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La scultura è una fiamma all’esistenzialismo con la febbre

Il filosofo Bachelard ci ricorda che un tempo i sapienti solevano meditare di sera, leggendo i libri posti su tavoli ed illuminati da una candela. La fiamma costituiva l’apertura d’un mondo, guidando l’ispirazione degli intellettuali contro il “vuoto nero” dello sfondo (della mente). La candela evocava immagini senza limite, attraendo in modo indefinito (verso la sua fonte, impossibile da vedere con chiarezza). Bachelard così si convince che la fiamma gode “di vita”. Ciò vale perché la candela andrà a “combattere” contro l’oscurità, e trasfigurata di continuo la sua fonte (essenza). Ambedue le condizioni renderanno la fiamma simbolicamente intima. Bachelard ne approfitta per criticare le tesi metafisiche, adoperanti la dialettica di tipo soltanto razionalistico (astrattamente), nella presunzione di scordare come esiste pure quella percettiva (in chiave materiale), che entrando nella vita quotidiana gli sembra persino prioritaria. La caratteristica dell’intimità conferisce alla fiamma la fenomenologia d’una reale fortezza, perché lo spirituale ha in se stesso tutta la potenza dell’universale. Ciò vale in modo dialettico. La candela fisicamente parlando manca della massa, cui associamo l’immagine della fortezza. Benché la fiamma sia labile (mutando rapidamente al soffio del vento), essa consentirà l’apertura di interi mondi di senso. Nella solitudine della notte (della morte), accade che la candela c’infonda una “direzione verticale”. Una linea che l’uomo troverà abbastanza rassicurante, nella regolarità che s’eleva in via trascendentale. Posto innanzi alla candela che illumina i libri, il sapiente si garantisce la possibilità che i pensieri gli “scorrano” proficuamente in testa. Joubert ha scritto che “la fiamma è un fuoco umido”. L’attrazione della candela provoca il “risveglio intellettuale”: alla secchezza della mente si sostituisce lo “scorrimento” del pensiero. Bachelard ricorda che la fiamma scandisce il tempo, dovendo alla fine consumarsi. In particolare, la candela funge da “clessidra che segna in alto”. Quella fino all’ultima combustione può solo ascendere. La clessidra normale ci “innervosisce” di più, perché la sua segnalazione del tempo va “sprofondando”. Nella pesantezza della sabbia accumulata, certo si percepisce tutt’altro che una sublimazione! Più in generale, una fiamma “costruisce” il tempo che può indicare, giacché questo non si dà dovendo “diminuire” (ad anticipare la percezione “negativa” della propria scomparsa, concludendosi). Una luce della candela resterà sempre la stessa, fino al momento in cui si spegnerà. Nella clessidra, invece, la sabbia segnala la durata con un’operazione di continuo “annichilimento”. Bachelard rende “intima” la visione della fiammella, associata a questa la medesima temporalità dell’anima umana. Un’essenza spirituale c’illumina la vita nel medesimo modo: dalla nascita alla morte… E l’anima umana “punterebbe per sempre in alto”. Quantunque ci sia gente che non professa una fede religiosa, ciascuno di noi cerca di realizzarsi, migliorando giorno per giorno la propria condizione di vita. Per Bachelard, la tradizionale clessidra con la sabbia renderebbe intima la stessa temporalità dell’animo umano. Ciascuno di noi attesta una diversa indole. Tra l’altro, quella è soggetta agli sbalzi umorali, reagendo alle singole situazioni di vita, che lasciano uno “strascico” pesante, dietro di loro. Si può precisare la fenomenologia del caso. Per Bachelard, ogni fiamma suggestiona l’intimità del “tempo che scorre”, la clessidra quella della “durata che fugge”. La prima contrassegnerebbe un “corso ordinario”, la seconda una “corsa irregolare”. In fondo, esistono le misure diverse per contenere i granelli di sabbia… Certo nelle candele si scoprirà una fenomenologia più decisiva, che spiega l’opposizione della vita alla morte. Posti davanti alla fiammella, possiamo anche vegliare. Basta che la accendiamo, per scacciare il buio (ovvero la morte). Conosciamo l’espressione popolare per cui a volte “la speranza sta nell’ultima… fiammella”. Una metafora che aprirà all’esistenzialismo! La candela è sempre assai precaria o vacillante (nonostante la continuità del proprio principio di generazione). Basterà un soffio per spegnerla, e basterà una scintilla per poterla riaccendere. La fiamma esprimerebbe in se stessa tutte le contraddizioni della vita umana, nella grande mutevolezza in seno al nostro animo. Peraltro, Bachelard sa bene che la candela si spegne in maniera dolce. Alla fine, quella “s’addormenta per sempre”. Un’espressione che per l’uomo purtroppo non vale in tutti i casi!

