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La filosofia e il linguaggio politico cinese. La riscoperta di Confucio e i limiti filosofici della nostra comprensione della Cina [3/3]

Longhua Temple, Shanghai, China
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Xi Jinping e il discorso politico cinese: Confucio o Han Fei?

Prima di affrontare l’analisi della filosofia politica di Xi Jinping, è necessario chiarire cosa significhi oggi recuperare il pensiero dei filosofi del passato in chiave politica. Le motivazioni principali che spingono a una “rinascita” filosofica nella politica contemporanea sono essenzialmente due: da un lato, ottenere una forma di legittimazione attingendo a un passato considerato glorioso; dall’altro, delineare un modello politico da attualizzare con intenti programmatici. Questi due obiettivi, nella prassi politica, tendono spesso a sovrapporsi. La storia offre numerosi esempi in cui sia i regimi totalitari (si pensi all’uso strumentale che il nazismo fece della filosofia tedesca ottocentesca), sia le democrazie (talvolta richiamandosi proprio agli stessi autori), hanno attinto selettivamente e con finalità politiche al patrimonio filosofico del passato.

In questo contesto, vi sono due modi distinti di affrontare l’analisi filosofico-politica. Il primo è quello che potremmo definire “prospettiva esterna”, ossia la nostra: un punto di osservazione inevitabilmente condizionato da categorie interpretative occidentali. Il secondo è quello interno, che tenta di comprendere le intenzioni e le finalità di chi promuove attivamente il recupero politico della tradizione filosofica — in questo caso, il presidente Xi Jinping.

I primi due capitoli di questo saggio hanno già messo in guardia dai limiti e dai rischi insiti nella prospettiva esterna. In questo capitolo, cercheremo invece di analizzare il punto di vista dei protagonisti stessi, consapevoli delle difficoltà e dei confini epistemologici che tale tentativo comporta.

Riprendiamo da Bougon, secondo cui “I riferimenti sommari di Xi ai testi classici di Confucio non sono ovviamente parte di una riflessione teorica approfondita. Vengono utilizzati come massime a sostegno dei suoi gesti e per spiegare le sue azioni all’interno del quadro di una “dittatura illuminata”.[1]

Per quanto emerso dalla breve presentazione dell’impianto teorico del libro di Tongdong Bai “Against Political Equality” mi corre l’obbligo di fare una precisazione: la critica di mera strumentalità della ripresa di Confucio non può essere estesa indebitamente verso ogni tipo di produzione intellettuale recente in questo ambito di studio. Il dibattito sulla reale possibilità di un governo confuciano è proficuo, stimolante e attivo, e sarebbe riduttivo e irrispettoso verso questi lavori liquidare la ripresa di tali temi come mera propaganda, anche se non possiamo negare che il supporto istituzionale e governativo sia ben presente.

Molti segnali indicano infatti che la risposta popolare a questa legittimazione filosofica è apprezzata:

È il caso di Gan Yang, intellettuale nato nel 1952 e formatosi negli Stati Uniti, inizialmente vicino alle posizioni liberali. In seguito, però, ha radicalmente cambiato orientamento, diventando una delle figure principali della “Nuova Sinistra” cinese, corrente critica nei confronti del liberalismo e della democrazia. In un testo pubblicato nel 2009, in occasione del sessantesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, Gan ha sostenuto che la Cina contemporanea deve riuscire a conciliare tre componenti fondamentali: la cultura tradizionale confuciana, particolarmente attenta ai legami familiari; il maoismo, centrato sull’uguaglianza sociale e sulla giustizia; e le riforme di Deng Xiaoping, che hanno aperto il Paese al mercato. Questo approccio è noto come teoria delle “tre tradizioni”.

Gan lo ha spiegato così a un giornalista del quotidiano cinese 21st Century Business Herald:

«Attualmente in Cina esistono tre tradizioni. La prima è quella modellata da venticinque anni di riforme: anche se può sembrare un periodo breve, le riforme e la politica di apertura hanno plasmato molti concetti, compresi molti di nuovi, e ciò è profondamente radicato nella psiche collettiva… Questa tradizione si è diffusa grazie all’introduzione di numerosi concetti ispirati alle logiche di mercato, come quelli di libertà, diritti, ecc. Un’altra tradizione risale alla fondazione della Repubblica Popolare Cinese, ed è il prodotto dell’era di Mao Zedong, incentrata sull’attenzione verso l’uguaglianza e la giustizia.
Infine, vi è la tradizione della civiltà cinese, che ha origini millenarie, spesso indicata come cultura tradizionale cinese o cultura confuciana. È difficile definirla con precisione, ma nella vita quotidiana del popolo cinese si manifesta spesso come consapevolezza delle relazioni umane e come una certa sensibilità nostalgica verso la patria.»[2]

La politica cinese attuale può sicuramente dirsi erede del comunismo di Mao e soprattutto aperta al mercato; ma può veramente dirsi confuciana?

