nel fatto di non essere suscettibile alle variazioni del tempo, giacché essa è come conservata nella sua assoluta completezza sia dalla grammatica, come Dante dice in questo passo del De vulgari, ma pure perché le sue opere poetiche prodotte in quella lingua la preservano dall’essere dimenticata e dall’essere modificata. Sembrerebbe, dunque, che si debba concludere, con ciò, che il latino è superiore al volgare per definizione. Questo sarebbe vero se la lingua volgare non fosse passibile di miglioramenti, attuabili esclusivamente dai poeti e dai letterati che, rimuovendo quelle imperfezioni degli usi corrivi del parlare, renderebbero il volgare una lingua idonea per la trattazione di qualunque argomento. La lotta di Dante, svolta su questo livello puramente teorico, è rivolta all’idea che il volgare sia un buon candidato per poter essere utilizzato dai sommi poeti che, come Dante dirà nella Commedia, sono i più idonei a trattare certi argomenti.

Prima di procedere nella ricerca del volgare ideale e di quali condizioni questa lingua debba possedere, per poter essere veicolo dell’arte, Dante passa al setaccio la letteratura italica del suo periodo: cita diversi poeti, come Guinizzelli, come Cavalcanti e come i siciliani. Dante non propende per nessun idioma parlato o usato fino a quel momento, perché nessuno gli sembra privo di imperfezioni che sono tali da renderli fuori causa. Per il sardo, poi, mostra una grande conoscenza e un grande amore!: “Mettiamo fuori anche i Sardi, che non sono Italiani ma agli Italiani vanno uniti, perché sono gli unici che non paiono avere un volgare proprio e imitano la grammatica, come le scimmie l’uomo: dicono infatti domus nova  e dominus meus.”[3] Arrivando, così, a concludere che:

Allora, trovato ciò che cercavamo, definisco illustre, cardinale, regale e curiale quel volgare d’Italia che è di ogni città italiana ma non sembra appartenere a nessuna e sulla cui base tutti i volgari locali degli Italiani sono misurati, valutati e confrontati.[4]

I singoli volgari sono, di per loro, ancora troppo imperfetti per poter assurgere alla perfezione di una lingua che deve possedere tre qualità fondamentali, per essere definita “illustre”: cardinalità, regalità, curialità. La cardinalità del volgare è quella proprietà che rende il volgare idoneo a sorreggere ogni genere di ragionamento, come il cardine di una porta sorregge la porta stessa nel suo spostamento:

E’ con fondamento che onoro il volgare illustre del secondo pregio, per cui si chiama cardinale. Infatti, allo stesso modo che la porta regge sul cardine, così che, se il cardine gira, gira anch’essa, aprendosi all’interno o all’esterno, anche l’intero gregge dei volgari locali gira e rigira, si muove e si ferma secondo che fa quello, che sembra essere davvero il loro capofamiglia.[5]

Dante più volte sottolinea come gli strumenti siano caricati moralmente in base a chi li utilizzi. Un volgare che fosse usato per far parlare i maiali sarebbe un “volgare da porci”. Ed, in effetti, questo genere di argomentazioni ricorre piuttosto di frequente nelle analisi di Dante e, per la verità, sembra essere qualcosa di discutibile giacché usa intenzioni e connotazioni morali assunte da un’ideologia d’epoca, per parlare di fatti. Tuttavia, per non fuoriuscire dal principio di carità interpretativa, dobbiamo considerare l’argomento, cercando di salvarlo, o di salvarne il salvabile. Ciò che sembra interessante è l’aspetto istituzionale: una lingua perfetta deve poter essere usata sia per poter comunicare qualunque genere di ragionamento, di intenzione, di idea ma deve poter essere anche lo strumento per comunicazioni ufficiali e, infatti, Dante parla subito della “regalità” e della “curialità” come condizioni necessarie perché si possa parlare di “lustro” per una lingua. Di fatti, i precedenti migliori sono proprio l’ebraico, la lingua della religione cristiana delle origini, e il latino, la lingua dell’impero e della Chiesa. Così:

Se poi lo chiamo regale il motivo è che, se noi Italiani avessimo una reggia, esso ne abiterebbe il palazzo. Infatti, se la reggia è la casa comune di tutto un regno e l’alta sede di governo di tutte le sue parti, tutto ciò che è tale da essere comune a tutti e proprio di nessuno, è giusto che la frequenti e vi abiti, né alcun’altra dimora  è degna di tanto inquilino (…).[6]

E’ giusto anche dirlo curiale, perché la curialità non è altro che una ben ponderata regola delle cose da farsi: e poiché la bilancia di una tale valutazione suole trovarsi solo nelle curie più eccelse, ne segue che tutto ciò che nei nostri atti è ben soppesato si dica curiale. Allora, poiché questo volgare è stato ponderato nella più alta curia degli italiani, merita di essere detto curiale.[7]