La candela è tendenzialmente rilassante da vedere, nonostante “le rughe” della cera. Zecchi ripropone fortemente il primato filosofico della bellezza. Egli sostiene che l’arte ci consente di conoscere. L’estetica esibisce un carattere fortemente filosofico. Zecchi però si convince che il Novecento ha completamente bandito la bellezza dalla propria arte. L’estetica moderna cerca il disarmonico, il disgregato o più semplicemente il brutto. A lungo andare, la rilassatezza del bello rischia di diventare desueta (relativa ad epoche ormai perdute nel tempo). Zecchi però non cerca nemmeno l’edonismo. Egli respinge ogni lettura banalmente estetizzante (d’una bellezza fine a se stessa). Dunque va precisata la sua fenomenologia. La bellezza non sarà fredda (astratta, idealizzante), bensì all’energia d’una perenne trasformazione in se stessa. Zecchi cerca l’estetismo militante (il quale contribuisce al miglioramento del mondo intero), anziché l’estetismo solo “frivolo”. Insomma la bellezza si percepirebbe come “calda”. Zecchi ha recuperato una certa filosofia del romanticismo. Tramite questa, in specie non c’è alcuna differenza tra la forma (l’essenza) di tipo estetico e la forma (l’essenza) di tipo scientifico. Una sottolineatura molto importante… Sia l’arte sia il mito sarebbero accomunati dall’avere un simbolismo. Qualcosa che dovrà “scacciare” la banalità del brutto. Per Zecchi, l’arte nasconde (simboleggia) i significati (parametri) concettuali d’un certo “mondo” per l’uomo. Quelli si faranno tramandare, esattamente come succede per il mito. L’arte paradossalmente va scoperta, togliendone “l’aura simbolistica”. Così, noi capiremmo meglio i significati (parametri) concettuali d’un mondo socioculturale. Zecchi però respinge l’estetizzazione multimediale. Tramite questa, esistono anche il messaggio pubblicitario ed il prodotto di consumo. Anzi a Zecchi interessa l’estetismo militante dell’arte in quanto adibito a garantirci meglio, fra tutte le attività per l’uomo, una Verità sul mondo.

Per natura, noi subiamo la lenta decomposizione, con l’invecchiamento. Sarà la fiamma dell’esistenzialismo? Sartre ricorda che nell’estetica antica si cercava d’eternizzare la forma umana, e spesso confidando nella pietra scolpita. Essa evocava la chance di vincere il deperimento organico, con la “durezza di struttura” (in grado di sopportare meglio il logorio spaziotemporale). Nell’epoca moderna, però, l’uomo ha smesso d’ignorare il suo essere prima di tutto un “soggetto storico” (ovvero in determinate situazioni dell’esistenza). Parimenti, si giudica che il marmo della scultura risulta inalterabile solamente in apparenza. Ma non si tratterebbe tanto d’accettare che comunque l’incedere del tempo logorerà la statua. Piuttosto, bisogna finalmente capire che scolpire il marmo è possibile solo perché lo si “separa”, tagliandone dei pezzi. Una dimensione che si pone in via tutt’altro che eternizzante! Inoltre Sartre ha sostenuto che è paradossale universalizzare con la scultura la fisionomia d’una determinata figura, se di fatto noi la ricaveremmo da un “adattamento” sul nulla d’una pietra contingente. Si scolpisce unicamente nella materia divisibile, pena l’impossibilità di provarci. Ciò significa uno spezzare la percezione del modello che si va immortalando, adattato alla situazione accessoria d’una crepa, d’un incurvamento, d’una concavità ecc… Per Sartre, la scultura contemporanea s’accorgerebbe finalmente di tale paradosso in fenomenologia. Ora, è come se la statua lottasse di continuo contro se stessa, nei tagli e negli aggiustamenti senza cui non potrebbe modellare nulla. Lo scultore Hare sa bene che gli uomini, una volta deceduti, con la decomposizione andranno a “dividersi”, contraddicendo la loro integrità all’esistenza. Da vivi, succede sempre che le nostre azioni permettono di compartecipare del mondo in cui noi ci troviamo. Chi libera un grido, dichiara d’amare e si mette a correre non “si distacca” mai da tali entità. Né vale la loro materialità od astrattezza. L’urlo, l’affetto e la fretta sono dei particolari entro l’unità della persona che li vive. Ciò si chiarisce meglio nel caso delle emozioni, aventi una “vena” per costituzione indefinita (all’indeterminatezza d’un animo che le prova). Anche l’uso degli oggetti esterni rientra sempre nell’unità organica d’una persona, se intesi nel loro aspetto d’una situazione (il quale, dal canto suo, si contraddistingue in via essenzialmente relazionale). Per Sartre, lo scultore Hare scelse di modellare “la presenza della figura”. Qualcosa che valeva in via sia percettiva, sia concettuale. La statua esteticamente ci esibisce l’unità della persona con l’ambiente del suo relazionarsi. Una soluzione esteticamente totalizzante, dove il tempo si dà in via soltanto presente (attualmente). Secondo Sartre, tagliate le gambe d’una statua greca su Apollo, il busto restante può sostituirla lo stesso, benché in modo parziale. Invece la scultura di Hare è tale solo nella sua interezza. Quando ne rompiamo un pezzo, sembra che l’abbiamo distrutta dappertutto! Sartre conclude che così la statua sarebbe irrappresentabile, quantunque essa visivamente non risulti né astratta né solo disegnata. Anche la soluzione dell’allusione viene accantonata. Ogni simbolo va rappresentato esattamente come il preciso oggetto che sottintende. Solo, muta la nostra percezione. Qualcosa che non resterebbe più nel “piano sensoriale (del significante)”, passando in quello “intenzionale (del significato)”. Hare eviterà di scolpire per un’estetica di tipo appena metaforico. Anzi, egli per Sartre non cerca neppure di significare a livello percettivo (a concettualizzare la sua arte mediante l’allusione). In realtà, Hare tenterebbe d’esporre unicamente… la “cosa presente”! Egli concentra il livello più espressivo ed emozionale della forma dentro la coeva dimensione d’una struttura.

