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Categoria: Etica, Metaetica e Morale

La dignità come proprietà morale formale e sostanziale del soggetto morale

La dignità è una parola che viene usata ordinariamente per indicare il riconoscimento del diritto di esistere, ovvero non esattamente il diritto in sé quanto la sua attribuzione a qualcuno. Eppure, definire la dignità è un problema non ordinario proprio perché sembra che la parola sia un valore elementare e inalienabile dell’individuo umano. Eppure molto del dibattito pubblico incentrato su questo termine risulta piuttosto insoddisfacente. Non è mio interesse qui fare una analisi storica del concetto, ma vorrei proporre alcune distinzioni e chiarificazioni su questo termine per poi proporre una posizione in linea con l’approccio morale neo-kantiano che ho proposto in altro loco.

La dignità è una parola ambigua perché identifica due generi diversi di proprietà. Anche senza ancora definire la parola, si può distinguere un uso de re da un uso de dicto della dignità. In un caso, la dignità è attribuita da qualcuno a qualcun altro o a qualcos’altro (uso de dicto). Nell’altro caso, la parola viene invece considerata nell’oggetto (de re), ovvero il fondamento ultimo della sua ragion morale. Alcune parole ammettono una distinzione de re e de dicto che, però, non si distinguono così tanto nettamente: posso attribuire una credenza a Giulio Cesare (uso de dicto della parola “credenza”) che è anche proprio in Giulio Cesare (uso de re della parola). Per rendere invece evidente il caso di divergenza dei due tipi di uso, ad esempio quando attribuisco una credenza ad un organismo molto semplice (“un virus crede di farla franca rispetto al sistema immunitario”…) sto usando la parola “credenza” in senso de dicto ma non de re (un organismo unicellulare non ha credenze). Nel caso della parola “dignità” le cose stanno diversamente. Infatti, posso attribuire dignità anche ad altri esseri o oggetti nei quali non si può dire che la parola assuma lo stesso significato che nel caso in cui essa venga applicata (per esempio) a se stessi. Posso attribuire una certa dignità ad un cane ma la mia dignità è qualcosa di connaturato a me stesso ed è presente anche se nessuno me la riconoscesse.

La banalità del male – Hannah Arendt


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Malgrado gli sforzi del Pubblico ministero, chiunque poteva vedere che quest’uomo [Eichmann] non era un “mostro”, ma era difficile non sospettare che fosse un buffone.

La banalità del male – Hanna Arendt

 

La banalità del male è una riflessione sull’olocausto, incentrata e sviluppata sulla base del reportage sul processo a Adolf Eichmann (1906-1962), tenuto a Gerusalemme, sotto un tribunale israeliano. Hannah Arendt non si limita solamente a riportare i fatti emersi all’interno del processo, ma amplia continuamente il discorso sulla storia dei fatti principali dell’olocausto. Non è un libro che ricostruisce la storia degli eventi della Germania Nazista e non ha l’intento di esaurire nessun genere di argomento, ma solo di considerare il ruolo di un uomo all’interno dell’organizzazione nazista dell’olocausto.

Dei delitti e delle pene – Cesare Beccaria

[Q]uando la norma del giusto o dell’ingiusto, che deve dirigere le azioni sì del cittadino filosofo, non è un affare di controversia, ma di fatto, allora i sudditi non sono soggetti alle piccole tirannie di molti, tanto più crudeli quanto è minore la distanza fra chi soffre e chi fa soffrire, più fatali che quelle di un solo perché il dispotismo di molti non è correggibile che dal dispotismo di un solo e la crudeltà di un dispotico è proporzionata non alla forza, ma agli ostacoli.

Qual esempio alla nazione sarebbe poi se si mancasse all’impunità promessa, e che per dotte cavillazioni si strascinasse al supplicio ad onta della fede pubblica chi ha corrisposto all’invito delle leggi! Non sono rari nelle nazioni tali esempi, e perciò rari non sono coloro che non hanno una nazione altra idea che di una macchina complicata, di cui il più destro e il più potente ne muovono a lor talento gli ordigni…