Le condizioni perché il volgare possa diventare illustre sono state chiarite. Ma di che cosa dovrebbero trattare le opere scritte in questa nuova e prestigiosa lingua? Come detto, Dante assai spesso considera il problema nella sua essenza “filologica” e, di conseguenza, cerca di trovare l’origine stessa di ogni argomento degno di trattazione ed egli ritrova le radici di ciò che è degno di interesse narrativa proprio nell’anima umana. L’anima umana, considerata nella sua definizione aristotelica, è tripartita: anima vegetativa, anima appetitiva e anima razionale. L’anima vegetativa è l’insieme dei bisogni costitutivi che l’uomo ha in comune con le piante e fanno tutti capo alla necessità della vita. L’anima appetitiva è quella componente che ci spinge alla ricerca del piacere corporeo che, per Dante, costituisce una delle spinte emotive fondamentali e che, nella sua opera, fa continuamente ingresso, come una delle possibili forze centrifughe che avvinghiano l’uomo ad una condizione di desiderio-desiderante inappagabile: è il caso degli infausti abitanti dell’inferno vittima delle passioni. In fine, l’anima razionale è l’unica propriamente umana ed è anche la fonte della nostra stessa nobiltà.

…l’uomo, in quanto fornito di un’anima triplice, cioè vegetativa, animale e razionale, si muove per una triplice via. Infatti, in quanto essere vegetativo cerca l’utile, e in questo partecipa della pianta; in quanto è animale cerca il piacere, e in questo partecipa della bestia; in quanto è razionale, cerca il bene, nella qual cosa è unico o partecipe della natura agelica. Tutto ciò che facciamo, noi lo facciamo chiaramente in vista di queste tre finalità; e poiché in ognuna di esse ci son cose maggior e altre grandissime, quelle che in quanto tali, sono grandissime, pare si debbano trattare in maniera grandissima e quindi nel volgare più alto di tutti.[8]

Dante vuole mostrare come la fonte stessa di ogni interesse narrativo è, di fatto, fondato direttamente sull’anima umana. Infatti, ad ogni parte dell’anima corrisponde un fatto degno di comparire come centro narrativo: all’anima vegetativa corrisponde le gesta d’arme perché in essa compare in forma esplicita la lotta per la sopravvivenza. Mentre all’anima appetitiva corrisponde alla trattazione dell’amore corporeo, che lo stesso Dante sviscera ne la Vita nuova. In fine, all’anima razionale corrisponde la narrazione della virtù, cioè della ricerca del sommo bene. Sebbene tutto ciò sia estremamente semplice e un po’ schematico, Dante sembra aver rintracciato delle ragioni molto forti per mostrare come tutto ciò che debba essere narrato in quanto degno di ricerca estetica faccia appello a ciò che effettivamente è stringente per l’animo umano stesso. D’altra parte, questa constatazione è rafforzata dall’idea che tutto ciò che può essere oggetto di interesse da parte di un lettore coincide, bene o male, in varianti o in somme dei “fulcri narrativi d’alta arte” rintracciati da Dante che dimostra di essere ben lontano dall’uomo nella lontana torre eburnea dove, spesso, si crede che vivano gli intellettuali. Se si considera la stessa opera di Dante, si può considerare che, per lui, i temi più “caldi” siano soprattutto il tema amoroso e la ricerca della virtù, che sublimeranno nel sommo capolavoro della Commedia.

A questo punto è bene allontanarci un poco dalle considerazioni proprie di Dante per considerare l’apporto dantesco alla lingua italiana attraverso le sue opere. Come Dante stesso sottolinea, egli amò il volgare italiano e lo fece diventare davvero una lingua “illustre” giacché egli gli fornirà la “cardinalità”. Le opere poetiche, per l’importanza ben diversa che si dava allora, costituiscono la base per la successiva elaborazione linguistica e, in questo, Dante fu un autore estremamente consapevole sia del suo impegno “civile” nella lingua, un impegno simile a quello politico, così come era consapevole del suo intervento a livello culturale. L’uso del volgare fu giustificato da Dante da molte argomentazioni che, per quanto non siano stringenti sotto il profilo argomentativo, rimangono pur sempre delle testimonianze efficaci di come, attraverso valide giustificazioni, ci si possa allontanare da una conclamata tradizione linguistica. Così, la lingua diventa lo strumento stesso di innalzamento morale, perché il poeta contribuisce, attraverso la sua opera, all’edificazione di un linguaggio italiano che possa fornire una base comunicativa perfetta. Ma Dante non si limita alle difese, per così dire, teoriche. Egli scrive quasi tutta la sua opera in volgare, un’operazione che gli costò, almeno in parte, la segregazione dalla comunità colta.  La fortuna dell’operazione di Dante, misurata in base al nostro inappuntabile senno di poi, sempre molto comodo nelle faccende storiche, è stata fondamentalmente la fortuna della sua lingua e del suo esser riuscito effettivamente nella sua operazione fondativa di un linguaggio universale in potenza e in atto.

