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Una “sete di successo” per il piccione… lavatore

Alla Biennale di Venezia 2022, si può visitare il Padiglione Nazionale dell’Argentina, con le installazioni oniriche dell’artista Monica Heller. Esteticamente, lei c’invita a percepire che “tramonti” il principio per cui < noi siamo sulla stessa “barca” >, citando l’esistenzialismo. Simbolicamente, al rostro per uno “sfondamento” conoscitivo si sostituiranno le Colonne d’Ercole per una limitazione “sospettosa”. Si raffigura l’antropomorfismo, in una satira sui ritmi normali della vita. Grazie alla tecnica, esasperiamo l’impulso a civilizzare l’intero mondo. Qualcosa che avrebbe la sua miniatura, artisticamente, sul formato GIF per tenerci “incollati” al mero “tramonto” del realismo. Nella società tecnologica, le Colonne d’Ercole della curiosità conoscitiva diventano le sliding doors del dubbio valutativo. Se noi < stiamo sulla stessa “barca” >, ciò accade perché le scoperte scientifiche accelerano a dismisura. Si reagirà frenando, in accordo coi “paletti” dell’etica. A Monica Heller interessa comunque la satira sulle “gabbie” del loop. A Venezia, il titolo della sua mostra appare tautologico: L’importanza dell’Origine sarà importata dall’origine della sostanza. Fra la volontà dell’idealismo e la “gravità” del materialismo, dibattere sul primato dell’una sull’altra rappresenta una “lunga storia”… Ma il progresso tecnologico, sempre più in combutta con l’immaginario, non sa da che parte andare. Lungi dall’emancipare, ci si “ferma” alla coreografia stantia. L’allestimento della mostra veneziana si percepisce come psichedelico, mediante un’illuminazione fra il blu ed il viola, virtualmente all’atmosfera serale. Invero per Monica Heller è una citazione: sulle sale da bingo, in Argentina. Il loop potrà simboleggiare l’ansia che ci tiene “incollati” all’estrazione mai finale, spinti a procrastinare la vincita… delle vincite. Eppure la casualità dovrebbe insospettirci, onde evitare che si sperperi il proprio patrimonio. La slot machine avrà la manovella a Colonna d’Ercole sulla “barca naufragata” d’una dipendenza. Là il “si tira avanti” per vivere diventa arduo. I personaggi animati di Monica Heller paiono sempre in balia del caso, fra le reazioni stereotipate per un lirismo d’assurdo. Noi percepiamo che “si squagli” l’ingranaggio del metabolismo, e come per un orologio le cui lancette non scandiscono più la durata temporale. Guardiamo con sospetto ai corpi artificiosamente ricomponibili di taluni personaggi. Subentra la distopia del cyborg, avente dei gadgets che si limitano a sfondare, senza penetrare (capendo) l’ambiente d’un vissuto. Alle volte è l’immagine rovesciata in verticale che funge da Colonna d’Ercole, a confondere l’orizzonte d’una riva in cui approdare. La tecnologia moderna favorisce una sorta di surrealismo al “fai da te”, attraverso gli usi “infinitamente” varianti delle applicazioni. Su questo Monica Heller tende ad ironizzare. L’artificiosità stereotipata dei suoi personaggi quasi ci suscita “tenerezza”, agli inciampi del loro esistenzialismo, in specie se antropomorfico. Si tratta anche di svelare il messaggio subliminale dell’intrattenimento, essendo questo “freddamente” calcolato dal capitalismo. A Venezia, l’artista ha proposto essenzialmente la videoinstallazione. La tecnica del 3D si presta meglio ad una satira sull’intrattenimento commerciale ormai al mainstream. La sua capacità d’allacciare l’immaginario al cognitivismo, passando dai sensi corporei, per Monica Heller deve finalmente garantirsi una limitazione. Altrimenti noi non vivremo più, fra gli stereotipi preimpostati delle applicazioni. Se si cercasse quantomeno il lirismo della coreografia, forse converrebbe essere onesti fino in fondo, andando a demistificarlo mediante la satira. La società capitalistica favorisce la “nevrosi” dell’aggiornamento sugli acquisti. Di contro i personaggi di Monica Heller si percepirebbero alla classica accusa d’un < ma perché te ne stai sempre lì, impalato? >. Non funziona nemmeno un’unità narrativa, connettendo i vari “tasselli” degli schermi esposti.