Cesare Beccaria – Dei delitti e delle pene


  1. Introduzione ai fondamenti del trattato

Dei delitti e delle pene (1764) è uno dei più importanti studi filosofici del secolo dei Lumi e rimane ancora oggi una pietra miliare della filosofia del diritto e della filosofia politica. L’autore, Cesare Beccaria, era un nobile facoltoso che, grazie all’educazione religiosa e rigida dell’epoca, unita ad un’intelligenza fuori dall’ordinario, era riuscito a vivere una vita irta di problemi: aveva preso le distanze (anche economiche, dettaglio diremmo indice dello spirito di Beccaria) dalla famiglia e sposato una donna, da alcuni definita “volubile”. Alle difficoltà della vita e di un carattere complesso, sicuramente inadatto a mantenersi nella società mondana, Beccaria studia i principali autori illuministi, tra cui Diderot e Hume. Di quest’ultimo senza dubbio deve aver letto il Trattato sulla natura umana, perché si trova continuamente traccia della nozione di idea come aggregato di percezioni sensibili e di come, di fatto, la stessa conoscenza umana sia esclusivamente un aggregato di percezioni e sentimenti correlati ad esse. Infine, dopo aver lavorato anche come maestro, Beccaria diventa infine un magistrato. [Se vuoi scaricare l’articolo in pdf.: vai qui]

La morte e la gestione dell’anziano – Due problemi attuali perché eterni

Abstract

In questo articolo cercheremo di mostrare perché la gestione dell’anziano e la morte sono così problematici all’interno della società della complessità. Non si vuole ammettere che oltre alle evidenti questioni economiche e logistiche, c’è una questione morale la cui decisione comunque determinerà una variazione di tutte le relazioni umane presenti nella rete sociale della famiglia. La revisione dei rapporti sociali, fondati su norme non scritte e, perciò, ancora più rigide e aleatorie, è un’operazione delicata e difficile. Non solo, ma la possibilità di risolvere in modo adeguato il problema dipenderà esclusivamente dalla capacità di saper riadattare la propria relazione con tutti gli altri membri della famiglia e tutti devono fare, perciò, la loro parte.


Quando nasce un figlio nascono immediatamente una rete di relazioni tra i familiari e il nuovo venuto, supponendo che il bambino nasca in una famiglia normale. Chiamiamo a il bambino, la madre m e il padre p e così di seguito i vari familiari. Come minimo, non solo si forma una relazione R tale che R(m,a) e R(p,a), ma anche una nuova relazione !R tale che

 

!R(R(m,p), R(m,a), R(p,a) implica R(m,p,a)),

dove !R è una relazione che sancisce che esiste una connessione tra tutti i membri della famiglia. Si noti che !R è una relazione che richiede l’implicazione della relazione R(m,p,a): infatti la sussistenza delle sole relazioni a due posti di madre e di padre e di matrimonio non determinano di per sé l’esistenza della famiglia. Per esempio, supponiamo che il figlio sia dato in adozione: le relazioni R sono tutte mantenute (il padre rimane il padre, la madre la madre e la madre e il padre magari rimangono sposati) ma non si ha la relazione !R! Quindi la definizione di un nucleo familiare, la relazione !R, è superiore alla semplice somma degli individui ma anche alle loro relazioni umane tra loro. E non è un caso, infatti, che la nozione di “famiglia” sia considerata, nella sua vaghezza, un valore indipendente dalla somma degli individui, sia da un punto di vista legale, che religioso e morale. E il motivo è semplicemente quello che abbiamo mostrato.

Libertà, volontà e legge morale: una posizione causale neo-kantiana della moralità

Abstract

In questo articolo proponiamo una teoria causale della moralità kantiana, riconsiderando la posizione di Immanuel Kant sulla base di una certa interpretazione spinoziana della volontà umana e della libertà. L’analisi non riporta la storia delle idee ma solamente una posizione causale dell’imperativo categorico kantiano e del valore della responsabilità umana pur parte di una totalità eccedente la sua singola capacità di azione.


Il tema della libertà è uno dei più antichi dell’intera storia della filosofia. Ogni generazione filosofica, che impiega secoli per subentrare alla precedente, ha avuto la sua fitta analisi sulla libertà. Non è questo il posto per la storia dell’idea né per la ricostruzione recente del dibattito. Quanto ci proponiamo di fare, qui, è solamente fornire una analisi generale di un possibile tipo di approccio alla nozione di libertà.