 

La Filosofia di Dante: il simbolo di un amore capace di riscattare l’umanità

La Filosofia è un elemento costante nell’intera opera di Dante. Basti pensare che il su cinque opere, considerando anche i due trattati incompiuti, ben tre sono opere di filosofia quasi in senso stretto. Il Convivio si presenta come un’esaltazione divulgativa della filosofia stessa, presentata attraverso i commenti a delle canzoni, il genere poetico sommo, per Dante, perché solo la canzone consente una libertà che le altre forme poetiche non consentono. Nel Convivio, poi, vengono trattati, come digressioni apparentemente estemporanee, temi molto importanti per il periodo storico e per Dante stesso: la ragione della scelta del volgare, ciò che è degno di trattazione, la fonte e l’origine del potere imperiale… Nel De vulgari eloquentiae, invece, si prende più sul serio il problema della definizione della lingua volgare, come potenziale lingua illustre, capace di sorreggere ogni ragionamento e ogni funzione ufficiale. Nel Monarchia, l’opera filosofica compiuta di Dante, scritta nel periodo della maturità piena, si tratta delle ragioni della scissione dei poteri imperiale e papale, del potere secolare da quello temporale, che devono essere tenuti distinti perché creati da Dio allo stesso modo ma per diversi fini. Ma la filosofia rimane, comunque, un aspetto dominante ma secondario, rispetto a ciò che è Dante: egli è un Poeta e, come tale, pensa per immagini e le mette per iscritto in una forma adeguata. Di conseguenza, il ragionamento argomentativo, logico, è, per Dante, soprattutto, un modo per chiarire le sue stesse immagini. Ma non per questo bisogna pensare che la filosofia fosse solo una forma senza sostanza: essa trae ragione dalla stessa natura umana, nella sua componente razionale che è stata direttamente infusa negli uomini da Dio, senza mediazioni con altre parti del creato.

Ma è nella figura-filosofia che bisogna concentrarci, se si vuole comprendere fino l’originalità di Dante. Innanzi tutto, Dante rifiuta l’idea platonica e tomista secondo cui la poesia è subordinata alla filosofia, nel senso che la filosofia è regina delle forme di sapere mentre la poesia è sempre una forma subordinata di conoscenza perché è una rappresentazione e, in quanto tale, media tra il soggetto e l’oggetto, rendendo la conoscenza di seconda mano e, dunque, trasfigurata. Dante non è  di questo avviso ed anzi rivendica per la poesia quella capacità di cogliere mediante intuizione l’essenza stessa del divino: la filosofia deve passare, comunque, attraverso il ragionamento seriale e, di conseguenza, lascia trapassare la verità solo a conclusione di un argomento, mentre l’intuizione pone d’innanzi all’uomo la verità, nella sua perfezione.

L’immagine che Dante usa per inquadrare la filosofia deve essere un simbolo concreto ed astratto nello stesso tempo. Egli, infatti, da poeta e da uomo medioevale, ritiene che ogni scritto debba poter essere interpretato secondo una quadruplice radice: il senso letterale, il senso metaforico, il senso morale e il senso anagogico o spirituale o sovrasenso. Il senso letterale è ciò che vien detto come immagine riferita a qualcosa di realmente esistente. Il senso metaforico è, invece, ciò che in un senso più astratto è espresso dall’immagine concreta, esso viene solo lasciato intendere. Il senso morale è l’interpretazione in chiave etica che il lettore deve trarre dalla lettura dell’immagine: essa, dunque, deve sempre mostrare una qualche qualifica normativa per discernere i fatti e per rendere evidente la giustizia. Dante, infatti, nel De vulgari eloquentiae ci dice esplicitamente che uno dei temi narrativi portanti, per l’arte somma, deve essere proprio la virtù, intesa proprio nell’accezione di “fare il bene”, che nasce solo dall’uso della ragione. Il sovrasenso è ciò che si può assumere a livello spirituale come meritevole. In effetti, la stessa religione cristiana ha sempre favorito questa stratificazione di metafore e di simboli e di rimandi perché ha sempre avuto a che fare con i problemi relativi alla Bibbia e alle sue interpretazioni. Per un noto fenomeno di slittamento culturale, tale operazione “scientifica” venne adoperata anche per le opere letterarie, in specie poetiche. Per avere un’idea della stratificazione dei livelli e di come si possano intendere, si può fare il seguente esempio: Marco fuma una quarantina di sigarette al giorno e lo fa da quarant’anni. Un giorno Marco si sente male e scopre che è a cagione del fumo. Marco muore, pentendosi di aver fumato sì tanto a lungo. Il livello letterale è semplicemente il susseguo dei fatti: un uomo di nome Marco si perde nel vizio del fumo e si pente solo quando il male lo sta consumando. Il livello metaforico è che un individuo qualunque, in condizioni simili a quelle di Marco, perduto in un vizio, finisce per pentirsene perché, alla fine, ne riconosce il male intrinseco. Si badi alla distinzione tra i due livelli, perché il livello simbolico è ciò che dischiude la possibilità di considerare un’immagine concreta come un rimando ad una condizione umana universale, o universalmente condivisibile: dalla figura concreta (Marco e il suo male) si passa ad un livello superiore (un uomo e il suo vizio) che può riguardare tutti. Il livello morale è presto detto: un uomo non deve concedere al vizio né poco né tanto, ma deve limitarsi ad innalzarsi sopra di esso ma, qualora il danno sia compiuto,  gli rimane l’aspetto catartico del pentimento, laddove il male maggiore sarebbe continuare nell’errore (un lettura, questa, volutamente simile a quella che ne avrebbe potuto dare Dante). Il livello spirituale è ciò che di “divino” si può trarre dall’immagine, questo il tratto tipico del tempo di Dante: sia la natura che l’arte, per i medioevali, contenevano un aspetto di Dio che poteva essere colto, mediante una lettura attenta della realtà o dell’opera. Questa scintilla di pura sapienza superiore poteva fluire nell’uomo, attraverso la sua disposizione e la sua comprensione. Evidentemente, in termini più laici, si potrebbe riconsiderare tale livello come l’idea del godimento astratto della narrazione a livello di “contemplazione artistica”. Questa quadruplice radice dell’interpretazione dell’immagine è ancora valida per cercare di discernere le opere d’arte mediocri da quelle superiori e un ottimo metodo per sondare le opere più alte e supreme. Non tutta l’arte consente una tale analisi e non tutta allo stesso modo, ma è proprio la possibilità di scandagliare con questi strumenti, laicizzati, la profondità della produzione artistica umana. Riprendiamo, qui, il passo che Dante scrive per chiarire le idee ai suoi lettori:

