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Qualità primarie e qualità secondarie – Una breve storia dell’empirismo

John Locke
Godfrey Kneller, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

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Il problema di cosa siano le proprietà delle cose, se esse siano nelle cose o concepite dalla mente umana è un problema antico quanto la Filosofia stessa. Ne parla già Platone, che vedeva le proprietà le idee, indipendenti e immateriali esistenti in un mondo distinto dal nostro. Ma subito il suo discepolo Aristotele critica tale concezione in modo molto preciso sostenendo l’implausibilità del mondo delle idee e la necessaria concezione empirista: le proprietà delle cose sono nelle cose e le conosciamo attraverso la percezione.

Ci sono dei periodi storici in cui l’operazione più importante consiste nel riprendere problemi antichi e rileggerli in chiave più attuale. Oggi viviamo in un periodo simile, in cui i problemi e il linguaggio della filosofia moderna costituiscono la base della nostra concezione filosofica ma sono ormai obsoleti, soprattutto in senso formale. Non è un caso che un linguista attento e geniale come Chomsky si rifaccia direttamente ai capisaldi della filosofia moderna per ritrovare le radici della sua concezione linguistica. In filosofia della mente non ci si può sottrarre dal dialogare con pensatori come Cartesio, Hume e Kant, ma anche con Berkeley, Locke, Spinoza o Hegel. Ma è chiaro che quegli stessi problemi e quelle stesse soluzioni e le stesse loro parole non ci piacciono più. E’ importante, dunque, oggi riuscire a ritrovare nelle radici della modernità i problemi da affrontare per consegnarli al patrimonio dell’umanità che ha da venire. Un compito, questo, non facile e pericoloso, per via del fatto che con l’attualizzazione si finisce spesso per dimenticare pezzi qui e là o per fraintendere.

Nell’epoca moderna, il dibattito fu accanito intorno alla natura della conoscenza, in particolare tra empirismo e realismo. La corrente empirista fu iniziata da Hobbes in opposizione al realismo cartesiano che fondava la conoscenza sulle idee innate. Soprattutto, però, fu Locke a proporre una posizione più argomentata del problema: ciò che conosciamo è interamente riassunto dalle nostre percezioni, le idee innate sono una chimera filosofica. Locke parla di idee sensibili semplici e idee complesse. Le idee sensibili semplici sono gli atomi della nostra percezione, i singoli punti, mentre le idee sensibili complesse sono aggregati di percezione, come il color rosso rispetto ai singoli punti rossi. Noi, diceva Locke, conosciamo soprattutto attraverso queste idee sensibili complesse. Ma il problema, iniziato con Platone, è quello delle proprietà.

Le proprietà degli oggetti sono, in generale, ciò che inerisce agli oggetti stessi: il colore, la densità, la durezza, la forma geometrica. Tuttavia, vanno inclusi anche gli odori, i sapori perché ogni qual volta che annusiamo una succulenta pizza in noi perviene una certa sensazione. Locke, però, opera una distinzione importante, già anticipata da Spinoza: ci sono proprietà primarie e proprietà secondarie.

Le proprietà primarie sono quelle proprietà che compaiono nella definizione proposizionale dell’oggetto: quando diciamo che “un dado è un cubo” vogliamo dire che “tutte le proprietà geometriche del dado sono identiche a quelle di un cubo”. Questa definizione (parziale, perché un dado non è solo una forma geometrica) mostra una serie di proprietà che appartengono al dado. La relazione di “appartenenza” è, in questo caso, forte. Se il dado non avesse sei facce, non lo sarebbe più. Questo vale anche per la durezza: un dado immateriale non è un dado, al limite è la mia idea di dado. Dunque, l’esistenza del dado e delle sue proprietà primarie sono indipendenti da me e esistenti nella cosa. Che un tavolo abbia le gambe non dipende da me, quanto dal fatto che non sarebbe più un tavolo senza etc..

Tuttavia, ci sono molte proprietà che non sono direttamente nell’oggetto, sebbene noi le concepiamo lo stesso. Il colore rosso di una rosa non è nella rosa, ma nella radiazione della luce, così il suo odore dipende direttamente dall’aria e dalle nostre narici. Oppure il rumore di un’automobile non è una proprietà primaria. Queste qualità non sono negli oggetti, ma grazie ad esse noi li conosciamo.