Che si tratti di un recupero funzionale alla propaganda o del tentativo autentico di costruire un sistema politico ispirato a principi confuciani, resta il fatto che la società cinese contemporanea appare, sotto molti aspetti, ben lontana dagli ideali confuciani così come storicamente li conosciamo. Il rispetto gerarchico, la centralità dell’etica relazionale, l’autocoltivazione morale della classe dirigente e la promozione della virtù come fondamento della legittimità politica sembrano oggi elementi marginali nel sistema di potere cinese, dominato da logiche tecnocratiche, controllo centralizzato e disciplina autoritaria.

A questo punto, ci si può legittimamente chiedere: la leadership cinese si sta davvero adeguando ai principi del confucianesimo, o si limita a impiegarne il lessico e il simbolismo in chiave strumentale?

Per cercare una risposta alternativa, può essere utile un esperimento concettuale: anziché leggere la Cina odierna alla luce del pensiero confuciano, proviamo ad analizzarla attraverso le categorie del suo più noto antagonista intellettuale, Han Fei, principale esponente del Legalismo.

Leggere la contemporaneità politica cinese attraverso gli occhi di Han Fei, piuttosto che di Confucio, potrebbe paradossalmente offrire una chiave di lettura più aderente alla realtà. Il rigido controllo burocratico, la sorveglianza capillare, la priorità della stabilità sull’autonomia morale dei cittadini e il ruolo centrale della legge come strumento di governo (più che come garanzia contro gli abusi del potere) evocano infatti più l’Han Feizi che gli Analecta.

Questo confronto non intende sostenere che la Cina contemporanea sia esplicitamente legalista, ma piuttosto mettere in discussione la narrazione ufficiale che la vuole erede diretta della tradizione confuciana. Forse, più che di rinascita del confucianesimo, si dovrebbe parlare di una sua reinvenzione.

Juan Luis Conde ci parla della vicinanza tra il pensiero di Han Fei e Xi Jinping

“Esiste un calcolo pubblico, accessibile on-line, delle volte in cui il segretario generale del Partito ha citato i classici nei suoi discorsi e del contenuto di tali citazioni. In effetti, dal novembre del 2012 alla fine del 2014, Xi Jinping aveva citato Han Feizi una mezza dozzina di volte nelle sue allocuzioni. Sei volte non sembrano molte se comparate con le trentasei citazioni di Confucio fatte da Xi Jinping nello stesso periodo, e persino i riferimenti a Mencio sono stati più numerosi (dieci). Si deve però sottolineare che Han Feizi risorge dal silenzio in cui il PCC lo teneva relegato dalla scomparsa di Mao Zedong, nel 1976: a differenza dei suoi successori fino ad ora, il “Grande Timoniere” detestava il confucianesimo ed esibiva senza ambagi la sua simpatia per le idee esposte nell’opera dell’«in altri tempi considerato il Machiavelli cinese», come dice appunto Xulio Ríos. Quarant’anni più tardi Han Feizi è ritornato nelle citazioni ufficiali del segretario generale del PCC: si potrebbe dire che è stato “riabilitato”[3]

E prosegue suggerendoci una chiave di lettura anticipata nella sezione precedente, quella filosofico-linguistica:

“Han Feizi si esprime, nel corso della sua intera opera, solo in base a giustificazioni assolutamente immanenti e atee, senza la minima concessione ad alcuna velleità morale, servendosi di argomentazioni in cui si considerano solo tipi diversi di benefici, ma mai alcun ideale. In modo insistente egli raccomanda al sovrano di nascondersi dietro l’inespressività e l’enigma, ammonendolo contro gli affetti (propri e altrui), contro amore e odio. Il motivo fondamentale per cui egli concepisce la legge come soluzione definitiva ai problemi della politica consiste nel fatto che la legge non ha sentimenti. Il sovrano deve sforzarsi di conseguire tale condizione di asetticità, mentre viceversa la legge non si lascia catturare dalla soggettività. Premi e castighi si devono applicare per meriti oggettivi, facendo riferimento a un regolamento cieco rispetto a qualunque altra considerazione che non sia appunto quella meritocratica: i sovrani intelligenti applicherebbero la legge e non i propri gusti personali per scegliere i loro sottoposti, tralasciando qualunque soggettività e utilizzando norme oggettive che chiariscano chi abbia acquistato meriti reali per il bene della nazione. Si è detto che le teorie politiche di Han Feizi sono il risultato dell’applicazione de L’arte della Guerra di Sunzi alla politica nazionale e, in questo senso, lo Han Feizi potrebbe leggersi come un vademecum per potenti in tempi di crisi. Se dovessi riassumere il progetto espresso dall’autore nello Wèn biàn, direi che egli fa dipendere la possibilità del dibattito argomentativo dall’esistenza di un potere politico debole, incapace di imporre ordine alla società – un potere fin troppo simile a quello che Han Feizi diagnosticava per la sua stessa epoca, il convulso periodo dei Regni Combattenti. Tormentato (come Machiavelli) dalla sua nostalgia di un ordine rappresentato da un principe capace di imporre la propria egemonia sui diversi regni indipendenti, il filosofo legista si aggrappa alle idee di utilità, funzionalità, oggettività e misurabilità. Il risultato è la sfiducia nei confronti di pluralismo o diversità di qualunque tipo: con la stessa fredda serietà con cui insiste sull’unificazione di pesi e misure, egli mette in guardia contro ciò che considera vana speculazione, se non addirittura pericolosa manipolazione linguistica.”[4]

È interessante notare che Conde utilizzerà Han Fei nei paragrafi successivi come critica al neoliberismo occidentale, tuttavia, vogliamo prendere in prestito in questa sede alcune sue argomentazioni circa l’opinione di Han Fei sul rapporto tra linguaggio e governo.

Nel pensiero di Han Feizi, il linguaggio non è uno strumento neutro di espressione, ma un campo di battaglia politico. L’argomentazione – biàn – è vista non come segno di vitalità intellettuale, ma come sintomo di disordine. In un mondo ideale, governato da un sovrano lucido e forte, non vi sarebbe bisogno di dispute dialettiche: la legge () costituirebbe l’unica fonte legittima di senso e autorità. In questo quadro, Han Feizi oppone due ecologie politiche: da un lato, il caos generato da una molteplicità di voci, scuole e interpretazioni; dall’altro, l’ordine garantito da una norma unica, stabile, impersonale – e non negoziabile.

L’analogia tra il linguaggio e il tiro con l’arco, proposta nel Wèn biàn, esprime chiaramente questa visione: le parole devono essere strumenti orientati a un fine preciso, misurabile, funzionale al mantenimento del potere e dell’ordine. La retorica slegata da obiettivi concreti non è solo inutile: è dannosa. Gli argomentatori itineranti – i biànshì – vengono accusati di offuscare il giudizio del sovrano, distogliendolo dalla chiarezza normativa necessaria al buon governo.

In quest’ottica, il linguaggio diventa esso stesso una tecnologia del potere: se non è diretto a consolidare l’autorità sovrana, allora diventa strumento di sovversione. Di conseguenza, la pluralità del discorso non viene tollerata, ma repressa – non in nome della verità, ma della funzionalità.

Applicare questa griglia interpretativa alla Cina contemporanea, come proposto nel “test di inversione” rispetto al confucianesimo, suggerisce che l’attuale leadership – pur proclamando un ritorno ai valori confuciani – operi in realtà secondo logiche molto più vicine al legalismo hanfeiziano. La repressione del dissenso, il controllo dell’informazione, la centralità della legge come strumento non tanto di garanzia, ma di comando, richiamano l’ideale di un mondo politico senza biàn – un mondo in cui la parola è subordinata all’ordine, e il dibattito è percepito come minaccia.[5]

Se Confucio auspicava un’armonia costruita sulla virtù e sulla persuasione morale, Han Feizi progettava un’armonia imposta dalla norma e dalla forza. In questo senso, il linguaggio nella Cina odierna, più che essere luogo di confronto tra opinioni, sembra tendere a diventare – come nel modello legista – uno strumento di legittimazione e controllo. Ed è proprio in questo slittamento semantico e politico che si gioca oggi il rapporto tra parola e potere: non più spazio pubblico di negoziazione, ma strumento tecnico per preservare l’autorità.