Per Renita Boyle, liricamente, oggi esisterebbe una Beak Generation (parafrasandola da Jack Kerouac). Più genericamente, un’allitterazione si percepirebbe “da hipsters”. Il gadget è adoperato per rimarcare un possesso; e così l’abbigliamento accetterà le taglie abbondanti, le trame a quadri, i risvolti ecc… E’ una vera ipertestualità, cara al social network. Un’allitterazione quasi pare a “beccare” sopra le parole.

A Venezia, una videoinstallazione di Monica Heller riguarda l’animazione d’un cagnolino. Pare che questo “scambi” le bacchette per il cibo col dorso d’un quaderno, e soprattutto innanzi ad una ciotola. Spesso si sente la contestazione “volgarmente” pragmatica per cui con la cultura non “si mangia”. Il cagnolino sarebbe un po’ titubante, suscitando in noi una malinconia. I grandi occhi da hipster non localizzerebbero nulla, dentro ad un radar spento, per le orecchie dal risvolto ingombrante. Il libro dal canto suo sarebbe un gadget del nerd, in via “intellettualoide”. Almeno gli Occidentali non hanno l’abitudine di mangiare con le bacchette. Queste riceveranno male il piatto. La titubanza delle pupille si percepirebbe all’allitterazione con le lettere del testo, dal quaderno. Una vera cultura allena ad essere “sospettosi” verso la propaganda consumistica.

Il filosofo Jean Baudrillard ha scritto che solo modernamente gli strumenti diventano di qualità maneggevole. Subentra il “guadagno estetico” d’un loro comfort. Il rudimentale scalpello non sposava la forma del braccio che lo muoveva, bensì solo la forza di questo (nel suo pragmatismo). Principalmente coi lavori pesanti, la corporeità “s’imponeva” sugli strumenti. Contava solo la gestualità dell’individuo. Qualcosa che oggi si farebbe seguire dai suoi strumenti, grazie alla tecnologia meccanica e digitale. Se creiamo una manopola, ad esempio, è per “sostituire” la mano. La nostra gestualità diventerà tendenzialmente irrilevante. Non c’è un mero utilizzo, bensì un utilizzo con maneggevolezza. Ricordiamo la presenza delle tastiere, nella strumentazione digitale. Per attivare il funzionamento, basta la maneggevolezza del dito sul pulsante. Alla fine, la nostra corporeità va il più possibile astraendosi.

A Venezia, Monica Heller appende al soffitto una grossa palla, la quale funge da schermo per l’animazione d’un occhio. La tecnologia dei mass media rischia di controllare la vita del singolo individuo. E’ la celebre distopia del Grande Fratello. La palla dell’artista risulta appesa in alto, e come un sole avente le “tempeste” dei vasi retinici. Se la luce placidamente serale del padiglione, in tono blu, servisse ad impedire l’abbaglio d’una franosità, rimarrebbe l’inquietudine per un’atmosfera dal comfort ipnotico. L’oggetto appeso in alto è il meno maneggevole fra tutti. In compenso il Grande Fratello favorisce l’omologazione dei gusti, nella società. Monica Heller la “filtra” mediante una pupilla costantemente alle calcagna del nostro nascondimento. Forse la società capitalistica abbisogna di pulsare, dai messaggi subliminali che spingono all’acquisto dei prodotti.

A Venezia, una videoinstallazione s’intitola Il piccione parlante. L’animazione antropomorfica si carica d’un monologo, di critica alla società consumistica. Un piccione apparentemente è libero di svolazzare, schivati gli ostacoli dell’antropizzazione selvaggia. Tuttavia, le sue parole c’instillano l’inquietante dubbio d’aver perso perfino l’autocoscienza, mentre la frenesia distrae. L’uomo che “svolazza” fra le sliding doors d’una metropolitana, da un classico esempio, non può mai farlo con naturalezza. Quello è un automatismo “posticcio”, e per il solo scopo di garantire un ordine sociale, in accordo con la biopolitica (dalla filosofia). Qualcuno tende a percepire il piccione domestico come invasivo. Il suo guano è addirittura irridente, per i cittadini vestiti con “classe”. Né possiamo rassicurarci sulla sincerità d’un Grande Fratello che finalmente “vuoti il sacco” sul controllo biopolitico. Il piccione arriva a rivendicare freddamente: < Hai voluto la bicicletta? Allora pedala! >. Esso ammette che le nostre città sono sporche (dal traffico, dal cemento, dalle insegne ecc…); e lo fa offrendosi di rimediare al problema, aggiungendovi la naturalezza del… suo guano! Nella satira del soliloquio, pare che le nazioni del mondo differiscano solo per le capacità dell’aspirapolvere più venduto. A questo punto, tanto varrà che il piccione ci metta le sue ali… Esso “contribuirà” (!) allo smistamento della polvere, fra i tetti. Sulle travature e sulle ringhiere, si rappresenterebbe una “gigantografia” per i piatti alla lavastoviglie. Nella metafora dell’aspirapolvere, “si vuota il sacco” del pericoloso nazionalismo, in merito alla contesa sui territori. Il piccione abita sempre i confini dell’abitazione, sul tetto. Nel soliloquio preparato dall’artista, s’accenna ad un eventuale ritorno agli svolazzi naturali, tra le fronde dell’albero. Simbolicamente, è la Colonna d’Ercole che si limita a racchiudere, per un vero comfort (senza il “peso” dell’impedimento a scavalcarla, verso il cielo). Di sicuro il piccione vive meglio, rispetto a noi, la contemporaneità della Beak Generation (sotto le continue “sollecitazioni” per gli obblighi di lavoro). L’artista ha dichiarato che, per elaborare il soliloquio, lei s’era divertita a digitare su Google una parola chiave, copiando poi la frase sviluppata dal suggerimento tramite l’indicizzazione. Esteticamente, vi funziona un beak.