Dico che, sì come nel primo capitolo è narrato, questa sposizione conviene essere litterale e allegorica. E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono dare a intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L’uno si chiama litterale, e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L’altro si chiama allegorico e questo è quello che si nasconde sotto ‘l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna (…) Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti: sì come appostare si può ne lo Evangelio, quando Cristo salio lo monte per trasfigurarsi, che de li dodici Apostoli menò seco li tre; in che moralmente si può intendere che a le secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia. Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora sia vera eziandio nel senso liettearle, per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria, sì come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l’uscita del popolo d’Israel d’Egitto, Giudea è fatta sante e libera.[9]

Dante costruisce il suo primo grande simbolo sulla figura della donna, immagine del tramite ideale tra l’uomo e la perfezione divina: l’amore per la donna può sublimare in un amore più universale, la cui fonte è il Creatore stesso. Quest’immagine è, sì un’astrazione ideale mediante un dato concreto (Beatrice), però  è già più astratta, rispetto alla rappresentazione dell’amore offerta da Guido Cavalcanti: l’amore era solo una passione distruttiva, capace di avvinghiare l’uomo dentro un desiderio perdurante e inappagabile. Dante, invece, alza il livello dell’immagine per mostrare un dato più astratto e più universale, in un certo senso. L’origine, dunque, del simbolo della filosofia inizia con la somma di due “immagini”, la donna e l’amore divino, in una sola figura e confluisce, attraverso il nuovo “innamoramento” di Dante, nella Filosofia (Filosofia con la F maiuscola è l’immagine di Dante, da distinguere, dalla filosofia intesa nel suo senso generale).

La donna-Filosofia si presenta nel Convivio in due canzoni particolarmente amate dallo stesso Dante. La Filosofia è la sapienza stessa dell’uomo, che, sola, può riuscire a salvare l’uomo dalla miseria terrena. In Dante non c’è una netta separazione tra teologia e filosofia e, in particolare, non c’è l’idea che la filosofia possa essere laicizzata, naturalizzata. Per lui la Filosofia è espressa dai grandi filosofi cristiani Tommaso, Alberto Magno e dai grandi filosofi pagani che, però, avevano anticipato il pensiero cristiano, così come si pensava nel medioevo, cioè Aristotele, Cicerone e Boezio. La Filosofia, dunque, non si presenta come un’alternativa razionale all’ordine della teologia, ma come una continuità giacché la sapienza umana è causa sia dell’una che dell’altra. Essa scaturisce dall’animo razionale che è stato direttamente infuso nell’uomo da Dio e, per tanto, la perfezione umana in questa Terra non può che passare attraverso quello strumento sommo che lo stesso Creatore ci ha fornito. Tale strumento, cioè l’intelletto umano, ben direzionato dalla fede e dalla grazia, può rendere l’uomo in grado di elevarsi sulla miseria e, al contempo, di renderlo capace di amare in senso sublime.

Dante parla continuamente di “amore”, sembra che sia una delle parole più ricorrenti nella sua opera, sebbene egli ne parli continuamente con accezioni assai diverse. L’amore, per Dante, è la passione amorosa, scaturita dall’anima appettitiva, ma è anche la passione dell’animo razionale nei confronti della sua stessa sapienza, com’è anche il sentimento che l’uomo prova quando abbraccia una parte della natura divina. Dante ci dice che: “Amore, veramente pigliando e sottilmente considerando, non è altro che unimento spirituale de l’anima e de la cosa amata; nel quale unimento di propria natura l’anima corre tosto e tardi, secondo che è libera o impedita”.[10] Prima di procedere nelle osservazioni successive, sarà bene osservare che Dante riprende questo concetto assai vago e onnicomprensivo di questo “amore universale” dalla religione cristiana, che ne fa uno dei suoi elementi fondativi, soprattutto, riprendendo il concetto dell’”amore vince tutto” dai vangeli. In secondo luogo, la tematica amorosa costituiva il centro gravitazionale di tutta la poesia dei tempi di Dante.