Nell’epoca moderna, la tecnica rappresenterebbe il “vero ambiente” all’esteriorità con cui noi relazioniamo. Essa per Galimberti definisce in specie il campo della razionalità assoluta. Tramite quella, non restano i “bordi” per le passioni o le pulsioni dell’uomo. Naturalmente, la tecnica si sviluppa soprattutto dal ‘900 in avanti. Ma essa appare sempre più “insostenibile”, contro la caducità umana. E’ lo stesso ambiente di vita, ed in specie vigendovi le strutture amministrativo e burocratiche della nostra società. La tecnica ha senso solo per la sua capacità al funzionalismo. Essa non ci dà un contenuto ideale, ovvero una Verità. Per Galimberti la tecnica c’impedisce di conoscere mediante i sentimenti, le percezioni, le sensazioni. Contro di quella, è inutile addirittura l’etica tradizionale (all’inizio cristiana, ma poi rivisitata dall’illuminismo di Kant), che pone l’uomo forse ingenuamente al centro del mondo. Anzi, Heidegger coglie la “palla al balzo” per lo stravolgimento fenomenologico. Per lui, nel mondo contemporaneo la tecnica sta al centro dell’uomo. Essa esiste quando “funziona”. Ma per Galimberti la tecnica dipende comunque dall’uomo. Egli prima costruisce, e poi regola, qualsivoglia funzionalismo. Purtroppo, pare che la scienza sempre più si faccia controllare dalla tecnica presa in se stessa… In opposizione a questo, l’etica si renderebbe quasi patetica. C’è il serio rischio che la tecnica raggiunga “l’immunità dell’indipendenza”, dominando sull’uomo? Forse, l’etica tradizionale si limiterebbe per il fatto di regolare esclusivamente i rapporti sociali. La fenomenologia qui conta molto. L’etica tradizionale comanda sulle intenzioni degli uomini, non sugli effetti delle loro azioni. Purtroppo, nell’età contemporanea la scienza e la tecnica funzionano in via sempre più “imprevedibile”. Galimberti s’augura che riscopriamo una nuova morale. Qualcosa che tenga conto anche della natura in senso lato: dell’aria, dell’acqua, degli animali ecc… Oggi, in Occidente si dipende interamente dall’apparato tecnico. E’ la vita dell’uomo-protesi, come sosteneva Freud. Vige un esistenzialismo “dalle mille contraddizioni”. Per esempio, se l’umanità vuole salvare se stessa ed il mondo dagli errori d’un dominio tecnico (l’inquinamento, il terrorismo, la povertà ecc…), è solo grazie a quest’ultimo che l’obiettivo si raggiunge. Il progresso già lo sa, da molti anni. Si progettano i depuratori per le fabbriche, i cibi confezionati, i grattacieli antiaerei e così via… La scienza è comunque un’attività pensante. Forse, essa potrebbe diventare il “controllore etico” della tecnica. Dunque, bisogna che recuperiamo il valore umanistico della scienza. Essa sarà al servizio del progresso umano.