Locke, in realtà, poneva un terzo genere di idea, che era quella del “potere”, cioè la capacità di una certa idea di generarne un’altra. L’esempio era dell’oro fuso che si solidifica in oro. Abbiamo tutta una serie di contenuti mentali che generano in noi altri contenuti mentali e questi mostrano qualcosa che avviene fuori di noi: l’idea dell’oro che da fuso diventa solido non ci mostra esclusivamente qualcosa che è nel nostro intelletto, ma ci indica quale processo avvenga nella realtà. Locke, sebbene critica le idee innate e anche il concetto di sostanza, non arriva al radicalismo empirico di Hume. Locke non arriva a negare la validità del principio di causa come forma certa di conoscenza, sebbene già era una forma di relazione tra idee (e non di implicazione logica come in Spinoza). Hume non sostiene che il principio di causa sia da eliminare dall’apparato teorico ma solo perché noi non disponiamo di meglio. La connessione tra causa ed effetto non è nel fenomeno ma nelle idee. Ma questa connessione non è necessaria: essa non è a priori, come l’identità, essa è determinata dal fatto che vediamo uniti insieme due fenomeni distinti in modo che i due si somiglino e siano attigui nello spazio e nel tempo. Prendiamo il caso di una partita di biliardo e l’urto della stecca e della palla. Quando vediamo che la stecca si muove e trasmette il movimento alla palla noi diciamo che la forza impressa dal bastone è causa del movimento della boccia. Ma prendiamo il caso che la palla fosse di piombo e che si muovesse perché qualcuno sotto il tavolo la spostasse con una potente calamita. Se noi fossimo il giocatore di biliardo, probabilmente non noteremmo nulla e crederemmo che la causa non fosse che il nostro movimento. Altri fenomeni interessanti sono le relazioni di causa a distanza: se non avessimo mai visto una macchina telecomandata, non penseremmo mai che essa si muove a seguito di una serie di fenomeni connessi tra loro ma per qualche ragione interna. Ancora una volta, la conoscenza delle cause e degli effetti dipende interamente dalla relazione di somiglianza tra idee e la contiguità spaziotemporale.

Ma il problema è: come è possibile che noi conosciamo le proprietà primarie delle idee dalle idee secondarie? Se l’esser quadrata di una presina è una proprietà primaria e l’esser gialla è una proprietà secondaria, ciò nonostante non possiamo negare che noi perveniamo alla conoscenza della quadratezza della presina dal fatto che essa è gialla. Sembra che ci sia una sovrapposizione: la proprietà primaria “esser-quadrato” è sovrapposta alla proprietà secondaria “esser-giallo”. Locke semplicemente si limita ad osservare che esser-quadrato è inerente alla cosa, l’esser-giallo no.

Un filosofo poco amato e relativamente meno ascoltato di Hume fu Berkeley, noto soprattutto per la ben nota massima “essere è essere percepito”. Questo principio fu pienamente accettato da Hume che lo eleva a massima scoperta intorno alla natura della conoscenza. Berkeley sosteneva proprio che non esiste alcuna distinzione tra proprietà primarie e proprietà secondarie. Egli è il primo sostenitore di un empirismo radicale dove tutta la nostra conoscenza è limitata alle impressioni sensibili e, dunque, non ai corpi fisici. Questi non sono altro che collezioni di sensazioni unite insieme e contemplate così, nella loro unità. Berkeley sostiene che della materia non possiamo avere idea. Già in Locke si poteva rintracciare questa critica, sebbene egli non la tracci. Berkeley invece osserva che non è possibile in alcun modo stabilire, in base alla nostra sola percezione, se la materia esista. Anzi, per Berkeley, ciò che causa le nostre percezioni è Dio stesso.

Hume accetta la caduta della distinzione tra proprietà primarie e proprietà secondarie. Consolida la caduta della plausibilità dell’idea di sostanza (ciò che causa di sé). Osserviamo che la nozione di “sostanza” ha una tradizione illustre che parte da Aristotele per giungere fino a Cartesio e il suo dualismo di sostanze e Spinoza. Alla posizione di Locke, Hume aggiunge la critica alla connessione causale che è rivolta in particolare alla concezione sostanziale di Spinoza che, però, rimane una buona alternativa, sebbene poco conosciuta e poco ascoltata. Ad ogni modo, per quanto riguarda le proprietà delle cose, Hume la pensa esattamente come Berkeley: ciò che chiamiamo “oggetti” non sono altro che un insieme di percezioni, motivo per il quale le idee che generiamo per astrazione non sono che contenuti mentali sbiaditi rispetto a quelli originali. I risultati di tale processo sono, dunque, idee di seconda mano ma, d’altra parte, esse costituiscono la base della nostra memoria e, in ultima analisi, nascono dalla percezione. Per tanto, si tratta pur sempre di conoscenza empirica adeguata. Ma il punto rimane chiaro: qualunque nostra idea se è tale è percepibile e tutto ciò che di essa si esperisce è inerente ad essa. Ritornando all’esempio della presina, noi possiamo solo dire che essa è quadrata in quanto essa è colorata giacché non esiste nessun’idea di un oggetto che non sia anche dotata di colore. Se la nostra conoscenza è pura empiria allora non possiamo che pensare nei termini di quella. Dunque, ciò che possiamo sapere non è se esistano dei corpi esterni, quando come sono fatte le nostre stesse idee. E queste, a meno di parlare di idee prive di qualsiasi contenuto (come le assurdità filosofiche che riguardano la nozione di sostanza) sono definite da quelle che Locke chiama “proprietà secondarie”.