Si può dire che Dante distingua l’amore in due grandi categorie: l’amore passionale e l’amore razionale. L’amore passionale è quella spinta emotiva, creata dall’animo appettitivo, che ci conduce continuamente a desiderare senza riuscire a sentirci appagati. Questo genere di “amore” fu cantato da Guido Cavalcanti che, non per nulla, Dante mette nell’inferno. In questa categoria, in realtà, finiscono tutte le grandi passioni distruttrici che sono, dunque, ricondotte alla sola categoria “amore-passione” che conduce l’uomo ad una sistematica perdizione morale e spirituale, nella sua doppia accezione: l’uomo diventa incapace di liberarsi dalle catene di una passione travolgente, che lo spinge continuamente lontano dall’amore di Dio. L’”amore sommo”, invece, è quel genere di spinta emotiva, genericamente intesa, che sospinge l’uomo verso una comprensione più elevata del Creato. La Filosofia è amore per la sapienza che conduce inevitabilmente all’amore divino: l’uomo non può non riconoscere al suo Creatore ogni suo bene, se è razionale, e dunque deve essergli riconoscente ma tale riconoscenza giunge solo da un più sottile senso emotivo che stringe l’idea al suo oggetto.

Dante conserva tutte le proprietà dei suoi simboli, anche quando li riunisce. Dunque, dalla donna-angelo, capace di liberare l’uomo dalle catene dell’amore puramente passionale per dischiudere in lui una scintilla del divino, si passa alla concezione della donna-Filosofia, come di quella sapienza scaturita dalla ragione umana, capace di far scoprire all’uomo la stessa grandezza divina e, dunque, di liberarlo dai mali del mondo. La ricerca filosofica, per Dante, è il contrario dell’immagine della conoscenza offerta dall’Ecclesiaste, dove il conoscere è un’attività, come le altre, che richiude l’uomo su se stesso, rendendolo cieco di fronte all’unica cosa che lo possa salvare: il riconciliamento con il Padre. La Filosofia, invece, non può che condurre l’uomo a questa liberazione proprio perché il frutto puro di ciò che Dio ha direttamente messo in noi.

Riferimenti

Dal De vulagari eloquentiae.

La lingua volgare.

…chiamo lingua volgare quella che i bambini apprendono da chi sta loro intorno dal momento che cominciano ad articolare i suoni; oppure, per essere più brevi, lingua volgare è quella che, senza bisogno di regole, impariamo imitando la nostra nutrice. C’è poi un’altra lingua, per noi seconda, che i Romani chiamano grammatica.

Dante, De vulgari eloquentiae, Garzanti, Milano, 2000, p. 3.

Il linguaggio è comunicare intenzioni!

Se in effetti si considera attentamente ciò che si fa quando si parla, si vedrà che di null’altro si tratta se non di comunicare al prossimo quanto la nostra mente ha pensato.

Dante, De vulgari eloquentiae, Garzanti, Milano, 2000, p. 5.

Gli uomini necessitano di comunicare perché non hanno il dono angelico della telepatia.

Né gli uomini si possono reciprocamente compenetrare attraverso un rispecchiamento spirituale, come capita agli angeli, perché lo spirito umano è impacciato dalla grossezza e opacità del corpo mortale.

Dante, De vulgari eloquentiae, Garzanti, Milano, 2000, p. 7.

La prima parola.

Secondo quello che dice il libro della Genesi al principio, dove la Sacra Scrittura tratta delle origini del mondo, sarebbe stata una donna ad aver parlato prima di tutti, cioè la presuntuosissima Eva, quando rispose alle tentazioni del diavolo (…). Ma, anche se nelle Scritture si trova che ad aver parlato per prima è stata una donna, è egualmente più ragionevole credere che ad aver parlato per primo sia stato un uomo; e, in effetti, non è congruo pensare che un così egregio atto del genere umano sia opera prima di una donna che di un uomo. Ritengo perciò ragionevole che allo stesso Adamo sia stato dato di parlare per primo da Colui che proprio allora aveva plasmato.

Dante, De vulgari eloquentiae, Garzanti, Milano, 2000, p. 9.

Mettiamo fuori anche i Sardi, che non sono Italiani ma agli Italiani vanno uniti, perché sono gli unici che non paiono avere un volgare proprio e imitano la grammatica, come le scimmie l’uomo: dicono infatti domus nova  e dominus meus.

Dante, De vulgari eloquentiae, Garzanti, Milano, 2000, p. 31.

Le proprietà del “volgare illustre” non possedute da nessuna lingua italiana parlata.

Allora, trovato ciò che cercavamo, definisco illustre, cardinale, regale e curiale quel volgare d’Italia che è di ogni città italiana ma non sembra appartenere a nessuna e sulla cui base tutti i volgari locali degli Italiani sono misurati, valutati e confrontati.

Dante, De vulgari eloquentiae, Garzanti, Milano, 2000, p. 45.

Il volgare illustre.