“Un mondo senza dissidenza: è questo il sogno utopico dell’uomo riabilitato da Xi Jinping”[6]

L’esperienza del controllo totale durante la pandemia e la riforma della legge sullo spionaggio del 2023[7] sono un chiaro segnale del tipo di società a cui Xi Jinping aspira. La maschera internazionale di una Cina confuciana e armonica cade sotto il peso di una realtà legalista e una società del controllo.[8]

Come osservano Steve Tsang e Olivia Cheung:

“Il concetto di “destino comune dell’umanità” rappresenta, in sostanza, una rielaborazione contemporanea dell’antico paradigma del tianxia (letteralmente “tutto ciò che è sotto il cielo”). Il tianxia incarna una visione idealizzata e sinocentrica delle relazioni internazionali nell’epoca premoderna. Nel pensiero di Xi Jinping, la visione del mondo fondata sul tianxia implica che il governo cinese debba adottare un approccio sinocentrico nelle proprie relazioni con il resto del mondo. Tale visione si configura come egocentrica, gerarchica, illiberale e coercitiva, sebbene venga veicolata attraverso un linguaggio improntato all’altruismo, al moralismo e all’inclusività. Questo paradigma comporta inoltre che, anche quando la Cina interagisce con altri paesi – compresi quelli in via di sviluppo, che Xi tenta con insistenza di attrarre – essa adotti, al di là della retorica ufficiale, un approccio fondamentalmente transazionale. Molti studiosi hanno interpretato la politica estera di Xi Jinping ricorrendo a cornici teoriche ispirate al realismo politico o al realismo classico. Sebbene tali modelli interpretativi siano in parte rilevanti, l’applicazione esclusiva delle varianti tradizionali del realismo conduce a una conclusione fuorviante, secondo cui la Cina sotto Xi si comporterebbe come le grandi potenze emergenti del passato o seguirebbe una linea intrinsecamente aggressiva. Le nostre ricerche indicano invece la necessità di un approccio più articolato. In effetti, Xi adotta una strategia ideologica fondata sulla sua peculiare interpretazione del paradigma del tianxia, rafforzata dall’impiego di calcoli propri del realismo neoclassico da parte dei diplomatici cinesi, nel perseguimento degli obiettivi della politica estera della Repubblica Popolare.[9]

È proprio questa radicale cesura tra controllo totalitario dell’informazione e retorica ambigua sul piano internazionale a mostrare quanto la situazione che abbiamo delineato risulta contradditoria politicamente ma perfettamente coerente se analizzata da un punto di vista filosofico.

L’analisi dello Hanfeizi si rivela tanto complessa quanto la realtà politica della Cina contemporanea. Le riflessioni qui proposte non pretendono di esaurire un argomento tanto vasto, quanto piuttosto di evidenziare come lo studio filosofico e il pensiero antico di una nazione possano costituire, al contempo, uno strumento ideologico al servizio del potere politico e una chiave ermeneutica per accademici e studiosi impegnati nella comprensione dei processi storici e istituzionali.

La verità, ammesso che ce ne sia una, forse sta in mezzo. La filosofia politica è sempre stata d’altronde, parafrasando Schopenhauer, un pendolo che ondeggia tra il realismo e l’ideale, tra il cinismo e la speranza. Forse la politica di Xi non è poi così sorprendente, ed ogni tempo detta sfide peculiari. Sta a noi decidere come affrontarle.