Kant riprenderà tale concezione, sviluppando il problema. Kant ritiene che la nostra conoscenza incominci con l’esperienza, sebbene non si riconduca interamente ad essa. Sono possibili molte formulazioni del giudizio: sintetico a posteriori, sintetico a priori e analitico. A noi interessa solo quello sintetico. Ciò che noi conosciamo è il fenomeno che è il risultato della sistemazione delle nostre sensazioni attraverso le categorie di spazio e tempo. Il fenomeno è, dunque, il risultato della ricostruzione delle sensazioni in un’unità nella nostra attività cognitiva. Le relazioni tra idee sono stabilite a priori dalle nostre categorie mentali, quantità, modo, relazione, causalità etc.. In questo senso, la conoscenza delle proprietà degli oggetti è determinata in modo duplice dal fenomeno e dalle nostre categorie dell’intelletto. Ma le proprietà non sono più distinguibili tra primarie e secondarie giacché noi abbiamo esclusivamente fenomeni e il fenomeno della presina gialla è quella di un oggetto dotato di una certa grandezza, colore etc.. Anche Kant accetta l’idea che non ci sia distinzione tra proprietà primarie e secondarie giacché tutte queste si predicano del fenomeno e non si collocano al di là di esso. Probabilmente, più si scende nel dettaglio e più si riescono a discernere eventi distinti. E’ interessante che Quine nel noto saggio sui due dogmi dell’empirismo, osserva che Carnap non si era reso conto che nella sua descrizione degli eventi come costellazioni di percezioni dove ciascuna percezione era definita da quattro variabili (spazio-tempo) e una qualità, che la qualità era sovrapposta in modo incomprensibile alla descrizione quantitativa. Per Kant non si pone questo problema giacché è solo una questione di formulazione di giudizio ma non di distinzione nel fenomeno dire che “la presina è gialla” piuttosto che “la presina è di lino” etc.. Il giudizio poteva comprendere benissimo entrambe le proposizioni e rimanere vero perché si riferisce ad un unico fenomeno dove proprietà primarie e secondarie rimangono inscindibili. Per Carnap, invece, c’è una scissione, cioè tra l’aspetto fattuale e l’aspetto qualitativo non c’è relazione e Quine acutamente l’osserva.

A questo punto possiamo venire al dibattito più attuale. Possiamo propendere per un realismo empirico oppure per un realismo scientifico. Il realismo empirico difende l’intuizione secondo cui ciò che esperiamo mostra la realtà. La questione è se con “realtà” bisogna intendere esclusivamente gli oggetti e le loro proprietà primarie oppure anche le loro proprietà secondarie. Nell’intuizione standard, potremmo dire che la realtà è effettivamente oggetti declinati in somme di proprietà primarie e secondarie. Se diciamo “il mio computer è grigio” non stiamo a sottilizzare che il “grigio” è un colore e che esso è mediato dalle condizioni di luce e che la luce è un mezzo e non sta nell’oggetto e che, in ultima analisi, non si può dire che l’oggetto sia di un colore piuttosto che un altro. Se facessimo questo ragionamento (provare per credere) si verrebbe presto presi per fessi. Noi concepiamo il mondo come somme di proprietà primarie e secondarie. D’altra parte, quando vogliamo definire gli oggetti in categorie generali, indipendentemente dal fatto che essi siano o meno generalizzazioni di proposizioni singolari, ci interessa elencare le sole proprietà primarie e non le proprietà secondarie.

Il punto di vista opposto è il realismo scientifico. Esso ritiene che sia la scienza a dirci come stanno le cose. Abbiamo già osservato che il rumore di una macchina non è la macchina, la luce riflessa di un automobile non è l’automobile, la luce del sole non è il sole. Gli oggetti, come li vediamo, sono poi collezioni di atomi e gli atomi sono a loro volta degli aggregati complessi di elettroni e così via. La stessa distinzione tra materia ed energia sembra essere stata messa in discussione. Con tutto questo quando uno mi da una tazza in testa, non sto ad indagare se la botta sia dovuta a ciò che conosco come un insieme di proprietà, come la durezza (soprattutto!), il colore, la forma geometrica etc.. Inoltre, non è affatto detto che la scienza ci dica come stanno le cose, ma potrebbe benissimo essere che essa costruisca le sue teorie in base alla loro migliore adattabilità, alla loro “funzionalità”, non tanto nel senso dell’utilità, quanto nel riuscire ad essere più capaci di spiegare alcuni fenomeni. Dunque, non è affatto automatico riconoscere che la scienza ci disveli il mondo per quello che è, senz’altro è un modo utile di concepirlo.

Per chiunque voglia approfondire gli argomenti, si suggeriamo la lettura dei testi in bibliografia.


Bibliografia

Berkeley, G., Trattato sui principi della conoscenza umana, UTET, Torino, Da “Opere filosofiche”, a cura di Silvia Parigi.

Hobbes T., Leviatano, Laterza, Roma-Bari, 2004.

Hume D., Trattato sulla natura umana, Bompiani, Milano, 2001.

Kant I., Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari, 2003.

Locke J. Saggio sull’intelletto umano, Laterza, Roma-Bari, 2001.

Quine O.V., Due dogmi dell’empirismo, in Filosofia del linguaggio, Raffaello-Cortina, Milano, 2003.

Vassallo N., Teoria della conoscenza, Laterza, Roma-Bari, 2003.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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