Preciso dunque subito cosa intendo con illustre e perché lo definisco illustre. Con illustre si vuol intendere ciò che illumina e, se illuminato, risplende; così, si dicono illustri gli uomini o perché, illuminati dal potere, diffondono sugli altri luce di giustizia e carità o perché, depositari di un alto magistero, perfettamente insegnano, come Seneca e Numa Pompilio. E il volgare di cui stiamo parlando è eccellente per magistero e potere e innalza i suoi con onore e gloria.

Dante, De vulgari eloquentiae, Garzanti, Milano, 2000, p. 45.

La “cardinalità” del volgare.

E’ con fondamento che onoro il volgare illustre del secondo pregio, per cui si chiama cardinale. Infatti, alo stesso modo che la porta regge sul cardine, così che, se il cardine gira, gira anch’essa, aprendosi all’interno o all’esterno, anche l’intero gregge dei volgari locali gira e rigira, si muove e si ferma secondo che fa quello, che sembra essere davvero il loro capofamiglia.

Dante, De vulgari eloquentiae, Garzanti, Milano, 2000, p. 47.

La “regalità” del volgare illustre.

Se poi lo chiamo regale il motivo è che, se noi Italiani avessimo una reggia, esso ne abiterebbe il palazzo. Infatti, se la reggia è la casa comune di tutto un regno e l’alta sede di governo di tutte le sue parti, tutto ciò che è tale da essere comune a tutti e proprio di nessuno, è giusto che la frequenti e vi abiti, né alcun’altra dimora  è degna di tanto inquilino (…).

Dante, De vulgari eloquentiae, Garzanti, Milano, 2000, p. 47.

La “curialità” del volgare illustre.

E’ giusto anche dirlo curiale, perché la curialità non è altro che una ben ponderata regola delle cose da farsi: e poiché la bilancia di una tale valutazione suole trovarsi solo nelle curie più eccelse, ne segue che tutto ciò che nei nostri atti è ben soppesato si dica curiale. Allora, poiché questo volgare è stato ponderato nella più alta curia degli italiani, merita di essere detto curiale.

Dante, De vulgari eloquentiae, Garzanti, Milano, 2000, p. 49.

La fonte e le grandezze dell’uomo che sono degne di narrazioni elevate.

…l’uomo, in quanto fornito di un’anima triplice, cioè vegetativa, animale e razionale, si muove per una triplice via. Infatti, in quanto essere vegetativo cerca l’utile, e in questo partecipa della pianta; in quanto è animale cerca il piacere, e in questo partecipa della bestia; in quanto è razionale, cerca il bene, nella qual cosa è unico o partecipe della natura agelica. Tutto ciò che facciamo, noi lo facciamo chiaramente in vista di queste tre finalità; e poiché in ognuna di esse ci son cose maggior e altre grandissime, quelle che in quanto tali, sono grandissime, pare si debbano trattare in maniera grandissima e quindi nel volgare più alto di tutti.

Ora, bisogna precisare quali sono le cose grandissime. Innanzitutto relativamente all’utile: qui, se guardiamo attentamente l’intento di tutti coloro che cercano l’utilità, non troveremo null’altro che ricerca della salute fisica. Riguardo, inceve, al piacere, diciamo che è massimamente dilettevole ciò che piace in quanto oggetto più prezioso del nostro desiderio, ed è l’amore terreno. Per quanto concerne il bene, nessuno dubiterà che si tratti della virtù. Perciò, queste tre cose, cioè salute, amore e virtù, paiono essere quei tre alti argomenti che sono da trattare massimamente (…).

Dante, De vulgari eloquentiae, Garzanti, Milano, 2000, p. 59.

Dal Convivio.

Sui letterati.

… non si deono chiamare litterati, però che non acquistano la lettera per lo suo uso, ma in quanto per quella guadagnano denari o dignitate; sì come non si dee chiamare citarista chi tiene la cetra in casa per prestarla per prezzo, e non usarla per sonare.

Dante, Convivio, Garzanti, Milano, 2005, p. 33.

La virtù si acquista dopo molto sforzo ma gli uomini sono spesso in tutto simili a delle pecore e non hanno amore per sé stessi.

E però che l’abito di vertude s’ morale come intellettuale, subitamente avere non si può, ma conviene che per usanza s’acquisti, ed ellino la loro usanza pongono in alcuna arte a discernere l’altre cose non curano, impossibile è a loro discrezione avere. Per che incontra che molte volte gridano Viva la loro morte, e Muoia la loro vita, pur che alcuno cominci; e quest’è periocolosissimo difetto ne la loro cechitade. Onde Boezio giudica la populare gloria vana, perché la vede sanza discrezione. Questi sono da chiamare pecore, e non uomini; ché se una pecora si gitasse da una ripa di mille passi, tutte l’altre l’andrebbero dietro; e se una pecora per alcuna cagione al passare d’una strada salta, tutte l’altre saltano, eziandio nulla veggendo da saltare. E io ne vidi già molte in uno pozzo saltare per una che dentro vi saltò…

Dante, Convivio, Garzanti, Milano, 2005, p. 40.

I quattro sensi interpretativi medioevali ripresi da Dante.