Bibliografia

  • Bai, Tongdong, Against Political Equality: The Confucian Case, Princeton: Princeton University Press, 2019.
  • Bougon, François, Inside the Mind of Xi Jinping, translated by Vanessa Lee, updated English edition, London, C. Hurst & Co., 2018.
  • Brambilla, Marina; Bulfoni, Clara; Leoncini Bartoli, Antonella (a cura di), Linguaggio politico e politica delle lingue, Milano, Franco Angeli, 2011.
  • Cheng, Anne, Storia del pensiero cinese. Volume 1: Dalle origini allo Studio del Mistero, traduzione e cura di Amina Crisma, Torino, Einaudi, 2022.
  • Conde, Juan Luis (2016), Come frecce senza bersaglio: retorica e ideologia in Han Feizi e nel discorso neoliberale, in Building Consensus, a cura di S. Di Piazza e F. Piazza, Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio, pp. 28–42.
  • Henry A. Kissinger, Cina, trad. di Aldo Piccato, Milano, Mondadori, 2011.
  • Hobbes, Thomas, Leviatano. Il contenuto, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile, a cura di Giovanni Giorgini, Milano, Rizzoli (“BUR Classici”), 2001.
  • Huc, Abbé Régis-Evariste, The Chinese Empire, London, Longman, Brown, Green & Longmans, 1855, cit. in Franz Schurmann e Orville Schell (a cura di), Imperial China: The Decline of the Last Dynasty and the Origins of Modern China – The 18th and 19th Centuries, New York, Vintage, 1967.
  • Kant, Immanuel, Che cos’è l’Illuminismo?, a cura di Sergio Landucci, Roma-Bari, Laterza (“Economica Laterza”), 2000.
  • Kant, Immanuel, Per la pace perpetua, a cura di Fulvio Tessitore, introduzione e traduzione di Vittorio Mathieu, Milano, Rizzoli (“BUR Filosofia”), 1995.
  • LIAO, W. K. (1959), The Complete Works of Han Fei Tzŭ. A Classic of Chinese Political Science, Voll. I & II, Arthur Probsthain, London.
  • Lindahl, Bertil (1992), Han Fei Zi, The Man and The Work, Institute of Oriental Languages, Stockholm University.
  • Locke, John, Due trattati sul governo, introduzione e cura di Luciano Guerci, traduzione di Rosalia Pellizzer, Milano, Rizzoli (“BUR Classici della filosofia”), 1998.
  • Machiavelli, Niccolò, Il Principe, a cura di Giorgio Inglese, Milano, Rizzoli (“BUR Classici”), 2005.
  • Migliori, Maurizio, La dialettica in Mao, in Aretè. International Journal of Philosophy, Human & Social Sciences, vol. 4, 2019.
  • Pili, Giangiuseppe, Filosofia pura della guerra, Roma, Aracne Editrice, 2015.
  • Rousseau, Jean-Jacques, Scritti politici, a cura di Andrea Zannini, Milano, Rizzoli (“BUR Classici”), 1996.
  • Scarpari, Maurizio, La Cina al centro. Ideologia imperiale e disordine mondiale, Bologna, Il Mulino, 2023.
  • Scarpari, Maurizio, Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato, Bologna, Il Mulino, 2015.
  • Teti, Antonio, China Intelligence. Tecniche, strumenti e metodologie di spionaggio e controspionaggio della Repubblica Popolare Cinese, prefazione di Alberto Manenti, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2024.
  • Tsang, Steve; Cheung, Olivia (2024), The Political Thought of Xi Jinping, Oxford: Oxford University Press.

[1] Bougon, François, Inside the Mind of Xi Jinping, translated by Vanessa Lee, updated English edition, London, C. Hurst & Co., 2018. p. 148

[2] Ivi pp. 150-151

[3] Conde, Juan Luis (2016). Come frecce senza bersaglio: retorica e ideologia in Han Feizi e nel discorso neoliberale. In Building Consensus, a cura di S. Di Piazza e F. Piazza, Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio, pp. 28–42

[4] Ivi pp 30-33

[5] Si veda a proposito Teti, Antonio, China Intelligence. Tecniche, strumenti e metodologie di spionaggio e controspionaggio della Repubblica Popolare Cinese, prefazione di Alberto Manenti, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2024.

[6] Ibidem

[7] Cina, le nuove leggi su spionaggio e «relazioni internazionali» spaventano le aziende Usa, Il sole 24ore, 11 Luglio 2023.

[8] Non ritengo necessario dilungarmi su aspetti già tristemente noti riguardo la censura e l’assenza di libertà intellettuale in Cina

[9] Tsang, Steve; Cheung, Olivia (2024). The Political Thought of Xi Jinping. Oxford: Oxford University Press. pp.184-185


Andrea Bardazzi

Andrea Bardazzi, nato a Lucca, è laureato in Filosofia Teoretica presso l’Università di Pisa. Attualmente è iscritto a un doppio corso di laurea presso l’Università degli Studi di Firenze, dove è prossimo al conseguimento della laurea magistrale in Scienze Filosofiche e di una seconda laurea triennale in Scienze Politiche. Ha collaborato con accademici di fama internazionale nei campi della filosofia teoretica e della filosofia politica. Collabora attualmente con l’International Association for Intelligence Education, è membro junior della Società Italiana di Intelligence ed è missionario laico per la diocesi di Lucca. I suoi interessi abbracciano la filosofia teoretica e lo studio comparato delle religioni, spaziando fino alla filosofia politica, ai temi dell’intelligence e della sicurezza nazionale.

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