Innanzi tutto, la libertà è una proprietà di alcuni esseri, tra cui forse gli esseri umani. C’è un generale consenso sul fatto che le cose non abbiano a disposizione alcun genere di libertà. Questo perché, in genere, si ritiene che la libertà abbia a che fare con una volontà, ovvero con la capacità di prendere decisioni sulla base di intenzioni. Tuttavia, allo stesso tempo, si ritiene che la stessa volontà abbia dei limiti e le sue decisioni sono influenzate da cause esterne che prendono varie forme. Quindi, una volontà libera è comunque sempre limitata. La relazione tra soggetto e mondo determina la misura della libertà, che è quindi espressa da un predicato a due posti e non è di natura categorica. Si è più o meno liberi, più o meno vincolati dal mondo.

Il liberalismo di John Rawls

John_Rawls

Abstract

In questo articolo consideriamo la posizione filosofica politica del liberalismo di John Rawls, almeno nella sua versione declinata nel libro di Robert B. Talisse (2009)[1]. Rawls è senza dubbio uno dei più influenti filosofi del XX secolo e la sua posizione in filosofia politica è, giustamente, ritenuta tra le più influenti nel dibattito. Non si tratta di un testo specialistico, sicché il lettore è invitato a continuare la ricerca autonomamente.


John Rawls (1921-2002) è stato uno dei massimi filosofi americani del XX secolo. I suoi interessi si sono focalizzati soprattutto nella filosofia politica e nella filosofia morale. In questo breve articolo cercheremo di enucleare alcuni punti della sua posizione politica, tra quelle ormai considerate canoniche nell’ambito della filosofia politica recente. Questa analisi riprende la posizione rawlsiana soprattutto per come viene declinata da Talisse (2009).

Sulle limitazioni delle adozioni

Voglio presentare un semplice argomento che ho costruito dibattendo con altri amici. Non mi impegno a sostenere che sia la mia opinione né immagino che la mia opinione interessi a nessuno. Sicché non mi prenderò la briga di accettare critiche inutili, faziose o capziose in tal senso. Si tratta di un dilemma filosoficamente interessante e ne propongo solo un’analisi rapida. Inoltre l’obiettivo è stimolare il ragionamento del lettore, dato che il mio fu a suo tempo già solleticato in materia e quindi offro solo la linea argomentativa senza entrare né nel merito politico né in quello morale.

(1) I bambini che possono essere adottati hanno condizioni di vita tale che la loro esistenza può risultarne seriamente compromessa oppure il loro inserimento in società è altamente difficoltoso.

(2) Salvare la vita di un bambino o dargli l’opportunità di vivere felicemente in società sono valori intrinseci.

(3) Una coppia che voglia adottare un bambino nel peggiore dei casi non migliora la vita del bambino, già di per sé compromessa.

Recensione di Scheler, M. Pudore e sentimento del pudore

Di Scheler, quello pubblicato l’anno scorso da Mimesis, tradotto in italiano a cura di Maria Teresa Pansera, col titolo Pudore e sentimento del pudore, è uno scritto che apparve postumo nel 1933. Siamo comunque di fronte al miglior Scheler, filosofo che seppe con intuizione prodigiosa e massima capacità analitica indagare attorno alla vita emotiva e mentale dell’uomo.
Pudore e sentimento del pudore è un’organica raccolta di scritti che compongono lo svolgimento di un’indagine sottile, condotta con mirabile ingegno analitico, attorno al tema dell’essenza del pudore, del sentimento del pudore, ma, in definitiva, dell’uomo e delle sue relazioni amorose.

Un argomento per l’impensabilità della morte

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Se io penso me morto, allora non penso me morto. Perché penso. Se penso non posso pensare alla sospensione del pensiero, proprio perché sto pensando (un effetto collaterale della prova cartesiana dell’esistenza indubitabile del cogito). Se con “morte” intendo il mio “annullamento” allora la morte non la posso immaginare. Se con “morte” intendo “trasformazione materiale del mio corpo” allora sto limitando di molto questo annullamento. E allora l’unica conclusione coerente è ammettere che la morte è prospettabile ma non immaginabile. Io penso, infatti, che molte prospettive religiose si costituiscano proprio sul fatto che concepire sé come morti è impossibile logicamente e psicologicamente. In fondo, niente mi lascia supporre che io debba morire se non il fatto che gli altri muoiono.