Dico che, sì come nel primo capitolo è narrato, questa sposizione conviene essere litterale e allegorica. E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono dare a intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L’uno si chiama litterale, e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L’altro si chiama allegorico e questo è quello che si nasconde sotto ‘l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna (…) Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti: sì come appostare si può ne lo Evangelio, quando Cristo salio lo monte per trasfigurarsi, che de li dodici Apostoli menò seco li tre; in che moralmente si può intendere che a le secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia. Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora sia vera eziandio nel senso liettearle, per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria, sì come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l’uscita del popolo d’Israel d’Egitto, Giudea è fatta sante e libera.

Dante, Convivio, Garzanti, Milano, 2005, pp. 65-57.

La pietà.

E non è pietàde quella che crede la volgar gente, cioè dolersi de l’altrui male, anzi è questo uno suo speziale effetto, che si chiama misericordia ed è passione; ma pietade non è passione, anzi è una nobile disposizione d’animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia e altre caritative passioni.

Dante, Convivio, Garzanti, Milano, 2005, p. 100.

La filosofia nella biografia di Dante.

Poi che la litterale sentenza è sufficientemente dimostrata, è da procedere a la esposizione allegorica e vera. E però, principiando ancora da capo, dico che, come per me fu perduto lo primo diletto de la mia anima, de la quale fatta è menzione di sopra, io rimasi di tanta tristizia punto, che conforto non mi valeva alcuno. Tuttavia, dopo alquanto tempo, la mia mente, che si argomentava di sanare, provide, poi che né ‘l mio né l’altrui consolare valea, ritornare al modo che alcuno sconsolato avea tenuto a consolarsi; e misimi a leggere quello non conosciuto da molti libro di Boezio, nel quale, cattivo e discacciato, consolato s’avea. E udendo ancora che Tullio scritto avea un altro libro, nel quale, trattando de lAmistade, avea toccate parole de la consolazione di Lelio, uomo eccellentissimo, ne la morte di Scipione amico suo, misimi a leggere quello. E avvegna che duro mi fosse ne la prima entrare nel la loro sentenza, finalmente v’entrai tanto entro, quanto l’arte di grammatica ch’io avea e un poco di mio ingegno potea fare; per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, già vedea, sì come ne la Vita Nuova si può vedere. E sì come essere suole che l’uomo va cercando argento e fuori de la ‘ntenzione truova oro, lo quale occulta cagione presenta, non forse sanza divino imperio; io che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocabuli d’autori e discienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E imaginava lei fatta come una donna gentile, e non la poteva imaginare in atto alcuno se non misericordioso; per che sì volentieri lo senso di vero la mirava, che appena la potea volgere da quella. E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofianti. Sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero. Per che io, sentendomi levare dal pensiero del primo amore a la virtù di questo, quasi maravigliandomi apersi la bocca nel parlare del la proposta canzone, mostrando la mia condizione sotto figura d’altre cose: però che de la donna di cu’ io m’innammorava non era degna rima di volgare alcuna palesemente poetare; né li uditori erano tanto bene disposti, che avessero sì leggiere le non fittizie parole apprese; né sarebbe data la loro fede a la sentenza vera, come a la fittizia, peròìà che di vero si credea del tutto che disposto fosse a quello amore, che non si credeva di questo. Cominciai dunque a dire: Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete. E perché, sì come detto è, questa donna fu figlia di Dio, regina di tutto, nobilissima e bellissima Filosofia, è da vedere chi furono questi motivori, e questo terzo cielo. E prima del cielo, secondo l’ordine trapassato. E non è qui mestiere di procedere dividendo, e a littera esponendo; ché, volta la parola fittizia di quello ch’ella suona in quello ch’ella ‘ntende, per la passata sposizione questa sentenza fia sufficiente palese.

Dante, Convivio, Garzanti, Milano, 2005, pp 105-106.

Le difficoltà dello studio della filosofia.

Ove si dice: Sed e’ non teme angoscia di sospiri, qui si vuole intendere “se elli non teme labore di studio e lite di dubitazioni”, le quali dal principio de li sguardi di questa donna multiplicatamente surgono, e poi, continuando la sua luce, caggiono, quasi come nebulette matutine a la faccia del sole; e rimane libero e pieno di certezza lo familiare intelletto, sì come l’aere da li raggi merdiani purgato e illustrato.

Dante, Convivio, Garzanti, Milano, 2005, p. 121.

La definizione di “amore” di Dante.

Amore, veramente pigliando e sottilmente considerando, non è altro che unimento spirituale de l’anima e de la cosa amata; nel quale unimento di propria natura l’anima corre tosto e tardi, secondo che è libera o impedita.

Dante, Convivio, Garzanti, Milano, 2005, p. 145.

L’amore può scaturire dalla verità e dalla virtù.

…per dare ad intendere che questo amore era quello che in quella nobilissima natura nasce, cioè di verità e di vertude, e per ischiudere ogni falsa oppinione da me, per la quale fosse sospicato lo mio amore essere per sensibile dilettazione.

Dante, Convivio, Garzanti, Milano, 2005, p. 152.

La Terra è immobile!

E le sue ragioni, che Aristotile dice a rompere costoro e affermare la veritade, non è mia intenzione qui narrare, perché assai basta a la gente a cu’ io parlo, per la sua grande autoritade sapere che questa terra è fissa e non si gira, e che essa col mare è centro del cielo.