Sartre ci ricorda che Hare non ha scolpito “un gorilla che inorridisce”, bensì un “orrore che assume la figura del gorilla”. In tal modo, sarà possibile esibire l’unità organica della forma con la propria “situazione di spazio e tempo”. Per il caso già citato, funzionerà un’espressività assai drammatica. La scelta di Hare impedisce il rappresentare, perché la percezione dell’astrazione e quella della figurazione appaiono “condensate” fra di loro. A Sartre, qui interessa il commentare l’ambivalenza dell’estetica. Detto che il “punto di partenza” visivamente parlando (ovvero, per il contemporaneo spettatore) appartiene all’astrattezza espressiva (la quale giocoforza avrà una vena sempre indistinta e vaga), quest’ultima non resta mai fine a se stessa. Hare rinuncerà a rappresentare una mera indeterminazione dell’emozione. Piuttosto, tutta l’astrattezza del livello espressivo si “contraddirebbe”, configurandosi tramite un qualcosa che oggettivamente non la potrebbe mai configurare. Nell’esempio citato, Sartre concluderà che Hare esibisce “una sorta d’orrore che… gorilleggia”! Abbandonato il campo appena figurativo della bestia, che ci esprime un dramma di sé, ma rinunciando pure a rappresentare come questo s’astragga “da solo” (restando fine a se stesso), l’ultima chance per l’estetica chiede di “configurare l’espressione dell’astratto”, in chiave immediatamente irrappresentabile. Nel caso precedente, accadrà che il gorilla “condensi” interamente l’emozione dell’orrore. La venatura astratta del piano espressivo troverà una figurazione di tipo solamente… “vaporoso” (svanente), perché così si tratterà d’una rappresentazione subito contraddittoria. Gli oggetti scolpiti da Hare si congiungeranno al proprio ambiente d’esistenza, “contorcendo” questo in se stesso. La carica espressiva della figura s’astrarrà mentre si “concentrerà” nello spazio al di fuori (situazionale), quasi a “rannicchiarsi” sul piano assolutamente unico del tempo presente. La scultura diventa “indecomponibile”, contro le regole del modellamento greco (di taglio classicistico). Le numerose statue di Hare non rappresentano nulla, tranne che una “compressione confusa di percezioni espressive, mescolate insieme”. Per Sartre, le sue sculture sono inosservabili, siccome lo sguardo tende a “scomporre e ricomporre” quello che punta, delineando la figura (che consta di limiti particolari). Ogni statua di Hare pare indivisibile, ma nel contempo lungi dal diventare astratta in una maniera puramente intellettuale. Di nuovo, l’oggetto esterno, a cui la figura umana andrà rivolgendosi, sarà colto nella sua “contorsione… sulla situazione per l’esteriorità”. Nelle statue di Hare, l’intenzione che ci spinge allo spazio circostante (con tutte le cose materiali) “fuggirà” da se stessa in maniera… convulsa. Quasi parrà un “rapire” l’esteriorità della propria situazione. La figura scolpita ha una gestualità per così dire “felpata” (tanto dolce quanto decisa), esattamente come accadrebbe nella pienezza (nell’attualità) d’una concentrazione. Hare non disdegna dunque il vitalismo estetico, da cui tuttavia “svuota” le allusioni simboliche. La gestualità della figura paradossalmente trattiene in questa l’apertura al suo ambiente d’esistenza, dove interagisce. Alla fine la statua di Hare avrà uno spazio per così dire… totalmente presente. Di conseguenza, la sua scultura non è spostabile, semplicemente perché bisognerebbe rimuoverne pure la situazione circostante, concentrata in quella. Nella statua di Hare, la figura tende allo spazio esterno facendo in modo che lo “consumi”, nella dimensione immaginaria del “tempo totalmente presente”. Nelle sue sculture, l’intenzione percettiva è sempre di tipo “comprimente” (concentrante), per cui esisterà solo logorando di continuo se stessa. Diversamente, se essa presentasse una direzione vettoriale, bisognerebbe che si mantenesse nel tempo. E la relazione della figura con la sua situazione per un ambiente non va a delinearsi, ma a scomparire nell’unità d’entrambe. Bisogna capire la giusta fenomenologia del caso. L’intenzione percettiva non sarà più rappresentata (direzionale), bensì in… “persistenza”, ovvero perdutamente “compressa in se stessa”. Sartre dice che la figura scolpita da Hare “ha la febbre”, manifestandoci un dinamismo sensoriale che per certi versi la “corrugherebbe” a livello concettuale.

 


Paolo Meneghetti

Paolo Meneghetti, critico d’estetica contemporanea, nasce nel 1979 a Bassano del Grappa (VI), città dove vive da sempre. Laureato in filosofia all’Università di Padova (nel 2004), egli ha scritto una tesi sull’ estetica contemporanea, in specie allacciando l’ ermeneutica di Vattimo alla fenomenologia francese (da Bachelard, Bataille, Deleuze, Derrida). Oggi Paolo Meneghetti scrive recensioni per artisti, registi, modelle, fotografi e scrittori, curando eventi (mostre o conferenze) per loro, presso musei pubblici, fondazioni culturali, galleristi privati ecc... Egli in aggiunta lavora come docente di Storia e Filosofia, presso i licei del vicentino.

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