A Venezia, da una videoinstallazione di Monica Heller proviamo a riconoscere l’antropomorfismo d’una luna cerebrale. Scegliendo questo, il sezionamento della fase s’indirizzerebbe verso la realizzazione biologica d’una zucca. Si percepisce troppa “stupidità” affinché l’astro si regga autonomamente, e sino al punto da influenzarci (in accordo con l’oroscopo). Anzi il pallore risalterebbe per il “blocco” dell’inquietudine. Il volto dai tratti umani ha un’espressione affaticata, complici le rughe. Ciascuna irradiazione si tratterebbe in se stessa: al “sudore ghiacciato” dei brividi, per sinestesia. La “palla” cerebrale, sghemba sino ad uscire dall’inquadratura, sarà quella al piede d’una fatica tanto immane quanto infinita (a livello spaziale). Torna il mito di Sisifo, antropologicamente.

Monica Heller ha anche allestito un libro, per una graphic novel che s’intitola Thirst for success. Questa è stata realizzata in collaborazione con altre persone (artisti ed intellettuali). Tutto parte da un bar, ufficialmente frequentato dai borghesi, ma pure ambito dai salariati, almeno di notte. Alla sete di successo che “infetta” il capitalismo, dovrebbe succedere una più sana escatologia, di riscossa sociale, da parte dei poveri. Però è sufficiente una semplice incomprensione, perché si spezzi immediatamente “l’aura” del comunitarismo, contro l’individualismo. Infatti sparisce una lampada; e l’assurdità nichilistica ironicamente cara all’artista non ha nemmeno il tempo di concedersi il “sogno” riconciliante di Aladino… Alla fine il comunitarismo rischia di tornare a contraddirsi, sulle mansioni da accettare: ad esempio perché il controllore eccede con lo spionaggio. Monica Heller “stoppa” qualsiasi tentativo di politicizzare troppo a sinistra il suo libro. Al bar magari preferiamo tergiversare (fra una consumazione e l’altra), anziché progettare, anche perché non è possibile proteggere la clandestinità, nel caso degli autentici ribelli. Vale la precarietà delle turnazioni, alle pause rapide di lavoro. C’è una limitazione per l’idealismo politico, se le sliding doors del bar si riflettono alla dose rincarata d’una banale distrazione, come la scomparsa d’una lampada, che costringe ad ironizzare sulle proprie velleità di riscossa sociale. Più “neutralmente”, l’esistenzialismo insegna che rimaniamo “condannati” a scegliere, ai “bivi” d’una dialettica (fra il bene ed il male, il vero ed il falso, l’utile ed il dilettevole ecc…). In alcune pagine del libro, la narrazione quasi si dipana con un montaggio cinematografico. Conta il botta e risposta, già caro alle riunioni operaiste.


Paolo Meneghetti

Paolo Meneghetti, critico d’estetica contemporanea, nasce nel 1979 a Bassano del Grappa (VI), città dove vive da sempre. Laureato in filosofia all’Università di Padova (nel 2004), egli ha scritto una tesi sull’ estetica contemporanea, in specie allacciando l’ ermeneutica di Vattimo alla fenomenologia francese (da Bachelard, Bataille, Deleuze, Derrida). Oggi Paolo Meneghetti scrive recensioni per artisti, registi, modelle, fotografi e scrittori, curando eventi (mostre o conferenze) per loro, presso musei pubblici, fondazioni culturali, galleristi privati ecc... Egli in aggiunta lavora come docente di Storia e Filosofia, presso i licei del vicentino.

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