Dante, Convivio, Garzanti, Milano, 2005, p. 158.

La fede si fonda sui miracoli.

E la nostra fede aiuta; però che, con ciò sia cosa che principalissimo fondamento de la fede nostra siano miracoli fatti per colui che fu crocifisso – lo quale creò la nsotra ragione, e volle che fosse minore del suo potere -, e fatti poi nel nome suo per li santi suoi; e molti siano sì ostinati che di quelli miracoli per alcuna nebbia siano dubbiosi, e non possano credere miracolo alcuno sanza visibilmente avere di ciò esperienza

Dante, Convivio, Garzanti, Milano, 2005, p. 171.

Il filosofo ama tutta la sua sapienza.

‘l vero filosofo ciascuna parte de la sua sapienza ama, e la sapienza ciascuna parte del filosofo, in quanto tutto a sé lo riduce, e nullo suo pensiero ad altre cose lascia distendere.

Dante, Convivio, Garzanti, Milano, 2005, p. 188.

Le basi del progetto ideologico-politico dantesco.

Lo fondamento radicale de la imperiale maiestade, secondo lo vero, è la necessità de la umana civilitade che a uno fine è ordinata, cioè a vita felice; a la quale nullo per sé è sufficiente a venire sanza l’aiutorio d’alcuno, con ciò sia cosa che l’uomo abbisogna di molte cose, a le quali uno solo staisfare non può. E però dice lo Filosofo che l’uomo naturalmente è compagnevole animale. E sì come un uomo a sua sufficienza richiede compagnia dimestica di famiglia, così una casa a sua sufficienza richiede una vicinanza: altrimenti molti difetti sosterrebbe che sarebbero impedimento di felicitade. E però che una vicinanza a sé non può in tutto satisfare, conviene a satisfacimento di quella essere la cittade. Ancora la cittade richiede a le sue arti e a le sue difenzioni vicenda avere e fratellanza con le circa vicine cittadi; e però fu fatto lo regno. Onde, con ciò sia cosa che l’animo umano in terminata possessione di terra non si queti, ma sempre desideri gloria d’acquistare, sì come per esperienza vedemo, discordie e guerre conviene surgere intra regno e regno, le quali sono tribolazioni de le cittadi, e per le cittadi de le vicinanze, e per le vicinanze de le case, e per le case de l’uomo; e così s’impedisce la felicitade. Il percé, a queste guerre e le loro cagioni torre via, conviene di necessiade tutta la terra, e quanto a l’umana generazione a possedere è dato, essere Monarchia, cioè uno solo principato, e uno prencipe avere; lo quale, tutto possedendo e più desiderare non possendo, li regi tegna contenti ne li termini de li regni, sì che pace intra loro sia, ne la quale si posino le cittadi, e in questa posa le civinanze s’amino, in questo amore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual preso l’uomo viva felicemente; che è quello che esso è nato. (…) Per che manifestamente vedere si può che a perfezione de la universale religione de la umana spezie conviene essere uno, quasi nocchiero, che, considerando le diverse condizioni del mondo, a li diversi e necessari offici ordinare abbia del tutto unversale e inrepugnabile officio di comandare. E questo officio per eccellenza Imperio è chiamato, sanza nulla addizione, però che esso è di tutti li altri comandamenti comandamento. E così chi a questo officio è posto è chiamato Imperadore, però che di tutti li comandamenti elli è comandatore, e quello che esso dice a tutti è legge (…). E massimamente di quello popolo santo nel quale l’alto sangue troiano era mischiato, cioè Roma, Dio quello elesse a quello officio. Però che, con ciò sia cosa che a quello ottenere non sanza grandissima vertude venire si potesse, e a quello usare grandissima e umanissima benignitade si richiedesse, questo era quello popolo che a ciò più era disposto. (…) e così non forza, ma ragione, e ancora divina, conviene essere stata principio del romano imperio.

Dante, Convivio, Garzanti, Milano, 2005, p. 237-240.

… la natura è strumento dell’arte.

Dante, Convivio, Garzanti, Milano, 2005, p. 263.

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[1] Dante, De vulgari eloquentiae, Garzanti, Milano, 2000, p. 5.

 

[2] Dante, De vulgari eloquentiae, Garzanti, Milano, 2000, p. 3.

 

[3] Dante, De vulgari eloquentiae, Garzanti, Milano, 2000, p. 31.

 

[4] Dante, De vulgari eloquentiae, Garzanti, Milano, 2000, p. 45.

 

[5] Dante, De vulgari eloquentiae, Garzanti, Milano, 2000, p. 47.

 

[6] Dante, De vulgari eloquentiae, Garzanti, Milano, 2000, p. 47.

 

[7] Dante, De vulgari eloquentiae, Garzanti, Milano, 2000, p. 49.

 

[8] Dante, De vulgari eloquentiae, Garzanti, Milano, 2000, p. 59.

 

[9] Dante, Convivio, Garzanti, Milano, 2005, pp. 65-57.

 

[10] Dante, Convivio, Garzanti, Milano, 2005, p. 145.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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